COMUNQUE IL PRIMO ANNO DI ISOLAMENTO E' IL PIU' DIFFICILE POI CI SI ABITUA (1 Viewer)

Val

Torniamo alla LIRA
Le leggi si rispettano, lo sanno anche i bambini.

Ma se si ritengono inique, è lecito violarle?

Molti risponderebbero: mai, sarebbe troppo facile, ognuno si sentirebbe in diritto di non osservarle e sarebbe il caos.

E così, per stare all’attualità: il lockdown subìto dagli Italiani, dicono alcuni, è sì avvertito come limitante; “ma che ci vuoi fare, è la legge”.

Non è affatto così semplice (per fortuna).

Quando si ritenga che una legge leda manifestamente i propri diritti inviolabili, esiste la possibilità della disobbedienza civile,
in applicazione del cosiddetto diritto di resistenza.

Sgomberiamo subito il campo da possibili equivoci: esiste una correlazione logica tra rivoluzione e diritto di resistenza,
perché in entrambi i casi c’è la volontà di violare la legge, ma i concetti non vanno confusi, perché in realtà sono di significato opposto.

In un sistema democratico, la rivoluzione è eversiva, perché mira a rovesciare il sistema esistente,
mentre la resistenza è conservativa, verificando una espressione di fedeltà del cittadino ad un sistema che tutela un suo diritto minacciato dall’arbitrio dell’autorità.

La prima manifestazione del principio per cui è ammissibile non rispettare le leggi, quando esse vanno contro la coscienza e i diritti umani,
viene fatta risalire alla Grecia del V secolo a.C., quando Sofocle scrive la sua tragedia Antigone.

L’opera ruota intorno all’avvenuta sepoltura in segreto di Polinice – avversario politico del Re Creonte – dentro le mura di Tebe,
nonostante un decreto regio gli avesse negato, a pena di morte del seppellitore, una degna inumazione.

La sorella Antigone, autrice del fatto, viene scoperta e portata al cospetto di Creonte.

Accusata del delitto, si difende non negando di essere a conoscenza del divieto, ma appellandosi a un diritto superiore:

“a proclamarmi questo non fu Zeus, né la compagna degl’Inferi, Dice, fissò mai leggi simili tra gli uomini.
Né davo tanta forza ai tuoi decreti, che un mortale potesse trasgredire leggi non scritte, e innate, degli dei.
Non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero, né di dove.
E a violarle non poteva indurmi la paura di nessuno fra gli uomini, per poi renderne conto agli dei.
Sarei morta: lo sapevo anche senza il tuo bando.”.

In nome, dunque, di questo diritto naturale, di origine divina, Antigone compie il primo atto di consapevole disobbedienza civile alla legge conosciuto.

Il conflitto tra il diritto positivo (norme poste, ossia scritte, dagli uomini)
e il diritto naturale si è da allora spesso riproposto nella Storia e ha impegnato nei secoli molti studiosi.

Un passaggio cruciale si ebbe nella Magna Charta Libertatum redatta dall’Arcivescovo di Canterbury
e accettata il 12 giugno 1215 dal Re d’Inghilterra Giovanni “Senza Terra” per raggiungere la pace con un gruppo di nobili ribelli.

Il documento prevedeva una serie di garanzie, tra cui la protezione dei civili dalla detenzione ingiustificata e una rapida giustizia.

Il pensiero costituzionale inglese, che si è rivelato la fonte primaria del diritto di resistenza
(anche se parallelamente, pure S. Tommaso d’Aquino in Italia e la Scuola di Salamanca in Spagna elaboravano tesi originali in tema)
si sviluppò intorno a quel testo e alle sue integrazioni e interpretazioni susseguitesi nel tempo, passando anzitutto per l’Habeas Corpus Act,
emanato il 27 maggio 1679 da Carlo III d’Inghilterra, che codificava l’emissione del writ (ordinanza)
mediante la quale una Corte reale poteva ordinare a qualsiasi altra giurisdizione la consegna del prigioniero garantendolo dall’arbitrio signorile.

Ancora oggi, nel sistema anglosassone, l’Habeas corpus è il diritto di richiedere a un giudice l’emissione di un ordine,
diretto a un’autorità pubblica che ha eseguito un arresto, per rendere ragione della detenzione di quella persona,
ed è considerato uno dei principali presidi di salvaguardia della libertà individuale contro le detenzioni arbitrarie.

L’ulteriore passaggio fu il Bill of Rights della gloriosa Rivoluzione inglese del 1688-89,
emanato al termine di cinquant’anni di lotte tra Corona e Comuni, che influenzò poi tutte le Costituzioni liberali occidentali, oltre che – ovviamente – quella americana.

Il diritto di resistenza trovò quindi riconoscimento all’interno della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 5 luglio 1776:

“Noi riteniamo che tutti gli uomini sono stati creati tutti uguali, che il Creatore ha fatto loro dono di determinati inalienabili diritti
che ogni qualvolta una determinata forma di governo giunga a negare tali fini, sia diritto del popolo il modificarla o l’abolirla,
istituendo un nuovo governo che ponga le basi su questi principi. Allorché una lunga serie di abusi e di torti tradisce il disegno
di ridurre l’umanità ad uno stato di completa sottomissione, diviene allora suo dovere, oltre che suo diritto, rovesciare un tale governo”.

Fonte a cui si ispirò anche l’articolo 2 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 della Francia rivoluzionaria, che stabiliva:

“Lo scopo di ogni società è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo.
Questi diritti sono la libertà e la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”.

Anche da noi alla fine del Settecento, sulla scia delle rivoluzioni americana e francese si studiò la questione.

Gaetano Filangieri
– amico e ispiratore di Benjamin Franklin, tra i padri della Costituzione americana
– ne La Scienza della Legislazione (1780-85) osservò che “non tutte le azioni contrarie alle leggi sono delitti,
non tutti quelli che le commettono sono delinquenti. L’azione disgiunta dalla volontà non è imputabile;
la volontà disgiunta dall’azione non è punibile.
Il delitto consiste dunque nella violazione della legge accompagnata dalla volontà di violarla”.

Il presbitero siciliano Nicola Spedalieri, nel Dei diritti dell’uomo (1791) si rifece al concetto di resistenza elaborato durante la rivoluzione francese,
alla luce delle teorie di San Tommaso.

Ma lo riferiva al “corpo della Nazione”, non ai singoli cittadini.

Fu però Francesco Mario Pagano, nella Costituzione della Repubblica partenopea del 1799,
a sviluppare il concetto di diritto di resistenza nel modo più originale, in tre direzioni:

  1. il diritto dell’uomo contro chi impedisce l’esercizio delle facoltà individuali;
  2. il diritto individuale del cittadino contro la tirannide;
  3. il diritto del popolo come argine contro gli abusi perpetrati dal potere costituito.
L’originalità del suo pensiero si tradusse anche nella previsione nella Costituzione dell’Eforato, una sorta di Corte costituzionale ante litteram.

A metà dell’Ottocento in Usa, l’argomento fu trattato in modo organico in una monografia di Henry David Thoreau,
La disobbedienza civile (“Non vi sarà mai uno Stato realmente libero ed illuminato, finché non giunga a riconoscere l’individuo
come un potere più elevato ed indipendente, dal quale derivino tutto il suo potere e la sua autorità, e finché esso non lo tratti di conseguenza”).

A lui si ispirarono successivamente Gandhi, che con la non violenza portò l’India all’indipendenza, e Martin Luther King.

Nel secondo dopoguerra, sulla scia del Processo di Norimberga e del rinnovato interesse per il riconoscimento del diritto naturale,
il principio della disobbedienza civile trovò spazio in alcune Costituzioni.

Ad esempio, nella Costituzione della Repubblica Federale Tedesca, all’articolo 20, 4° comma, si affermò:

“Tutti i tedeschi hanno diritto alla resistenza contro chiunque intraprenda a rimuovere l’ordinamento vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio”.

Anche in varie Costituzioni dei Laender venne formalizzato un diritto di resistenza.

Della disobbedienza civile parlava anche la Costituzione francese del 19 aprile 1946 (che poi però non fu approvata), all’articolo 21:

“Qualora il governo violi la libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza sotto ogni forma è il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri”.

Ma veniamo a noi oggi: nella Costituzione o comunque nell’ordinamento giuridico italiano c’è una norma specifica sul diritto di resistenza?

Nella Costituzione, onestamente, no.

Il che non vuol dire che la questione si chiuda qui:
il principio potrebbe essere desumibile da qualche altra norma della Carta fondamentale, anche alla luce dei lavori preparatori, o dell’ordinamento.

Vediamo anzitutto perché la Costituzione non preveda espressamente il diritto di resistenza.

Non certo perché non se ne parlò: all’Assemblea Costituente, il dibattito sulla questione, posta espressamente, durò circa un anno e fu particolarmente vivo.

Deve rilevarsi anzitutto come la netta differenza tra i concetti di rivoluzione e di disobbedienza civile, vista sopra,
all’epoca non fosse ben presente a tutti i costituenti, ma solo ai giuristi più lucidi.

La maggior parte dei delegati, infatti, si rifaceva all’atto eversivo, di cui Vittorio Emanuele Orlando,
nel suo Diritto pubblico generale del 1940, aveva così parlato:

“ogni rivoluzione comporta inizialmente uno stato di fatto ed anzi di violenza, poiché in via antigiuridica
(tale deve dirsi in rapporto allo stato preesistente) assale e distrugge il diritto vigente e ne sostituisce un altro.
Vi è dunque un momento logico di non-diritto, in quanto, mentre il vecchio diritto viene meno, il nuovo non si è ancora instaurato;
e al momento logico corrisponde, poi, un effettivo periodo cronologico di profondo turbamento e sconvolgimento, per cui la vita del diritto è come sospesa”.

Giuseppe Dossetti, forse perché unico tra i professori democristiani costituenti ad essere stato partigiano attivo
(gli altri erano Giuseppe Lazzati Amintore Fanfani Giorgio La Pira e Aldo Moro), avanzò la sua proposta
in prima sottocommissione ispirandosi invece alla Costituzione francese del 1946:

“La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri che vìolino le libertà fondamentali
e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino”.

Concetto Marchesi
osservò criticamente che “un’insurrezione contro i poteri dello Stato non avrebbe bisogno di appellarsi ad un articolo della Costituzione”.

Aldo Moro,
inquadrando correttamente la questione, osservò invece:
“si precisa come al singolo, o alla collettività, spetti la resistenza contro lo Stato, se esso, avvalendosi della sua veste di sovranità,
tenta di menomare i diritti sanciti dalla Costituzione e dalle leggi”.

Carmelo Caristia fraintese tra rivoluzione e resistenza, e si dichiarò contrario,
sostenendo che “il diritto alla resistenza corrisponde ad un movimento chiamato rivoluzione,
che quando fosse riuscito ad affermarsi, non avrebbe alcun bisogno di appellarsi ad un articolo della Costituzione”.

Altri paventarono il rischio che una tale disposizione potesse divenire oggetto di abuso da parte del cittadino.

Ma Umberto Tupini dichiarò che “Il pericolo che il cittadino abusi di quest’arma, che la Costituzione gli pone nelle mani,
in Italia non vi sarà; perché, in ultima istanza, sarà sempre il giudice a decidere se il singolo ha fatto buon uso del suo potere
ed ogni ordinamento giuridico trova la sua messa a punto nell’opera costante della giurisprudenza”.

Palmiro Togliatti, anche lui fraintendendo il concetto, si mostrò disposto ad accettare l’articolo,
pur annettendo poca importanza alla giustificazione legale, poiché “ciò che legittima una rivoluzione è la sua vittoria”;
esprimendo però perplessità per la strumentalizzabilità del concetto per fini meno nobili e assai più banali
di quelli di difesa da un oppressione politica, come “ad esempio nel caso di uno sciopero fiscale di fronte a nuove tasse”.

Mario Cevolotto
osservò che “è anche un dovere, specialmente nei riguardi di alcune categorie di cittadini,
come per esempio i pubblici ufficiali che devono avere il dovere di opporsi a un ordine del superiore che sia contrario alle norme della Costituzione”.

Comunque, la prima sottocommissione approvò a grande maggioranza l’articolo, e dopo il passaggio nel Comitato di redazione (o dei 18)
il testo sulla resistenza entrò – leggermente modificato – come secondo comma dell’articolo 50, nel progetto di Costituzione.

Rispetto all’ originale di Dossetti, infatti, il testo apparve già notevolmente più debole:

“Quando i poteri pubblici vìolino le libertà fondamentali e di diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”.

Resistere ad “atti” che violino la Costituzione, è ben diverso che resistere “all’oppressione”, concetto troppo generico.

A questo punto, però, le cose presero una piega imprevista.

Probabilmente anche per beghe interne alla DC, ma soprattutto nel timore di riconoscere il diritto di rivoluzione
e quindi di aprire la via a una strumentalizzazione comunista e separatista di questa norma.

La proposta di Dossetti venne attaccata dagli altri leader democristiani, in particolare Fiorentino Sullo (ispirato probabilmente da Mortati):

“un autorevole costituzionalista della commissione dei 75 mi ha detto che attribuiva a questo articolo un valore pedagogico.
Non capisco come la Costituzione possa fare pedagogia. La pedagogia non è politica”.

Costantino Mortati
stesso, dapprima favorevole, presentò un emendamento:

“È diritto e dovere dei cittadini, singoli o associati, la resistenza che si renda necessaria a reprimere la violazione dei diritti individuali
e delle libertà democratiche da parte delle pubbliche autorità”.

Rossi si dichiarò contrario perché la pretesa di disciplinare legalmente l’insurrezione era infantile.

“Si potrebbe correre persino il rischio di essere arrestati sia perché si resiste sia perché non si resiste”.

Non possiamo riportare qui tutti gli interventi assembleari sul tema; ma uno ancora sì, per smontare il mito del particolare rigore argomentativo dei costituenti.

Francesco Colitto
(Uomo Qualunque) affermò infatti che

“qualunque sia il motivo da cui un cittadino possa essere indotto a disobbedire alla legge legittimamente emanata,
quel cittadino deve essere sempre considerato un ribelle e trattato come tale”

giungendo alla conclusione che il diritto di resistenza come tale non esiste.

Una dichiarazione di livello logico non certo trascendentale.

Sta di fatto che, quando si votò il testo dell’attuale articolo 54 (che intanto aveva sostituito l’articolo 50 del Progetto),
il diritto di resistenza fu soppresso, nonostante il voto favorevole dei comunisti, dei socialisti e degli autonomisti, finendo assorbito nel principio di fedeltà.

Mortati
ne firmò infine l’epitaffio:

“Non è al principio che noi ci opponiamo, ma alla inserzione nella Costituzione di esso
e ciò perché a nostro avviso il principio stesso riveste carattere metagiuridico, e mancano, nel congegno costituzionale,
i mezzi e le possibilità di accertare quando il cittadino eserciti una legittima ribellione al diritto e quando invece questa sia da ritenere illegittima.
Siamo condotti con questa disposizione sul terreno del fatto, e pertanto su un campo estraneo alla regolamentazione giuridica.
Si è detto che questo articolo potrebbe avere un valore educativo, e questo è vero.
Ma bisogna allora stabilire se la Costituzione debba essere un testo di legge positiva, oppure un trattato pedagogico”.

Così, l’ardita proposta di Dossetti, apprezzata da molti altri illustri costituenti, non trovò seguito nella Costituzione,
che partorì la norma un po’ retorica del dovere di fedeltà di cui all’articolo 54. Un’occasione persa.

Molto probabilmente sull’esito del voto influirono, oltre le motivazioni di opportunità politica,
anche una certa confusione di interpretazione tra il concetto di resistenza e quello di rivoluzione, come sopra ricordato.

Negli anni Settanta Mortati ebbe un ripensamento tardivo, ritenendo che il diritto di resistenza trovi la sua fonte costituzionale non
“nella sovranità popolare, ma nei diritti inviolabili”.

Dunque, se è vero che non esiste una norma specifica, il diritto di resistenza può ricavarsi dalle ratio di molte norme costituzionali
(es. articoli 1,2,3 e 54) perché esprime il principio di sovranità popolare, garantisce la tutela dei diritti inviolabili
ed è espressione del dovere di fedeltà alla Repubblica e non di obbedienza alle leggi dello Stato:
il dovere di fedeltà alla Costituzione, sancito dall’articolo 54, comporta il dovere di non obbedire alle leggi che sono in contrasto con essa.

Questo principio trova conforto anche in altre norme dell’ordinamento.

Ad es. nel Codice penale, l’articolo 51 esclude la punibilità dei fatti compiuti “nell’esercizio di un diritto
o “nell’adempimento di un dovere, imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità”;
e l’articolo 650 legittima la disobbedienza contro provvedimenti “non legalmente dati” dall’Autorità, ossia arbitrari.

Per i militari, inoltre, l’articolo 4 della legge 11-07-1978 n° 382 ha previsto il dovere di disobbedire all’ordine manifestamente illegittimo:

“Il militare al quale viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato
o la cui esecuzione costituisce comunque manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine e di informare al più presto i superiori”.

In conclusione: non si deve confondere il dovere di fedeltà alla Repubblica (e alla sua Costituzione) con quello di obbedienza delle leggi dello Stato.

Sono infatti concetti diversi e in caso di conflitto apparente, prevale la fedeltà.

Quindi l’ordinamento giuridico italiano riconosce il valore della disobbedienza civile.

Che, di regola, è non violento e passivo, ossia appunto una resistenza.

Ma non è detto; poiché, a seconda dei casi, potrebbe porsi il problema di intervenire attivamente,
in extrema ratio anche con l’uso della violenza, per impedire conseguenze irreparabili; e non sarebbe difficile,
in tale ipotesi, invocare – a seconda dei casi – le scriminanti previste dal codice penale:
legittima difesa, stato di necessità, esercizio del diritto, adempimento del dovere.
 

Val

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Val

Torniamo alla LIRA
Quella a cui stiamo assistendo, anche con il susseguirsi dei vari DPCM e le politiche Idio-europeiste del governo,
è una nuova guerra di classe che però non divide Capitalisti e Proletari, ma due nuove classi sociali:

  • i GARANTITI, cioè coloro che sono, o pensano, di essere tutelati dalla macchina statale o super-statale,
  • e quindi di essere, nel loro benessere personale, intoccabili e non intaccabili;

  • i NON GARANTITI, coloro che dipendono dal mercato, o hanno posizioni temporanee e precarie, dipendenti dall’andamento generale dell’economia.
I primi sono i 3,3 milioni dipendenti pubblici a cui aggiungere
un milione di dipendenti del privato che pensano di essere intoccabili per qualche loro personale status
(ad esempio i dipendenti dei Mass Media di massa, come le varie TV, che si sentono intoccabili,
salvo scoprire che, senza i non garantiti, possono essere lasciati a casa da un giorno all’altro).

Fra i garantiti poi pensano di essere tutti gli eletti, soprattutto di centro sinistra e pentastellati,
ed una fetta dei pensionati che, provenendo dal settore pubblico, sentono ancora la propria intoccabilità
.


Quindi ci sono i non garantiti:
un 14,7 milioni di dipendenti del settore privato, al netto di quelli che si sentono garantiti,
a cui aggiungere le 5 milioni di partite IVA ed una fetta dei pensionati, ancora attivi,
che si rendono conto come tutto sia collegato al settore privato, che è quello che genera una parte importante della ricchezza
e, soprattutto, quello che si trova a competere ogni giorno.

Queste due classi sociali lottano l’una contro l’altra armate ogni giorno.

La prima, meno numerosa, si comporta con l’attitudine, diremmo la spocchia, della élite,
ma spesso mostrano solo un profondo egoismo ed una grande superficialità.


I secondi sono troppo impegnati per Vediamo le contrapposizioni:

  • COVID-19.
  • I garantiti starebbero chiusi tranquillamente sino a Natale o a Pasqua del 2021, perchè, comunque prendono lo stipendio.
  • L’unico fastidio è quello di non poter viaggiare, ma pensano di rifarsi in futuro.
  • Naturalmente, soppesando la propria vita come il bene massimo assoluto, desiderano che tutti stiano chiusi in casa, con minacce di arresto.

  • I non garantiti invece vogliono soppesare il rischio del Covid con la certezza di essere in rovina
  • e quindi, con cautela, vorrebbero tornare a vivere e lavorare;

  • Gli AIUTI.
  • I Garantiti sono partiti con il motto “Non ci sono soldi per tutti” e sono pronti a sacrificare qualsiasi cosa per proseguire nella chiusura.
  • Intanto sentono che, a chiudere e soffrire, sarà sempre qualcun altro, loro non saranno toccati.
  • Quindi i Garantiti sono avari perchè più distribuiscono, meno ci sarà per loro.

  • I Non Garantiti invece sono ben coscienti che saranno loro ad essere sacrificati,
  • quindi vogliono che lo stato trovi maniere per salvarne il più possibile, anche con modalità innovative;

  • L’EURO e L’EUROPA.
  • i Garantiti sono europeisti spinti, perchè non si sentono neanche abbastanza garantiti dallo stato italiano,
  • quindi cercano una garanzia “TRascendente”, sempre più in alto.
  • Se credessero ancora in Dio probabilmente avremmo ancora una teocrazia, per poter richiamare la protezione massima.
  • Inoltre sono pro euro sino allo stremo, perchè vogliono che il loro personale benessere sia tutelato sino allo stremo, degli altri.

  • I non garantiti sono euroscettici perchè nella UE vedono solo uno strumento che aiuta i loro concorrenti,
  • che li rende più poveri e sono anche contrari all’Euro, tranne la francia aggregata ai garantiti,
  • perchè sanno benissimo che una moneta svalutata porterebbe solo più lavoro, più sicurezza e maggiore ricchezza, per loro.
I Garantiti sono di meno, ma sono incredibilmente compatti nel proteggere le loro posizioni e controllano i mass media, da cui sono serviti con assiduità.

I non garantiti sono divisi e distratti dai problemi della vita quotidiana e dalla prospettiva, quanto mai reale, di finire alla Caritas.

Per ora manca un politico o un pensatore che lanci il girdo “Non garantiti di tutto il mondo unitevi”.

I Garantiti sono però degli illusi, almeno il 90% di loro.

Sono come lo scorpione nella favola che lo vede protagonista con la rana: pungendo i non garantiti si condanna alla morte.

Dimenticano la “Cura che ha salvato la Grecia”,la stessa che ha tagliato di oltre mezzo milione
il numero dei dipendenti pubblici e tagliato di un terzo le loro paghe, ponendone molti in povertà.

Il problema è che la Garanzia, per sua natura, ottunde la mente e rende meno svegli.

Magari ci vuole un po’ di “Cura Sky” o di “Cura Corriere” per far loro capire che, in realtà, garantiti non sono.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Pesante macigno nelle anime degli oppressi.

Da incidere nelle carni di quelli che si stanno comportando esattamente come si comportarono prima di loro
i polacchi, ungheresi, ucraini ecc... appartenenti all'elite del partito comunista tra cui, i peggiori, giudici e giornalisti.

STORIA, STORIA, STORIA e si ripete non per ignoranza ma solo per credenza che, ogni volta,
sia la volta buona per chi ci riprova peccato che la fine sarà sempre la solita per loro !
 

Val

Torniamo alla LIRA
Leggendo le notizie sulla manifestazione di Milano ho fatto,più o meno,le stesse considerazioni.

Che tristezza vedere umiliate e derise persone che chiedono di poter lavorare.

E' con la loro iniziativa che è stata creata la ricchezza del paese.

Oggi non la creano più.

Diventeremo quindi poveri.

Tutti e senza garanzie.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Quando i burocrati parassiti incistati nel settore pubblico , termine più adeguato rispetto a quello di garantiti,
subiranno i primi ritardi nei versamenti delle somme , inizierà l'agitazione.

E' interessante vedere che succederà nei mesi canonici di scadenza fiscale.

L'apprensione parassitaria si materializzerà allorché in tali date gli introiti si riducessero.

Ma per ora possono stare tranquilli, perchè nei primi due mesi del 2020 il fisco ha incassato tre miliardi in più rispetto al 2019.

E' uscito stamattina il Bollettino Entrate tributarie per i primi tre mesi del 2020.

Consultarlo è molto interessante.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Chi l’ha visto, come la trasmissione, ci sembra un titolo minimo per un esecutivo che politicamente più scarso,
inadeguato, diviso e socialmente ingiusto, non avrebbe potuto esserci nella nostra storia.


Qui non si tratta solo di tanti ministri che alla più parte degli italiani risultano sconosciuti,
perché da quando è scoppiata l’emergenza sono scomparsi dai radar, ma anche di quelli,
Premier compreso, che presenti invece sulla scena, anziché fare, parlano spesso a sproposito ma concludono niente.

Tanto è vero che sui provvedimenti per la crisi, oltretutto parziali, posticci, risicati e complicati, ancora siamo alla quasi totale evanescenza,
ci riferiamo al decreto di marzo perché quello di aprile è tutt’ora in alto mare nonostante maggio abbia già compiuto una settimana.

Ecco perché diciamo chi l’ha visto, parliamo
dei prestiti che dovevano arrivare in 24 ore,
dei bonus che in larga parte sono ancora fermi,
della Cig che per troppi resta in alto mare,
della semplificazione per gli accessi ai sussidi che rimane una chimera.

Chi l’ha visto soprattutto per ciò che servirebbe e l’esecutivo non ha deliberato
a partire dal fondo perduto,
dallo storno fiscale parziale,
dalla data sulle riaperture,
dalle agevolazioni per le imprese,
dal piano per il sud,
dai soldi sul conto per ripartire.

Al contrario quella che si è vista e bene è stata la scarcerazione di tanti mafiosi,
l’annuncio dell’invio di milioni di cartelle fiscali, lo scandalo sulle mascherine,
la scriteriatezza sulle scuole per settembre, la parodia sugli 8 tipi di autocertificazione,
il tormentone delle dirette tv a tutte le ore.

Insomma si è visto il teatrino della maggioranza al posto di un provvedimento e di un intervento studiato,
attagliato e ragionato sulle vere esigenze del Paese per fronteggiare concretamente l
a crisi economica e sanitaria e per rilanciare la produzione.


Non passa giorno che dentro il governo non vi sia una lite, un ultimatum, uno stop,
tanto è vero che il decreto di aprile è bloccato ai nastri per gli scontri fra Italia viva, grillini e Pd,
per non dire delle divisioni fra gli esperti nominati in massa e pagati ad hoc per le soluzioni al crollo che viviamo.

Verrebbe da dire alla faccia dell’unità,
perché a sentire Renzi che parla di un governo di cui è parte fondamentale che calpesta la costituzione,
oppure Bonafede che incrocia accuse gravissime col magistrato Di Matteo,
o la Bellanova che minaccia dimissioni, vengono brividi e convulsioni.

Per non parlare degli scontri sullo sport di Spadafora e Italia viva,
fra l’Azzolina e Conte sulle metà lezioni in classe e metà a casa,
fra Gualtieri e Di Maio sul Mes, una girandola spudorata di liti mentre l’Italia affonda e andrebbe salvata in fretta.

Abbiamo visto show televisivi
per ascoltare l’erogazione di potenze di fuoco monetarie inesistenti,
per sentire l’attivazione immediata di provvedimenti tanto maestosi quanto fantasiosi,
per essere rassicurati sulla comprensione di chi ha dovuto bloccare lavoro e fatturato senza che per risarcire arrivasse l’ombra del finanziamento garantito.

Eppure il Paese produttivo è alla disperazione,
aziende, negozi, operatori del turismo, ristoratori, concessionari, professionisti, partite iva, artigiani,
a Napoli - l'ultimo della serie - c’è stato un suicidio per non dire dei tanti che ci hanno pensato perché sconvolti sul futuro,
insomma siamo di fronte ad una catastrofe incombente e di concreto ancora poco o niente.

Anzi per dirla tutta di concreto, c’è l’idea di un condono per gli irregolari,
perché la sinistra negli indulti ai carcerati e agli immigrati vede un’opera di giustizia e di bene,
mentre sul fisco e sui sospesi e contenziosi vede l’ingiustizia sociale e una disparità da fare male.

Eppure il governo sulla disparità sociale che si è creata fra statali e privati,
fra chi la crisi non l’ha vista perché lo stipendio è assicurato
e chi riceve nulla e vive disperato,
tace fa finta e tira dritto come se il frutto del lavoro fosse un diritto costituzionale solo per l’apparato pubblico,
mentre per chi ha dovuto abbassare la serranda, spegnere le macchine, fermare tutto, fosse un optional eventuale.

Un governo che ancora non capisce quanto questa disparità possa generare una rabbia incontrollata
senza un intervento fiscale risolutivo e compensativo, che non può essere la presa in giro di una dilazione delle scadenze
accompagnata da milioni di ingiunzioni dell’agenzia delle entrate, roba da scatenare davvero una rivolta.

Ecco perché scriviamo chi l’ha visto, chi l’ha visto un governo capace e competente,
in grado di studiare una strategia efficace per salvare il paese,
di mettere in atto un programma di contrasto per mezzi e risorse, una serie d’interventi che arrivino subito agli utenti, chi l’ha visto?

C’è da chiedersi chi si accollerà l’onere dello sbaglio grave di aver messo in piedi una maggioranza senza capo né coda,
senza coesione, un esecutivo di seconde file solo per evitare il giudizio elettorale,
un governo che prende solo tempo per aspettare l’elemosina europea perché non è in grado di studiare
e non vuole accettare l’alternativa interna proposta dalle opposizioni.

Che piaccia o meno a qualcuno prima o poi si voterà e finalmente chi vivrà vedrà.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Vergognoso. E questi inetti si crogiolano delle loro task force.

"Il nostro è stato un grido di disperazione espresso nel pieno rispetto del distanziamento sociale e del diritto costituzionale di manifestare.
Una protesta pacifica per la quale i miei colleghi di Milano sono stati multati di 400 euro. Assurdo”.

Paolo Bianchini, co-fondatore del Movimento Imprese Ospitalità (Mio) esprime così la sua solidarietà ai ristoratori di Milano.https://www.ilgiornale.it/news/mila...toratori-protesta-vigili-corrono-1860862.html

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M.I.O., gli operatori del turismo si mobilitano
Bianchini, proprietario dell’Osteria del vecchio orologio di Viterbo dal 2005, che, nel giro di poco più di un mese,
ha co-fondato M.I.O., un movimento “assolutamente non di natura politica” che ha riunito 200mila tra albergatori e ristoratori
che non si sono sentiti rappresentati dalle associazioni di categoria già esistenti.

“Noi ci siamo resi conto che l’unico modo per salvare le nostre aziende è restare chiusi”,

chiarisce fornendoci così immediatamente la natura degli hashtag #iononapro #iononpago.

“Se noi apriamo, falliamo”, dice Bianchini senza usare mezzi termini.

Le rigide norme di distanziamento sociale rischiano di portare a una riduzione del 70% dei coperti
e la mancanza di un protocollo che tarda ad arrivare non fa altro che aggravare una situazione decisamente allarmante.

“Il mio è un locale al centro di Viterbo con cento coperti e non ho alcuna possibilità di mettere dei tavoli all’aperto.
È chiaro che, stando così le cose, non ci rientro con i costi anche perché con l’asporto se vendo dieci pizze a sera è grasso che cola”,
sottolinea Bianchini. “Per fare delivery, poi, devi avere almeno 40-50 ordini, altrimenti non ce la fai
perché l’Iva da asporto è al 22%, mentre al tavolo è al 10%”, conclude il co-fondatore di Mio.



La protesta dell'Arco della Pace e le minacce della questura di Milano

E, come lui, ci sono tanti altri ristoratori in difficoltà, soprattutto a Milano dove il clima era teso già da tempo.

Valerio Tremiterra, titolare di due pizzerie napoletane e di un altro locale nel centro del capoluogo lombardo,
ci rivela che, il giorno precedente al flash mob, un dirigente della Questura gli ha detto:

“Noi non vi facciamo nemmeno avvicinare a 50 metri dal Duomo”.

A quel punto l’imprenditore di origini napoletane ha ribattuto:

“Perché il Duomo è di sua proprietà?”

e ancora:

“L’articolo 21 difende la libertà di manifestare e lei non mi può fermare”.

Davanti a tali parole, il dirigente della questura ha replicato: “Vedremo”.

Un antipasto di quel che è avvenuto ieri.

Che, poi, si è trattato di una protesta estremamente pacifica, nello stesso stile di quella che si è tenuta in Germania recentemente
con le sedie in piazza distanziate l’una dall’altra di un metro e più.

Una manifestazione portata avanti per far capire che “anche se il governo ha bloccato i licenziamenti,
saremmo costretti a licenziare il 50% dei dipendenti perché Milano subirà un calo netto del turismo”, spiega Tremiterra.

A generare il panico vi è, poi, la mancanza di indicazioni chiare dal governo:

“Circola voce - aggiunge l’imprenditore napoletano che saremo obbligati a mettere il plexiglass
e che il distanziamento sociale dentro il ristorante sarà di minimo un metro. E, addirittura, non potremmo usare l’aria condizionata.
Tutte ipotesi non confermate che fanno paura e ci aspettiamo di tutto”.

Il rischio è che questi locali, una volta falliti, possano finire nelle mani di fondi d’investimento
“che stanno entrando a gamba tesa nell’economia di Milano e non si sa chi ci sia dietro”, dice Tremiterra.

"Col plexiglass non riapriamo più"

Salvatore Maresca, titolare di 3 pizzerie MuuMuurezzella a Napoli e 2 a Milano, spiega:

“Il settore della ristorazione e della movida è sempre stato ambito dalla criminalità perché c’è un flusso di cassa diretto
e, in un momento come questo, lo Stato deve essere vicino a chi come me è sempre stato dalla parte della legalità”.

Al momento il signor Maresca ha già ricevuto la messa in mora per non aver pagato l’affitto di marzo-aprile per 3 dei suoi 5 locali.

Ma non solo.

Ad oggi, dalle banche non è arrivato ancora nemmeno un euro.

“Una banca mi ha detto che non ha aderito alla convenzione dei 25mila euro, un’altra che la mia pratica è in valutazione
e l’ultimo istituto di credito mi ha detto che deve fare valutazioni aggiuntive”.

E aggiunge:

“Io stesso non ho ancora ricevuto nemmeno le famose 600 euro”.

Il problema riguarda sempre le prospettive future.

“A Napoli, bene o male, noi lavoriamo anche con i concittadini, mentre a Milano, se togli i turisti e i fuorisede, non sapremo quando si ripartirà”,
sentenzia Maresca che conclude: “Aprire il primo giugno è fallimento sicuro e io, col plexiglass, di sicuro non apro proprio più”.

“Se a me entro il 10 maggio non mi arriva il protocollo, io non apro”, gli fa eco Roberta Pepi,
vicepresidente dell’associazione Roma più bella e proprietaria del ristorante ‘Da Robertino’, nato più di 30 anni fa nel caratteristico quartiere Monti di Roma.

“Nel 2020 il bilancio, per noi, si concluderà il 30 giugno perché le grandi città d’arte campano degli introiti che arrivano da marzo a giugno”,
aggiunge Pepi, convinta del fatto che un’apertura a luglio sia troppo tardiva.

“Lo Stato ci ha lasciati soli”, dice la ristoratrice romana che chiede al governo ulteriori interventi in favore del mondo del turismo.

“Noi ci aspettavamo che arrivasse il blocco della tassa dell’Imu e senza una legge in favore dei locatori, c’è un problema reale.
Molti di noi rischiano di perdere il locale perché, se è vero che ora gli sfratti non sono esecutivi, la procedura va avanti anche se i tribunali sono chiusi”,
spiega ancora Pepi.

Il governo, da questo punto di vista, col primo Dpcm ha previsto finora solo il credito d’imposta al 60% per gli affittuari anziché per i locatori.

Ed è importante che lo Stato intervenga perché c’è il rischio che

“con l’esecuzione degli sfratti, le mafie si impossessino dei nostri locali per fare i loro affari sporchi”,

sottolinea Pepi.

"Al momento, l’unica soluzione per i ristoratori è non aprire e non pagare le imposte" .


Chissà se il grido d’aiuto lanciato da M.I.O. arriverà fino alle stanze di Palazzo Chigi e della task force di Vittorio Colao.
 

vetro

valgo zero ma non sono scemo
<Chissà se il grido d’aiuto lanciato da M.I.O. arriverà fino alle stanze di Palazzo Chigi e della task force di Vittorio Colao.>

fino al 2010 avevo ristorante, a fiumicino, sui vari questionari che le istituzioni inviano, tra le domande c'era:

IN CHE FASCI DI REDDITO RIENTRI? LA MINIMA ERA DA.......E RIPETO DA.....250.000 EURO.

questo dato spiega perchè la politica è tanto distante dal settore.... non hanno il senso della realtà.
davvero si pensa che dopo 10 anni guadagnando quelle cifre un cristiano resterebbe a respirare fumi di frittura?

I POLITICI RAGIONANO CON I LORO CORPOSI STIPENDI E PENSANO CHE LA P.IVA HA VITA FACILE A GUADAGNI.

scusate intrusione, ma non ho resistito dal sottolineare questo particolare, di vita vissuta.
 

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