Guerra fredda tra USA e CINA (1 Viewer)

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Usa, Trump avvisa Google e Apple su rischi sicurezza e dazi: “Basta fare affari con la Cina e produrre pezzi del Mac nelle loro fabbriche”
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Mountain View è finita nel mirino dell'inquilino della Casa Bianca per i suoi rapporti con Pechino, mentre Cupertino viene avvisata circa l'impossibilità di esentare dalle tariffe i componenti dei suoi personal computer fabbricati in Asia: "Fateli negli Stati Uniti". E in serata minaccia la Francia: "Tasseremo i loro vini"

di F. Q. | 26 Luglio 2019


Donald Trump attacca i giganti del web e dell’hi-tech statunitense, in particolare Google e Apple. Mountain View è finita nel mirino del presidente degli Usa per i suoi rapporti con la Cina che, a suo avviso, “potrebbero creare problemi di sicurezza nazionale”. Per questo, ha spiegato il tycoon, “se c’è un problema, lo scopriremo. Spero sinceramente di no”.

Lo sfogo di Trump ha poi raggiunto anche gli uffici di Cupertino, messa in guardia sui dazi: “Apple non riceverà esenzioni tariffarie o riduzioni per i componenti del Mac Pro che sono fatti in Cina – scrive su Twitter – Fateli negli Usa, niente dazi”. Mentre in serata se l’è presa con la Francia per la digital tax: gli Stati Uniti potrebbero imporre dazi sul vino francese nel caso in cui Parigi decidesse di procedere “Potrebbe essere il vino, potrebbe essere altro – ha aggiunto – Noi tassiamo le nostre aziende, loro non le tassano”.


I messaggi dell’inquilino della Casa Bianca arrivano nel giorno della trimestrale di Google, positiva a tal punto da spingere il titolo a Wall Street verso un rally con rialzi in doppia cifra. Il buon andamento dei conti conferma, secondo gli analisti, la solidità di Mountain View, il cui dominio nelle ricerche online resta quasi assoluto. Proprio su questo strapotere puntano ora a vederci chiaro le autorità americane.

Il Dipartimento di Giustizia ha infatti avviato un’indagine antitrust sulle maggiori aziende tecnologiche americane. Un’inchiesta che potrebbe avere forti conseguenze proprio per Google e Apple, oltre ad Amazon e Facebook, che negli scorsi giorni ha patteggiato 5 miliardi di dollari di maxi-multa per violazione della privacy in relazione al caso di Cambridge Analytica. Le autorità puntano a capire come i big della Silicon Valley hanno raggiunto la loro forza di mercato e soprattutto se lo hanno fatto soffocando la concorrenza.
 

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Trump ha aumento di un ulteriore 10% i dazi sui prodotti cinesi

e la Cina reagisce
LUNEDI’ TURBOLENTO(1): LA CINA BLOCCA L’IMPORT DI PRODOTTI AGRICOLI USA. CROLLA LO YUAN, Inizia la guerra valutaria

La settimana inizia con un bello scossone , anzi con una sberla che si sentirà in tutto il mondo oggi.
Secondo notizie diffuse da Bloomberg il governo cinese ha dato ordine alle aziende di bloccare l’importazione di prodotti agricoli americani, per lo meno sino a quando non si vedrà l’effetto dei colloqui commerciali che dovranno riprendere, ma oggettivamente aprendo la strada a nuove risposte da parte di Washington.
La guerra commerciale non si ammorbidisce, anzi si intensifica, e giunge a punti mai visti in precedenza.

La risposta è stata immediata: lo Yuan è crollato e , per la prima volta, è sceso sotto i 7 yuan per 1 dollaro, salvo poi rimbalzare attorno a quel valore per l’intervento della Banca Centrale.



per comprendere quanto sia profonda la caduta mostriamo il grafico storico del cambio



La Banca Centrale ha cercato di frenare la caduta, giungendo a minacciare misure contro le vendite allo scoperto, come ha già fatto in passato,ma la misura non sembra aver avuto grosso effetto.

Anche il dollaro di Hong Kong è andato a picco,



Secondo alcuni analisti questo è segno di una massiccia fuga di capitali dalla Cina,


Kyle Bass

✔@Jkylebass

https://twitter.com/Jkylebass/status/1158191251499429889

GAMETIME - CNH collapsing...HKD won’t be far behind. Mass Exodus of capital out of CNH and HKD. This collapse has just begun. #china #hk #bankingandcurrencycollapse



2.264

03:41 - 5 ago 2019
Informazioni e privacy per gli annunci di Twitter
1.319 utenti ne stanno parlando
https://twitter.com/Jkylebass/status/1158191251499429889




Ricordiamo che la Cina aveva dei problemi a livello bancario, ed una fuga di capitali potrebbe accentuarne i problemi.
SI parlava perfino dell’emissione di debito estero per permettere l’afflusso di capitali nel sistema, ma a questo punto questo diventa molto improbabile.
Nel frattempo gli scambi con lo yuan sono esplosi, azzerando quelli delle altre valute orientali.

Le borse di Hong Gong e di Tokio hanno perso il 2,08% ed il 2,77%… Oggi balleremo anche in Europa.
 

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HUAWEI: LA “TRADE WAR” TRA USA E CINA COME UNA GROTTESCA CORRIDA
La strategia del presidente Donald Trump nei confronti di Pechino assomiglia a una delirante corrida il cui esito, tanto scontato quanto grottesco, sarà un bagno di “sangue”, ai danni della comunità internazionale.
Qualche mese fa, circa la “trade war” che da mesi interessa Stati Uniti e Cina, scrivevamo che con Pechino non si scherza.
La storia recente insegna che tentare di imbrigliare l’irresistibile – e irresistita – ascesa economica cinese ricorrendo a coercizioni unilaterali dirette all’espansione della Cina nel mercato globale, non ottiene altro risultato che far imbizzarrire la bestia.
La strategia del presidente Donald Trump nei confronti di Pechino come del resto dei «nemici della nazione», dal Venezuela all’Iran, ricalca l’illusione dell’esito scontato di una grottesca corrida: da mesi i picadores dell’amministrazione americana infliggono ferite al toro cinese, mentre el matador Donald danza intorno ai tavoli delle trattative bilaterali a favore del pubblico nazionale in visibilio.
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Pechino, nella pantomima trumpiana, appare accerchiata ed esangue, pronta a capitolare da un momento all’altro trafitta dalla lama del sovranismo.
Agli spettatori di questa triste messinscena qualche giorno fa sarà sembrato di scorgere lo scintillio della spada nascosta dietro la schiena del torero, quando l’ultima banderilla a stelle strisce si è conficcata nel dorso della bestia cinese.
Con uno scoop sensazionale, Reuters ha dato notizia della sospensione a tempo indeterminato della partnership commerciale tra Google e Huawei, secondo produttore di smartphone al mondo in termini assoluti, dopo Samsung, appoggiato alla piattaforma Android.
Secondo quanto emerso, il colosso di Mountain View, dando seguito all’inserimento di Huawei nella lista di proscrizione commerciale statunitense (la «Entity List», lista nera di oltre duecento compagnie internazionali che per Washington rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale), avrebbe rescisso ogni accordo commerciale con la compagnia cinese, bloccando l’uso da parte di Huawei dei servizi offerti da Google: niente più Android caricato di default sui telefoni Huawei, stop all’accesso da smartphone Huawei a prodotti fondamentali come Google Maps, Gmail e Youtube.
L’embargo dalla piattaforma per smartphone più diffusa al mondo – notare bene: non si tratta di software, ma dell’intero ecosistema su cui girano i telefoni Huawei – seguiva una simile iniziativa intrapresa dalle aziende statunitensi produttrici di chip e processori come Intel e Qualcomm, di fatto andando a minare alla radice le aspirazioni di superpotenza tecnologica transnazionale di Huawei, pronta a svolgere un ruolo di primo piano nell’implementazione globale dell’imminente tecnologia 5G: i binari su cui correrà il progresso tecnologico del secolo, l’interazione automatica tra la Rete e il mondo reale che ci circonda, l’«internet delle cose».
Si tratta di un attacco mai così potente e diretto nei confronti degli interessi di una compagnia cinese che, secondo i detrattori di Huawei, coincidono col progetto di egemonia economico-culturale intrapreso da Xi Jinping.
Senza potersi appoggiare alla piattaforma Android, Huawei sarebbe costretta a sviluppare un ambiente equivalente ma proprietario, un ecosistema «made in China» da implementare a tempo record su letteralmente milioni di telefoni in tutto il globo.
Se per i telefoni Huawei attualmente in uso, stando a Bbc, non ci dovrebbero essere problemi sensibili nel breve termine, diversa sarà la situazione al prossimo aggiornamento di sicurezza, che gli utenti Huawei potranno scaricare solo quando sarà ottimizzato per la versione open source di Android.
Tutti i nuovi telefoni Huawei, invece, saranno di fatto «non certificati», quindi esclusi dall’ambiente Google proprietario.
A ventiquattro ore dallo scoop di Reuters, confermato da Google, l’amministrazione Trump ha già proceduto a mitigare il colpo introducendo una moratoria di 90 giorni all’esclusione di Huawei da Android.
Fino ad agosto, quindi, tutto rimane come prima, salvo la minaccia di implementare effettivamente una misura che diversi osservatori equiparano a una nuova «cortina di ferro digitale».
L’impressione è che Donald Trump, impegnato a combattere con ogni mezzo la macro-partita commerciale con Pechino, stia ostinatamente forzando le aziende americane a sacrificare i propri interessi sull’altare della questione nazionale.

Policy come i dazi e l’inserimento di determinati partner internazionali nella Entity List sono iniziative che, nel passato recente, sarebbero state intraprese a seguito di discussioni informali e collegiali, coinvolgendo nei processi decisionali i diretti interessati di Usa Inc.
Processo che non sembra affatto attuato in questa circostanza, considerando la reazione dei mercati: crollati in seguito all’annuncio della fine della partnership tra Google e Android, tiepidamente rimbalzati solo all’ufficializzazione della moratoria di 90 giorni.
Le reazioni cinesi, senza sorpresa, ricalcano il copione già evocato all’inizio di questo articolo. Ren Zhengfei, fondatore e presidente di Huawei, ha dichiarato all’emittente cinese nazionale CCTV che «gli Stati Uniti ci sottovalutano», ricordando che da mesi la compagnia aveva già nel cassetto una piattaforma alternativa ad Android e, se costretti dalle misure incoraggiate da Washington, la rilascerà senza troppi grattacapi.
Il presidente Xi Jinping, durante una visita nella provincia del Jiangxi, ha fatto appello all’orgoglio nazionale, chiamando a raccolta tutti i cinesi per prepararsi a una nuova «Lunga Marcia».
Il riferimento a uno dei passaggi chiave della storia cinese moderna – la ritirata delle truppe comuniste accerchiate dall’esercito nazionalista di Chiang Kai-shek proprio nel Jiangxi nel 1935, ricompattatesi attorno alla figura carismatica dell’allora semi-sconosciuto Mao Zedong – non è casuale: una fuga all’indietro che dà l’illusione della sconfitta, ma che in realtà rilancia il conflitto costringendo il nemico a una ritirata ingloriosa e definitiva a Taiwan.
È la bestia che sanguina all’angolo mentre si prepara a infilzare l’addome del matador, ad esempio rispondendo ai dazi di Trump applicandoli al mercato dell’estrazione delle terre rare, che Pechino controlla al limite del monopolio.
Intanto, da più parti si rinnova l’apprensione per il prezzo, altissimo, che questa “trade war” reclamerà sui mercati.
Secondo Reuters, «le aziende americane potrebbero perdere fino a 56,3 miliardi di dollari in export nei prossimi cinque anni dalle limitazioni commerciali imposte nei confronti di Huawei». Conseguenze che metterebbero a repentaglio 74mila posti di lavoro.
Per l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Oecd), la “trade war” in corso rischia di mangiarsi lo 0,7 per cento del Pil globale: uno scenario che porterebbe a una perdita complessiva di quasi 600 miliardi di dollari entro il 2022.
Come nella corrida, in questa guerra tra Cina e Stati Uniti c’è un solo esito scontato: scorrerà il sangue.
 

tontolina

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SORPRESA!! HUAWEI SPIA VERAMENTE GLI AVVERSARI POLITICI DELLA CINA


Un report del Wall Street Journal ci rivela quello che, probabilmente, già molto sospettavano: Huawei aiuta i governi amici della Cina a spiare sugli avversari politici.

Secondo il giornale tecnici cinesi della Huawei avrebbero aiutato i governi di diversi paesi africani vicini a Pechino a spiare le comunicazioni, email e chat, anche codificate, che membri dell’opposizione a questi governi si scambiavano fra di loro, aiutando le politiche dei governi in carica anche tramite arresti.
La fonte proviene da ufficiali degli stessi governi che hanno rivelato i retroscena.
I casi sono piuttosto numerosi:
  • Uganda, dove il leader dell’opposizione Bobi Wine, che è anche un noto cantante locale, è stato intercettato anche su whatapps con l’aiuto di tecnici della Huawei, permettendo di anticipare delle manifestazioni e permettendo il suo arresto;
  • in Zambia i tecnici cinesi avrebbero permesso di identificare ed arrestare due blogger che tenevano blog critici verso il presidente Edgar Lungu;
  • in Algeria Huawei ha aiutato il governo a creare un sistema di videosorveglianza intelligente che è in corso di implementazione anche in Uganda, grazie ad uno scambio fra le relative polizie;
Ecco i paesi dove sono in opera servizi di sorveglianza o network ed uffici di Huawei.



Pechino spinge i paesi africani con cui ha stretti rapporti ad acquistare ed implementare i propri sistemi di sorveglianza elettronica, in modo da un lato da fare buoni affari, dall’altro per sostenere quei politici che accettano rapporti privilegiati con Pechino. Nello stesso momento vengono confermati molti dubbi di Trump e dei suoi alleati circa l’indipendenza della caa cinese. Naturalmente sia Pechino che la Huawei negano qualsiasi partecipazione ad operazioni di hackeraggio, ma le accuse sono molto precise.
 

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Roubini: ‘Siamo all’inizio di una nuova Guerra Fredda tra Usa e Cina che porterà alla de-globalizzazione’

Roubini: ‘Inizia una nuova Guerra Fredda tra Usa e Cina che porterà alla de-globalizzazione’

Che succede tra Usa e Cina? Secondo Nouriel Roubini, l’economista americano che ha previsto la crisi dei muti subprime Usa del 2007, ritiene che “la guerra commerciale-tecnologica tra USA-Cina si intensificherà”. Per Roubini “questo è l’inizio della de-globalizzazione e della balcanizzazione dell’economia globale e del disaccoppiamento (decoupling) tra Stati Uniti e Cina. Quindi non c’è da stupirsi se i mercati siano tornati a voler ridurre i rischi. Anche l’allentamento della Fed non può sostenere i mercati colpiti da un doppio shock negativo dell’offerta: guerra commerciale e tecnologica ad un tempo!”. Un eccesso di pessimismo da parte dell’economista che si è laureato con summa cum laude alla Bocconi di Milano prima di specializzarsi alla Harvard University e diventare uno degli economisti più ascoltati del pianeta? Non proprio perché la sua visione pessimistica o semplicemente realistica non è isolata nel mondo economico americano.

Il presidente Donald Trump ha deciso di rinviare alcuni dazi su beni cinesi al 15 dicembre, ma la tensione resta alta mentre Germania e Cina subiscono i primi colpi di rallentamento economico di questa guerra dei dazi voluta da Washington. Le borse globali reagiscono con cali profondi e nei bond Usa appare la “curva invertita” dei rendimenti tra quelli a due anni e dieci anni, segno inequivocabile di recessione in vista entro 18-24 mesi.

Secondo il Ceo di Axios Jim VandeHei, tutti i segnali indicano la nascita di una “Guerra fredda” come quella avvenuta tra URSS e Usa, che durerà decenni, ma questa volta con la Cina. Un cambiamento vorticoso delle alleanze, della politica e delle economie globali è davanti a noi? Pechino che nel 1989 ha spazzato via con la forza le proteste di Piazza Tienanmen si pone come campione alternativo di un sistema a partito unico autoritario e ad economia di mercato contro le “obsolete” liberal-democrazie occidentali (per usare la definizione del presidente russo Vladimir Putin in una recente intervista concessa al Financial Times attaccate a loro volta da populismi e sovranismi al loro interno.

In questa chiave la guerra commerciale tra Washington e Pechino non sarebbe altro che una piccola scaramuccia di una battaglia molto più grande e più ampia in corso per il dominio globale. E, per la prima volta, si può vedere la possibilità del decoupling (disaccoppiamento dei destini e delle economie) tra Cina e America, creando due sistemi globali distinti e rivali e strutture di potere antagoniste fra loro come quelle tra Russia sovietica e capitalismo occidentale ai tempi della prima Guerra fredda.

Il quadro generale

Bill Emmott, l’ex direttore dell’Economist, invece ritiene nel suo libro “Rivals: How the Power Struggle between China, India and Japan will Shape our Next Decade“ del 2008 che il destino e il benessere dell’Asia e quindi del mondo sarà il prodotto di rivalità o accordi tra tre potenze asiatiche: Giappone, Cina e India, in un quadro più dinamico e più concentrato sull’area del Pacifico. Una visione che forse oggi trova pochi sostenitori.

Ma torniamo alla rivalità tra Cina e Usa. Oltre al commercio, le due superpotenze sono in concorrenza su proprietà intellettuale e tecnologia, influenza politica nei paesi in via di sviluppo attraverso assistenza economica (China’s Belt and Road Initiative), accordi diplomatici, istituzioni multinazionali (Asia Infrastructure Investment Bank) e vendite di armi.

Inoltre Pechino gode di un sistema molto vantaggioso nella WTO (World Trade Organization) che oggi non ha più senso mantenere visto che la sua economia non è affatto in via di sviluppo. Il presidente americano Donald Trump ha chiesto di modificare il 26 luglio 2019 il sistema di benefici di cui gode la Cina all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio ma finora senza molto successo perché le elites occidentali spesso sono state conniventi e insensibili ai rischi sociali di queste disparità.

Una delle manifestazioni più chiare di questa nuova rivalità tra Pechino e Washington la troviamo nella corsa alla supremazia tecnologica: Internet si sta “dividendo in due”, come diceva recentemente il Wall Street Journal, e le aziende giganti degli Stati Uniti e della Cina stanno lottando per ottenere vantaggi, nascosti e palesi, in tutto il mondo. A fermare questa corsa al monopolio globale in alcune tecnologie c’è solo l’azione solitaria della Commissaria alla Concorrenza europea guidata oggi fino a fine ottobre dalla liberale danese, Margrethe Vestager.

Bill Bishop, un americano che ha vissuto a Pechino dal 2005 al 2015 e autore del blog “Sinocism” ha detto a Axios che il presidente Xi Jinping e il suo team hanno concluso che la Cina è decisamente troppo dipendente dagli Stati Uniti per la tecnologia e l’agricoltura. Quindi hanno accelerato gli sforzi per diventare autosufficienti, diversificando anche la loro dipendenza dagli Stati Uniti. In questo senso è da inquadrare l’interesse cinese per l’Africa e i suoi immensi territori agricoli e i rapporti con alcuni paesi dell’America latina.

La Cina accusa l’America

Ora, la Cina sta accusando Washington per le sue tensioni economiche e interne: il New York Times riferisce da Pechino che “l’ostilità nei confronti dell’America”, da parte di funzionari cinesi e organizzazioni di stampa statali, “si è intensificata … insieme a due dei grandi problemi della Cina: un’economia in rallentamento complicata dalle tensioni commerciali e dalle turbolenze a Hong Kong che non sembrano trovare una soluzione”.

“Anche Pechino non sembra porre fine alle sue controversie con Washington rispetto al colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei, che è stato inserito nella lista nera dall’amministrazione Trump come una minaccia alla sicurezza”, ha aggiunto il Times.

Che cosa succederà a breve? Nel 1989 il politologo americano, Francis Fukayama, nel suo famoso e fortunato libro ”The end of the History and the Last Man, la fine della storia e l’ultimo uomo” teorizzava la vittoria della liberal democrazia su ideologie rivali come le monarchie ereditarie, fascismo, e comunismo utilizzando il termine storia nel senso hegeliano e marxista, cioè di evoluzione storica del pensiero verso sistemi politici più evoluti delle società. Mai previsione fu poi così clamorosamente smentita dai fatti successivi.

La Caduta del Muro di Berlino 30 anni fa

A novembre saranno trascorsi 30 anni da quando il Muro di Berlino cadde il 9 novembre 1989. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica per la maggior parte del tempo, gli Stati Uniti non hanno avuto un vero rivale per la supremazia globale e non hanno saputo farne buon uso. Ora, l’America che sembra affascinata dal rifiuto del multilateralismo, sta fronteggiando un possibile declino del “secolo americano” secondo la famosa definizione dell’editore di Time, Henry Luce, ed è in lotta in una sfida che potrebbe addirittura perdere. Washington ha una fitta rete di alleanze con sessanta paesi nel mondo senza paragoni mentre Pechino può contare solo sulla Corea del Nord. Eppure Washington sembra preferire l’azione diplomatica isolata dell’America First, del prima l’America ma in solitaria.

Gli Stati Uniti hanno ritenuto che la liberal democrazia e la loro supremazia avessero vinto per sempre. Non era così come abbiamo visto poco prima con Francis Fukuyama: oggi siamo di fronte a una lotta per l’egemonia globale che potrebbe durare qualche decennio proprio con la dirigenza cinese che non esita a cambiare la propria costituzione e il divieto dei due mandati quinquennali al potere per dare più tempo al presidente Xi Jinping di affrontare le sfide senza l’assillo del rinnovo del mandato che diventa senza limiti. Un nuovo Mao al potere a Pechino? Non proprio perché il Grande Timoniere dominava una Cina contadina e arretrata, mentre Xi Jinping decide i destini della seconda economia del mondo e della prima potenza commerciale con mire egemoniche globali. Senza contare che Washington sembra più preoccupata di dividere gli alleati Nato dell’Unione Europea minacciando dazi e sostenendo la Brexit senza accordi piuttosto che di consolidare un asse transatlantico che potrebbe fare da freno alle mire cinesi di supremazia mondiale.
 

tontolina

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CINA: frenata pericolosa (per la gioia di Trump)
Scritto il 22 agosto 2019 alle 07:54 da Danilo DT


Quello che vuol fare Donald Trump è più che chiaro. Innanzitutto evitare la recessione, poi garantire ancora tanta crescita economica a scapito degli altri paesi, e poi indebolire la Cina. Frenare la crescita del PIL cinese infatti garantisce ancora per qualche anno in più la leadership globale dell’economia USA. Un passaggio di testimone che avverrà sicuramente nei prossimi anni. Trump si augura il più tardi possibile.
Secondo me Trump si sbaglia quando incolpa la Cina di svalutazione competitiva. L’indebolimento dello Yuan è la conseguenza di tante variabili, oltre che della speculazione.
Quindi se la banca centrale cinese (PBoC) è tornata ad intervenire sul mercato non è per indebolire lo yuan, quantomeno non direttamente, ma per difendere quella che è una necessità. Ovvero la crescita economica cinese.

(…) La Cina ha ridotto il nuovo tasso di riferimento sui prestiti, come previsto, la prima mossa della banca centrale dopo la recente riforma dei tassi d’interesse mirante ad alleggerire gli oneri finanziari delle imprese. (…)“Anche se ciò dovrebbe indurre le banche a ridurre leggermente i loro tassi sui prestiti, l’impatto sull’attività economica sarà marginale”, ha scritto in una nota Julian Evans-Pritchard, Senior China Economist presso Capital Economics. “Un calo di una manciata di punti base è poca cosa”.
Secondo Evans-Pritchard la Banca Popolare Cinese deve intraprendere ulteriori manovre, inclusi dei tagli al tasso di liquidità a medio termine, se vuole continuare a ridurre l’Lpr per ridurre i costi di finanziamento per le banche.
Il nuovo tasso Lpr a 5 anni è quotato al 4,85%, al di sotto del tasso d’interesse di riferimento quinquennale di 4,90%.
(…) [Source]

Quindi è chiaro che la BPoC taglia i tassi e li taglierà ancora, ma non si fermerà qui. Seguiranno altre manovre espansive e non potrà essere altrimenti, bisigna difendere il sistema e la salute delle imprese, evitare di appesantirle, renderle più solvibili e produttive. Perché qual è il grande problema della Cina? Lo diciamo da anni: è il debito privato.
Non dimentichiamo che il debito poi è sempre debito e quindi guardate il grafico debito aggregato. Siamo al 300% del PIL. Ripeto: 300%!



Un debito molto pesante se rapportato al PIL prodotto in Cina (che è secondo oggi solo agli USA) e che per essere sostenibile, ha bisogno di una cosa: crescita virtuosa.
Ma la Cina sta rallentando anche per colpa di Trump. E questa situazione diventa quasi perfetta per il POTUS in quanto indebolisce il gigante asiatico rendendolo molto vulnerabile. Il grafico sopra parla chiaro: il debito pubblico, rapportato la PIL non è preoccupante… Ma il resto del debito non può non essere analizzato con attenzione.



Ma torniamo al punto cruciale: la crescita. Ufficialmente siamo al 6.2%. Un metodo di calcolo estremamente più attendibile (visto che i dati cinesi bisogna prenderli con le molle) ci dice invece che l’attività economica cinese cresce “solo” per un +4,64%. Una crescita che diventa insufficiente per poter rendere solvibile (e ripagabile) i crediti. Quindi aspettiamoci pure nuovi interventi di Pechino, anche molto aggressivi. Non ne possono fare a meno. Ma non per fare un dispiacere a Trump, ma perché non possono farne a meno.
 

tontolina

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HUAWEI: LA “TRADE WAR” TRA USA E CINA COME UNA GROTTESCA CORRIDA
La strategia del presidente Donald Trump nei confronti di Pechino assomiglia a una delirante corrida il cui esito, tanto scontato quanto grottesco, sarà un bagno di “sangue”, ai danni della comunità internazionale.
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Qualche mese fa, circa la “trade war” che da mesi interessa Stati Uniti e Cina, scrivevamo che con Pechino non si scherza.
La storia recente insegna che tentare di imbrigliare l’irresistibile – e irresistita – ascesa economica cinese ricorrendo a coercizioni unilaterali dirette all’espansione della Cina nel mercato globale, non ottiene altro risultato che far imbizzarrire la bestia.
La strategia del presidente Donald Trump nei confronti di Pechino come del resto dei «nemici della nazione», dal Venezuela all’Iran, ricalca l’illusione dell’esito scontato di una grottesca corrida: da mesi i picadores dell’amministrazione americana infliggono ferite al toro cinese, mentre el matador Donald danza intorno ai tavoli delle trattative bilaterali a favore del pubblico nazionale in visibilio.

Pechino, nella pantomima trumpiana, appare accerchiata ed esangue, pronta a capitolare da un momento all’altro trafitta dalla lama del sovranismo.
Agli spettatori di questa triste messinscena qualche giorno fa sarà sembrato di scorgere lo scintillio della spada nascosta dietro la schiena del torero, quando l’ultima banderilla a stelle strisce si è conficcata nel dorso della bestia cinese.
Con uno scoop sensazionale, Reuters ha dato notizia della sospensione a tempo indeterminato della partnership commerciale tra Google e Huawei, secondo produttore di smartphone al mondo in termini assoluti, dopo Samsung, appoggiato alla piattaforma Android.
Secondo quanto emerso, il colosso di Mountain View, dando seguito all’inserimento di Huawei nella lista di proscrizione commerciale statunitense (la «Entity List», lista nera di oltre duecento compagnie internazionali che per Washington rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale), avrebbe rescisso ogni accordo commerciale con la compagnia cinese, bloccando l’uso da parte di Huawei dei servizi offerti da Google: niente più Android caricato di default sui telefoni Huawei, stop all’accesso da smartphone Huawei a prodotti fondamentali come Google Maps, Gmail e Youtube.
L’embargo dalla piattaforma per smartphone più diffusa al mondo – notare bene: non si tratta di software, ma dell’intero ecosistema su cui girano i telefoni Huawei – seguiva una simile iniziativa intrapresa dalle aziende statunitensi produttrici di chip e processori come Intel e Qualcomm, di fatto andando a minare alla radice le aspirazioni di superpotenza tecnologica transnazionale di Huawei, pronta a svolgere un ruolo di primo piano nell’implementazione globale dell’imminente tecnologia 5G: i binari su cui correrà il progresso tecnologico del secolo, l’interazione automatica tra la Rete e il mondo reale che ci circonda, l’«internet delle cose».
Si tratta di un attacco mai così potente e diretto nei confronti degli interessi di una compagnia cinese che, secondo i detrattori di Huawei, coincidono col progetto di egemonia economico-culturale intrapreso da Xi Jinping.
Senza potersi appoggiare alla piattaforma Android, Huawei sarebbe costretta a sviluppare un ambiente equivalente ma proprietario, un ecosistema «made in China» da implementare a tempo record su letteralmente milioni di telefoni in tutto il globo.
Se per i telefoni Huawei attualmente in uso, stando a Bbc, non ci dovrebbero essere problemi sensibili nel breve termine, diversa sarà la situazione al prossimo aggiornamento di sicurezza, che gli utenti Huawei potranno scaricare solo quando sarà ottimizzato per la versione open source di Android.
Tutti i nuovi telefoni Huawei, invece, saranno di fatto «non certificati», quindi esclusi dall’ambiente Google proprietario. A ventiquattro ore dallo scoop di Reuters, confermato da Google, l’amministrazione Trump ha già proceduto a mitigare il colpo introducendo una moratoria di 90 giorni all’esclusione di Huawei da Android.
Fino ad agosto, quindi, tutto rimane come prima, salvo la minaccia di implementare effettivamente una misura che diversi osservatori equiparano a una nuova «cortina di ferro digitale».
L’impressione è che Donald Trump, impegnato a combattere con ogni mezzo la macro-partita commerciale con Pechino, stia ostinatamente forzando le aziende americane a sacrificare i propri interessi sull’altare della questione nazionale.
Policy come i dazi e l’inserimento di determinati partner internazionali nella Entity List sono iniziative che, nel passato recente, sarebbero state intraprese a seguito di discussioni informali e collegiali, coinvolgendo nei processi decisionali i diretti interessati di Usa Inc.
Processo che non sembra affatto attuato in questa circostanza, considerando la reazione dei mercati: crollati in seguito all’annuncio della fine della partnership tra Google e Android, tiepidamente rimbalzati solo all’ufficializzazione della moratoria di 90 giorni.
Le reazioni cinesi, senza sorpresa, ricalcano il copione già evocato all’inizio di questo articolo. Ren Zhengfei, fondatore e presidente di Huawei, ha dichiarato all’emittente cinese nazionale CCTV che «gli Stati Uniti ci sottovalutano», ricordando che da mesi la compagnia aveva già nel cassetto una piattaforma alternativa ad Android e, se costretti dalle misure incoraggiate da Washington, la rilascerà senza troppi grattacapi.
Il presidente Xi Jinping, durante una visita nella provincia del Jiangxi, ha fatto appello all’orgoglio nazionale, chiamando a raccolta tutti i cinesi per prepararsi a una nuova «Lunga Marcia».
Il riferimento a uno dei passaggi chiave della storia cinese moderna – la ritirata delle truppe comuniste accerchiate dall’esercito nazionalista di Chiang Kai-shek proprio nel Jiangxi nel 1935, ricompattatesi attorno alla figura carismatica dell’allora semi-sconosciuto Mao Zedong – non è casuale: una fuga all’indietro che dà l’illusione della sconfitta, ma che in realtà rilancia il conflitto costringendo il nemico a una ritirata ingloriosa e definitiva a Taiwan.
È la bestia che sanguina all’angolo mentre si prepara a infilzare l’addome del matador, ad esempio rispondendo ai dazi di Trump applicandoli al mercato dell’estrazione delle terre rare, che Pechino controlla al limite del monopolio.
Intanto, da più parti si rinnova l’apprensione per il prezzo, altissimo, che questa “trade war” reclamerà sui mercati. Secondo Reuters, «le aziende americane potrebbero perdere fino a 56,3 miliardi di dollari in export nei prossimi cinque anni dalle limitazioni commerciali imposte nei confronti di Huawei». Conseguenze che metterebbero a repentaglio 74mila posti di lavoro.
Per l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Oecd), la “trade war” in corso rischia di mangiarsi lo 0,7 per cento del Pil globale: uno scenario che porterebbe a una perdita complessiva di quasi 600 miliardi di dollari entro il 2022.
Come nella corrida, in questa guerra tra Cina e Stati Uniti c’è un solo esito scontato: scorrerà il sangue.
 

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la Cina puo' convertire parte della sua industria in industria bellica come fanno gli Usa
con la differenza che il potenziale produttivo cinese potrebbe portare la Cina ad essere la prima potenza bellica in qualche anno
 

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