Con l'attacco alla Siria hanno “normalizzato” Trump (1 Viewer)

tontolina

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Attenti: hanno “normalizzato” Trump

Attenti: hanno “normalizzato” Trump –



Verrebbe da dire: c’era una volta Trump.

C’era, fino a poche settimane fa, un presidente che prometteva un’America diversa da quella di Obama ma anche di Bush, di Clinton, di Bush padre. Un’America intenzionata a rompere nettamente con la dottrina neoconservatrice, che in nome della lotta al terrorismo e di un mondo migliore ha ottenuto, dal 2001 ad oggi esattamente l’opposto: più instabilità in tutto il Medio Oriente, più fondamentalismo islamico, la nascita dell’Isis e una serie di attentati nelle capitali europee. Quell’America si proponeva di non essere più il poliziotto del mondo e pareva ansiosa di fare la pace con Putin.

Non fatevi ingannare dal rumore mediatico degli ultimi mesi: a disturbare l’establishment americano e quello Stato Profondo (Deep State) che in realtà governa l’America e che accomuna repubblicani e democratici, non era solo la persona di Donald Trump, quanto, soprattutto, le sue idee, quel progetto di America.

Quanto avvenuto la notte scorsa in Siria segna un cambiamento radicale nello spirito e nelle intenzioni di Trump. Cinque mesi di campagna martellante contro il presidente eletto hanno prodotto, evidentemente , gli effetti auspicati. E non mi riferisco solo alle manifestazioni di piazza, all’opposizione isterica della stampa, alle sentenze dei giudici (a proposito: ricordate l’articolo di Kupchan? Era profetico).
Trump non è stato capace di resistere al boicottaggio che proveniva dall’interno delle istituzioni e dall’apparato dell’intelligence e della difesa. E chissà a quali altre pressioni e minacce. Si è lasciato avvinghiare, inghiottire
da quel mondo che prometteva di combattere.
Tutto in appena due mesi e mezzo dal giorno del suo insediamento.

L’errore più grande lo ha commesso quando ha accettato che uno dei suoi consiglieri più fidati, Flynn, si dimettesse. Un commentatore acuto e davvero indipendente quale Paul Craig Roberts lo aveva capito subito: quel cedimento era devastante, perché spaccava il fronte dei fedelissimi ma soprattutto perché rompeva la posizione di Trump sul “caso Russia”, che poteva diventare così un caso nazionale.
Della serie: Se Flynn si dimetteva c’era qualcosa da nascondere. E allora via con le pressioni. Ancora oggi mancano prove concrete sulle ipotetiche collusioni con Mosca per condizionare il voto, ma il “deep state” lo ha fatto diventare il Caso Nazionale con toni maccartisti, paventando persino un impeachment nell’arco di qualche mese. Un impeachment sul nulla, ma questo era secondario.

Flynn era la mente della nuova politica estera e di sicurezza dell’Amministrazione Trump. Un’Amministrazione che si è via via riempita di ministri, consiglieri ed esperti appartenenti alla vecchia guardia. All’inizio quelle nomine, poco coerenti, parevano una concessione obbligata al Partito repubblicano che controlla il Congresso, nella supposizione che le redini sarebbero rimaste nelle mani del presidente. Ma si è rivelata una falsa speranza. E quando, l’altro ieri, l’altro suo più fedele collaboratore, lo stratega politico Bannon è stato estromesso dal Consiglio di sicurezza nazionale, l’accerchiamento si è concluso.
Il segretario di Stato Tillermann si è rapidamente allineato all’establishment e ora a guidare la politica estera e di difesa, a consigliare il presidente sono gli esperti della Washington di sempre.


E si vede: la distensione con il Cremlino appare sempre più lontana; anzi proprio i ministri della nuova amministrazione alimentano la retorica antirussa con le stesse argomentazioni e lo stesso tono di Obama. Il Trump di qualche mese fa avrebbe preteso la verità sull’uso del gas in Siria, quello di oggi, invece, ha proclamato – senza ombra di dubbio – che molte linee rosse erano state superate. Proprio come Obama nel 2013. Peccato che allora, in seguito, si scoprì che a usare il sarin erano stati i “ribelli” moderati per far cadere la colpa su Assad e provocare l’intervento della Nato.
Sarin la cui consegna sarebbe stata autorizzata da Hillary Clinton.
Ed è molto verosimile che anche la strage dell’altro giorno sia stata provocata dai “ribelli” per fornire agli Stati Uniti un pretesto per intervenire.

Solo che nel 2013 Obama si fermò all’ultimo minuto, il Trump di oggi no. Ha fatto tutto in fretta, senza riscontri oggettivi sulle responsabilità di Assad, evidentemente mal consigliato. O consigliato benissimo, dipende dai punti di vista. Intanto l’Isis e i fondamentalisti islamici che combattono Assad ringraziano: la distruzione della base siriana avrà un solo effetto concreto, quello di indebolire l’esercito siriano e dunque di rimettere in discussione una vittoria che sembra certa.

E’ così che si combatte lo Stato Islamico?
Non ci prendano in giro: così lo si favorisce,perché l’obiettivo di Washington è il cambio di regime a Damasco anche a costo di vedere trionfare in Siria il peggior integralismo islamico.

Non è un caso che a salutare l’interventismo della Casa Bianca siano stati proprio Hillary Clinton e John McCain. L’impressione è che l’agenda Trump sia già stata sconfessata a beneficio di quella irresponsabile e interventista portata avanti negli ultimi 15 anni dai neoconservatori.

Se ciò fosse vero, significherebbe che Trump è stato “normalizzato”. E per la pace nel mondo sarebbe una pessima notizia.

Resta una sola flebile speranza: che si tratti di un riposizionamento transitorio e non di una resa. Che l’uomo sia capace di riscattarsi. Ma probabilmente, a questo punto, più che una speranza è un’illusione.

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tontolina

Forumer storico

  • La svolta di Trump

    Donald Trump
    ha battuto un colpo (decisamente forte) per far sentire al mondo che l’America c’è, che non si è ritirata entro i propri confini, e non intende restare a guardare quello che accade senza dire la propria. Basta con la linea soft, quella che si traduceva con lo star fuori dal conflitto in Siria. Una strategia che, di fatto, aveva consegnato le chiavi di Damasco alla Russia e all’Iran.
    Ora l’America, sostenuta e supportata da Israele, vuol tornare a giocare un ruolo di primo piano nello scacchiere mediorientale. L’attacco missilistico contro il regime di Bashar al Assad segna una svolta nel conflitto che dura da più di sei anni. Trump aveva fatto trapelare le sue intenzioni a margine del confronto con re Abdullah di Giordania: “Il mio atteggiamento su Assad è molto cambiato“. Poi, mentre Xi Jinping si trovava in Florida per il primo incontro con il leader americano, la decisione di Trump di colpire.

    Nel suo discorso al Paese Trump ha spiegato che “il raid è vitale per gli interessi di sicurezza nazionale statunitense, affinché venga impedita la diffusione e l’utilizzo delle armi chimiche”. Regno Unito, Israele, Arabia Saudita, Giappone, Australia, Turchia e Italia hanno appoggiato ufficialmente l’intervento, definendolo una risposta “appropriata”. Stesso termine usato dal Pentagono.

    Una cosa è sicura: l’operazione militare segna un deciso cambio di rotta degli Usa, che intervengono direttamente laddove Obama aveva solo minacciato di farlo, dopo gli attacchi chimici della Ghouta, a Damasco, nel 2013 [che successivamente si rivelarono fatti proprio dai ribelli moderati]. È questo il segnale che Trump vuol mandare al mondo: basta con l’America debole e irrisoluta di Obama. Ora la musica è cambiata ed io sono pronto ad assumermi le mie responsabilità
    Questo è il senso dei 59 missili Tomahawk lanciati contro la base siriana.
    Ma Trump vuol davvero imbarcarsi in una nuova guerra? Per il momento sembrerebbe di no. L’America vuol solo tornare a esercitare il proprio ruolo di leader anche in Medioriente. E manda anche un segnale forte a Kim Jong-un: attento, non tirare troppo la corda.

    La caduta di Assad, fortemente sostenuto da Mosca e Teheran, sembrava non essere più in cima alle priorità statunitensi.
    Poi, con l’attacco chimico di Idlib, è arrivato il cambio di strategia.
    È l’inizio della fine per Assad?
    Ancora presto per dirlo. Assai improbabile che Trump voglia davvero imbarcarsi in una nuova avventura bellica. Di certo, come rileva Francesco Strazzari, esperto di terrorismo della Scuola Sant’Anna di Pisa, ai microfoni di RaiNews24, la sua scelta “sembra avere sovvertito le aspettative verso una presidenza che certamente non sembrava essere stata eletta per portare un’azione militare in Siria”. Trump ancora una volta ha stupito tutti.



    Tag: Assad, Russia, Siria, Trump
    Questo articolo è stato scritto venerdì 7 aprile 2017 alle 09:48 nella categoria Siria, Trump.

    « Trump cambia idea su Assad
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tontolina

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EMERGENCY
4 ore fa ·
La strage di Idlib è stato l’ultimo gravissimo episodio della guerra in Siria. Davanti a quello scempio, c’erano due scelte: fermarsi e capire che stiamo accelerando sulla strada dell’autodistruzione o reagire con violenza alla violenza.

Si è scelta la seconda.

L’appello di Trump ai Paesi occidentali a unirsi alla missione militare ripete una storia già vista altre volte e che ha sempre la stessa conclusione. Non sono servite le esperienze fallimentari dell’Afghanistan, della Libia e dell’Iraq, Paesi devastati da conflitti di cui non si riesce nemmeno a immaginare la fine.

Dall’altra parte del mondo, in Corea del Nord, si rischia di accendere un conflitto che – se sarà – sarà un conflitto nucleare.
Quanti altri morti dovranno esserci prima di capire che la guerra è sempre l’opzione più disumana e inutile?

Oggi possiamo ancora decidere di rinunciare alla guerra: non abbiamo altre alternative se non la distruzione e la violenza a cui stiamo assistendo.

La guerra si può solo abolire.

Gino Strada
 

tontolina

Forumer storico
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VIDEO. Parlamentare USA: Assad non ha usato armi chimiche contro il suo popolo
 

tontolina

Forumer storico
Crisi Siriana
La bufala dell'Osservatorio Siriano dei diritti umani
Categoria principale: medio oriente e golfo
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Crisi siriana, aprile 2013 - La foto di lato si riferisce alla "strage du Hule", opera dei "ribelli" siriani di AlQaida. Tutto il mondo pensava però che ne fosse responsabile l'esercito regolare e il presidente Bachar al-Assad. Merito dell'Osservatorio siriano dei diritti umani, che è riuscito a diventare unica fonte di informazione su quanto accade in Siria e ha bombardato i media internazionali di false informazioni. Oggi il New York Times scopre che "l'Osservatorio" è in realtà una sola persona, abita a Londra ed è finanziata dal governo inglese...


L'Osservatorio Siriano per i Diritti Umani è un'impostura che ha sede a Londra
Tra le organizzazioni anti-assadiste che operano nel quadro della destabilizzazione della Siria c'è anche l'organo d'informazione che fa capo a Rami Abdel Rahman, un uomo che vive Oltremanica da 15 anni ed è vicino al ministero degli Affari Esteri inglese

Sebastiano Caputo - Mer, 28/10/2015 - 13:01

L'Osservatorio Siriano per i Diritti Umani è un'impostura che ha sede a Londra
 

tontolina

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Il vero senso dell’attacco di Trump alla base siriana



Testacoda, pentimenti, scuse; la scelta di Donald Trump di avallare il bombardamento alla base aerea siriana di Sharyat ha consegnato una intera fetta di opinione pubblica, quella pro-Trump e contemporaneamente pro-Putin, all’incomprensione e quasi al panico. In realtà sembra che poche persone abbiano provato a vederci più a fondo nella vicenda mantenendo raziocinio e buona capacità di lettura.

Quel che sappiamo, e lo sappiamo da tempo, è che il Presidente americano, chiunque esso sia, non detiene poteri sconfinati. Il suo campo d’azione è continuamente mediato da vari strati di funzionari, responsabili, direttori di dipartimenti e uomini che si muovono dietro le quinte e spesso lontani dai riflettori. Sto parlando del cosiddetto deep state americano, un insieme di personaggi che ancora oggi più di altri incarna le esigenze della diplomazia a stelle e strisce per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni, all’insegna del tentativo di conservare e rafforzare la posizione di predominio globale degli States con politiche interventiste.

L’elezione di Trump era stata salutata come una rottura anche nei confronti di questa porzione di potere, oltreché rispetto alle scelte di politica estera per cui si erano contraddistinti i democratici negli anni di gestione Obama, con Hillary Clinton in prima fila quale rappresentante di un filone liberal capace di coniugare una presunta appartenenza a valori di sinistra democratica ad una spiccata aggressività geopolitica, condita da una forte tensione antirussa.

Trump si è già rimangiato le parole, mostrandosi uguale ai suoi avversari d’un tempo?
Direi di no. Più semplicemente, come spiegato ieri sulla nostra pagina nel commentare il raid in Siria, si è dimostrato più influenzabile di quanto si credesse proprio da quei settori del deep state che fin dal giorno della sua elezione ne hanno minato il percorso e le promesse elettorali, tra richieste di dimissioni, proteste di piazza ben alimentate e guai giudiziari sempre pronti a scoppiare.

The Donald, assieme ai suoi uomini, ha dovuto e deve tuttora fare i conti con questo tipo di pressione. Se Rex Tillerson ha mostrato una ottima capacità di adattamento al potere, molto meno adatti possono essere sembrati Flynn e Bannon, altri personaggi sacrificati sulla strada di una apparente resa a forze esterne a quelle presidenziali.


Arriviamo così all’intervento in Siria, e alla giravolta nei confronti di Assad. Tanto per cominciare
, diventa oltremodo ingenuo pensare che la reazione militare sia stata scatenata da un attacco emotivo del presidente alla vista delle immagini dei bimbi colpiti dai gas chimici, visto che di morti, anche giovanissimi, in Siria ce ne sono da anni e da anni ci vengono quotidianamente mostrati, causati da ambo le parti in una situazione bellica ancora irrisolta.

Puntando sulla tesi dei cambiamenti repentini di umore, per usare Aldo Giovanni e Giacomo, le cronache di questi giorni non hanno ben inquadrato cosa ha rappresentato e cosa con ogni probabilità rappresenterà l’attacco alla base siriana nei giorni a venire. Un attacco lungi dal poter essere paragonato ad una operazione bellica su larga scala in stile Iraq 2003, i cui tempi e modalità di preparazione anche diplomatica sono ben più lunghi dello stato dei lavori ad oggi riscontrabile nei confronti della Siria.

Manca una idea su come sostituire Bashar Al Assad, vi è la presenza della Russia con la sua estrema contrarietà ad un intervento armato, ma vi sono soprattutto larghi strati di popolazione americana, di collaboratori e di aficionados del Presidente eletto che non vedrebbero di buon occhio un ennesimo intervento armato.

Ecco che allora arriva un attacco missilistico estemporaneo di portata tutto sommato limitata, con danni tutto sommato limitati e nemmeno ancora ben chiariti, con notizie di una base aerea pure ancora funzionante e di missili mai giunti a destinazione. Un attacco di cui la Russia era stata tra l’altro preallertata che, più che un cataclisma mondiale o il preludio di un conflitto interplanetario, sembra un colpo sbattuto sul tavolo, un segnale di presenza e di autonomia che Trump ha voluto concedere proprio per mediare e non arrivare allo scontro con quei settori interventisti che tanti problemi hanno creato e possono ancora creare alla sua presidenza.

Una concessione quasi dovuta a livello politico interno, ma circostanziale e tutto sommato limitata negli esiti, un avvertimento multidirezionale di cui Putin può essere stato messo al corrente e i cui esiti, abilmente strumentalizzati proprio per alimentare una sensazione di attacco grave, sono pure utili alla Russia e alla Siria per evitare uno scontro militare tra USA e Siria di ampia portata nonché una immediata degenerazione del conflitto, certamente possibile se al posto di quella Trump ci fosse stata una presidenza dall’accento ben più interventista e dalle idee più strutturate ed uniformi in tema di politica estera.

Un attacco estemporaneo quindi, di cui, volendo fare i complottisti (me lo si concederà, preferisco aggiungere chiavi di lettura piuttosto che levarle), pure Assad poteva essere non del tutto disinformato, attacco accettato nella speranza e nella credenza che possa rappresentare l’emblema di una linea d’azione tutto sommato limitata, capace di ridurre i danni derivati da uno scontro frontale pianificato.

Una scelta diplomaticamente utile insomma, che può far storcere certamente il naso e che può preludere ad un inasprimento dei rapporti, ma che a livello politico per ora non sembra niente di più che un colpo simbolico per tentare di sparigliare le carte, mandare un avvertimento e un segnale di presenza sia agli alleati (da sempre perplessi sull’affidabilità occidentalista di Trump) che ai nemici, tacitando il dissenso dell’establishment interno e mostrandosi indipendente ed imprevedibile agli occhi dell’elettorato.

Come detto, difficilmente credo che il tutto evolverà verso un conflitto strutturato su larga scala. Lecito ora chiedersi se i testacoda, le scuse e le sudate lette in questi giorni in molti network non siano stati leggermente avventati?
 

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