Intervista esclusiva a Benito Li Vigni - ex dirigente Eni
16-2-06
Benito Li Vigni è entrato nell'azienda petrolifera di stato, l'Eni, con Enrico Mattei ed è rimasto nel gruppo fino al 1996, ricoprendovi posizioni chiave. È probabilmente il maggiore esperto degli interessi petroliferi italiani nel Golfo Persico. Le sue ricerche hanno ispirato l'anno scorso un servizio di Rainews 24 dedicato alla presenza italiana in Iraq. Per parlare con lui abbiamo assunto l'ottica cinica della geopolitica, per capire perché il tricolore sventola a Nassirya, e per scoprire che i nuovi venti di guerra che spirano dall'Iran non portano nulla di buono all'Italia. Nemmeno al nostro portafogli.
Dottor Li Vigni, perché siamo a Nassirya?
Io sono convinto che siamo lì per fare affari. Non lo dico io, ma lo dice un dossier del Ministero delle Attività Produttive del febbraio del 2003, che sei mesi prima dell'attacco americano all'Iraq è stato commmissionato al professor Giuseppe Cassano della facoltà di Economia dell'Università di Teramo. In quel documento di 20 pagine, 10 parlavano di petrolio: in parole povere, vi era scritto che se gli Usa avessero attaccato l'Iraq noi avevamo degli affari da difendere e si parlava chiaramente del petrolio di Nassirya. Nel 1996 Saddam Hussein aveva promesso all'italiana Eni, alla russa Lukoil e alla francese Total-Fina condizioni estremamente vantaggiose per lo sfruttamento del petrolio iracheno. Il dittatore chiedeva in cambio un sostegno anti-embargo in sede Onu. Lo dimostra un documento ufficiale Usa, il numero 35AS0713 del "Foreign Suitors for Iraqi Oilfield Contracts", datato 5 maggio 2001, che fa parte del rapporto Cheney sull'energia dello stesso anno.
Il giacimento di Nassirya è valutato attorno ai 3-4 miliardi di barili, il che porterebbe all'Eni circa 3,5 miliardi di dollari. Saddam aveva promesso all'Italia quella zona, e oggi il nostro contingente militare controlla proprio quell'area.
Quindi l'Eni avrà comunque ciò che gli aveva promesso Saddam, anche se ora a garantirglielo sono gli alleati delle “forze della coalizione”?
Secondo la costituzione irachena appena approvata, il petrolio deve rimanere proprietà del popolo. Le grandi compagnie angloamericane non puntano quindi alla privatizzazione dei giacimenti, ma a stipulare con l'azienda petrolifera statale dell'Iraq un contratto molto vantaggioso: esattamente quello che Saddam aveva offerto a Italia, Russia e Francia, e non a loro. Si chiama Production Sharing Agreement (PSA). Prevede che chi riceve in gestione un giacimento lo utilizzi per un periodo che va dai 20 ai 40 anni e soprattutto trattenga dal 40 al 60 per cento dei profitti. Non solo, la compagnia può inserire nei propri bilanci le riserve che ha in gestione ….
…allora americani e inglesi avranno in gestione i giacimenti a queste condizioni vantaggiose, e la nostra Eni otterrà altrettanto per Nassirya. Siamo a posto, avremo quello che volevamo...
No. La novità è che la nuova classe dirigente irachena non sembra essere disposta a concedere alle compagnie straniere contratti come il PSA, così svantaggioso per il popolo iracheno. Questo contratto nel mondo è stipulato solo per il 10 per cento circa delle riserve mondiali, per piccoli giacimenti, e i paesi produttori lo evitano, perché è sostanzialmente un contratto capestro. La situazione attualmente è tale per cui si va verso un fallimento dell'ipotesi PSA. La legge sul petrolio che ora giace al parlamento iracheno molto probabilmente alla fine non prevederà questo tipo di contratto.
Ma questo significherebbe il totale fallimento dell'invasione dell'Iraq, che nella visione dei neocon americani, come è scritto del documento A Project For a New American Century , doveva garantire agli Usa il controllo del petrolio del Golfo.
Certamente. E la posta in gioco è molto più alta di quello che dicono le stime ufficiali, che parlano di 115 miliardi di barili nel sottosuolo iracheno. Infatti secondo il Dipartimento per l'Energia americano ci sono altre ricche riserve nella zona desertica occidentale, che fino ad ora non è stata sfruttata. Inoltre nella parte orientale si attinge solo da 17 giacimenti su 80. Insomma, ci sarebbero circa 260 miliardi di barili nella parte est più – almeno – altri 100 miliardi nella parte ovest, per un totale che può arrivare anche a 400 miliardi di barili sotto l'intero Iraq. Per avere una proporzione, le riserve totali di Stati Uniti, Canada, Messico, Europa occidentale, Australia, Nuova Zelanda, Cina e tutta l'Asia non mediorientale messe insieme non superano i 114 miliardi di barili.
È un fallimento anche per l'Italia?
Se, come è probabile, gli iracheni non concederanno mai a nessuno un contratto capestro come il PSA, non lo otterremo nemmeno noi. È una sconfitta su tutti i fronti per le forze della coalizione, compresa l'Italia e la sua Eni. Io sono convinto che nell'ultimo discorso sullo stato dell'Unione del presidente Bush sia ravvisabile una sorta di pentimento, quando si afferma che gli Usa non debbono dipendere solo dal petrolio. È il pentimento di chi si rende conto che l'invasione dell'Iraq ha isolato gli Stati Uniti nel mondo, senza produrre in cambio i benefici sperati – ricordiamo che l'Iraq non è ancora stato pacificato.
Insomma, l'amministrazione Bush ha fallito su tutti i fronti?
Ha valutato malissimo la situazione sin dall'inizio. Basti pensare a come è stata trattata la minoranza sunnita, che al tempo di Saddam deteneva il potere attraverso il partito Baath. Ricorda? Dopo l'invasione l'esercito è stato immediatamente smantellato. Migliaia di ex soldati affamati e senza più lo stipendio sono andati a riempire le file degli “insorti”. Per non parlare di tutta la classe dirigente sunnita che è stata epurata.
Ebbene, il territorio dove si concentrano i sunniti possiede la maggior parte dei giacimenti di petrolio ancora da scoprire. È proprio la parte desertica occidentale di cui le parlavo prima. I sunniti inoltre hanno le infrastrutture: gli oleodotti principali che partono da Bassora passano proprio per il cosiddetto triangolo sunnita (Baghdad–Ar-Ramadi–Tikrit). I sunniti hanno in mano il futuro iracheno, e governare senza di loro non è possibile. Quando gli americani lo hanno capito era troppo tardi: se li erano irrimediabilmente fatti nemici. Per chiudere il cerchio, aggiungiamo che l'altra principale etnia del paese, oltretutto quella maggioritaria, è la sciita. E gli sciiti sono filo-iraniani.
A proposito, il prossimo fronte sembra essere quello iraniano. La questione del nucleare di Teheran è sul punto di giungere sul tavolo del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Al Pentagono preparano nel dettaglio piani di bombardamento dell'Iran. L'Italia ha una Nassirya iraniana? Se il nostro paese dovesse partecipare – magari attraverso la solita formula dell'intervento “umanitario” – ad una guerra contro l'Iran, quali interessi dovremmo tutelare?
L'Italia è il pricipale partner commerciale dell'Iran non solo per il petrolio, ma anche per il gas. Abbiamo in concessione 4 aree in quel paese, dove siamo autorizzati a cercare giacimenti. Nel 1999 l'Iran ha riaperto il suo territorio all'esplorazione da parte di società internazionali, e noi siamo stati i primi ad avere concessioni Buy-Back . Questo tipo di contratto prevede che la società petrolifera che trova un giacimento, nel nostro caso sempre l'Eni, può tenere per sé il ricavato della vendita del greggio fino a che non copre i costi che ha sostenuto per la ricerca, e dopo può trattenere solo il 25 per cento dei ricavi, dando il restante 75 per cento allo Stato. In Iran vige il Buy-Back e il PSA è bandito. L'Italia ha fino ad ora beneficiato della vecchia politica filo-araba dell'Eni di Enrico Mattei, ma la nostra recente politica estera sta incrinando questo rapporto privilegiato.
Abbiamo tutto da perdere dall'aumento della tensione con l'Iran e da ogni nuovo possibile conflitto nell'aerea. L'Iran non può essere invaso come è stato per l'Iraq, è una prospettiva geopoliticamente improbabile. Se verrà bombardato ed emarginato, manterrà comunque la sua sovranità e l'Italia perderà con tutta probabilità i suoi giacimenti.
Benito Li Vigni è autore de “La guerra del petrolio” (Editori Riuniti) ed è in uscita il suo nuovo libro “In nome del Petrolio” con la medesima casa editrice.
di Paolo Jormi Bianchi