Arte e psicologia: tra volere e potere (1 Viewer)

baleng

Per i tuoi meriti dovrai sempre chiedere scusa
Parto da una osservazione che mi è "scappata" nel 3d di Jenkins, che vorrà scusarmi ovunque egli sia. Questa:

William Congdon
per me perfetto esempio di come si possa essere disperatamente materialisti pur professando fede cattolica.
Detto dall'altro lato, il cattolicesimo di per sé non è affatto una religione con forza spirituale, ma già ben inserita in un pensiero materialistico (nella sostanza), cioè polenta materialistica con sopra uno spruzzo di parmigiano spirituale.
Perché non si vede il rapporto di coerenza tra spiritualità nell'arte e spiritualità nella vita. E, come notava anche Sgarbi l'altra sera, sopra i fedeli non c'è più uno spazio per Dio, ma travi e materia greve.

Potrei motivarla. La superficie del quadro è una materia che si oppone alla profondità del nostro sguardo. Il pittore può reagire considerandola una porta verso l'idea, verso lo spirituale (che non significa affatto tridimensionalità) oppure solo un supporto per un accumulo di materia (che non significa che il pittore non abbia una visione). Il tutto a prescindere dal livello, dalla qualità dell'opera e dell'autore.
Si è visto abbastanza spesso, purtroppo, che il secondo caso porta con sé la tragedia del materialismo, perché il pittore a un certo punto si dice: io vivo solo per fare questi oggetti pieni di colore, anzi, di pigmento, ciò non porta a nulla, la mia vita è sprecata ecc.
Perché a un certo punto ognuno fa un bilancio, e deve trovare un senso per la sua vita. Se il pittore si è legato eccessivamente alla materia, se ha rinunciato a progettare prima con idee, a cercare un contatto con lo spirituale, ebbene, la materia ti trascina giù, e un senso di disperazione può entrare in chi ha dato tutta la vita all'arte, ma percepisce oscuramente di aver mancato proprio l'incontro più importante.
Il suicidio di Nicolas de Stael, (o quello di Chaim Soutine, o di Mark Rothko) secondo me ha proprio questa origine. Potrei aggiungere Tobey e Tancredi, se si vuole. Si potrebbe obiettare che almeno Stael e Rothko a un certo punto passarono da un uso greve di pigmento ad una pittura assai "liquida", ma il punto non è la quantità di materia, bensì l'attenzione esclusiva che per essa ha il pittore, tanta o poca che sia. E i più sensibili (non certo i pittori della domenica, o, per dire, gli Emblema, i Biggi, o certi rappresentanti dell'arte povera) sono più a rischio.

Ripeto, la questione non è che il pittore debba "rappresentare" qualcosa, non è quanta materia usa per dipingere. La questione è se il suo operare si perde nella materia pittorica o se è in grado di fare un passo indietro, di ricordarsi che altro c'è oltre il gesto del dipingere.

(più tecnicamente parlando, si potrebbe dire che creando questo genere di pittura il pittore non usa più l'occhio come tale, con vivacità, con mobilità, ma lo lascia immobilizzarsi quasi in modo da "non vedere": però capisco bene che è un discorso difficile, almeno per chi non abbia confidenza con il concetto reichiano di "blocco" muscolare-espressivo).

Congdon
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de Stael
destael-paysage-mediterraneen.jpg


Rothko
images
untitled-mark-rothko-1948.jpg


Soutine
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Cris70

... a prescindere
Baleng... questa è roba tosta, molto tosta.

Pensi veramente che guardando la produzione di un artista si possa evincere che la materia ha avuto il sopravvento sullo spirito :mmmm:

Torniamo un attimo a Jenkins (ti aspetto di lì) quale sarebbe la tua analisi?
Nuda e cruda guardando solo le opere che ho postato
Son curioso.
 

baleng

Per i tuoi meriti dovrai sempre chiedere scusa
Baleng... questa è roba tosta, molto tosta.

Pensi veramente che guardando la produzione di un artista si possa evincere che la materia ha avuto il sopravvento sullo spirito :mmmm:

Torniamo un attimo a Jenkins (ti aspetto di lì) quale sarebbe la tua analisi?
Nuda e cruda guardando solo le opere che ho postato
Son curioso.
Ho risposto qui Paul Jenkins | Pagina 3

riporto
Quella del pendolo tra materia e spirito è solo una delle angolazioni da cui guardare all'arte. Ce ne sono molte altre ...
Guardo le opere che hai postato e mi fingo totalmente ... ignorante dei dati reali. In tal modo vedrei, per restare a materia/spirito, una volontà di mantenere il senso di meraviglia limitando al massimo l'intervento umano. Per tale motivo, più che di spiritualità o materia, viene da pensare alla "vegetalità", nel senso che lo spirituale percepibile mi appare al tempo stesso come sub-umano. Esso dunque viene accolto, ma non dotato di individualità. E', come vedi, un caso particolare. Potrei accostarlo, differenze a parte, al grande Karl Blossfeldt, del quale mi stupisco tu non abbia mai parlato/scritto.

Detto in altri termini, potrei valutare che i pittori di là citati (Stael, Soutine ...) si sono immobilizzati dentro la materia, Jenkins si è immobilizzato (nel senso di rinuncia ad intervenire) fuori della materia. Pertanto potrei definirlo mistico, ma non so ...
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Ho letto SOLO ORA questo Paul Jenkins
Lo definiscono mistico :)

Mi fa piacere ... :futuro:
 
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baleng

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Ravenna,_san_vitale,_giustiniano_e_il_suo_seguito_(prima_met%C3%A0_del_VI_secolo).jpg


Ravenna,_san_vitale,_teodora_e_il_suo_seguito_(prima_met%C3%A0_del_VI_secolo).jpg


Tutti conosciamo questi mosaici ravennati (a San Vitale) famosi per la ieraticità. Estraiamo da Wiki
Le figure accentuano una bidimensionalità che caratterizza la pittura tutta di linee e luce dell'età giustinianea, che accelera il percorso verso una stilizzazione astrattizzante che non contraddice lo sforzo verso il realismo che si nota nei volti delle figure, nonostante l'idealizzato ruolo semidivino sottolineato dalle aureole. Non esiste prospettiva spaziale, tanto che i vari personaggi sono su un unico piano, hanno gli orli delle vesti piatti e sembrano pestarsi i piedi l'un l'altro. La decorazione di San Vitale mostra tutta la sintesi tipica del periodo giustinianeo nella volontà di asseverare il fondamento apostolico della chiesa ravennate, il potere teocratico dell'Impero e la linea dell'ortodossia contro le eresie, specialmente quella nestoriana, attraverso la riaffermazione trinitaria e la prefigurazione della Salvezza nella Scrittura.

Detta molto in sintesi: una raffigurazione fatta in questo modo è funzionale al potere che l'ha imposta. Perché? Perché la ricchezza del tutto - e dei personaggi - dà un'immagine di potere e ricchezza, ma soprattutto perché la bidimensionalità comunica all'osservatore un senso di impotenza. Ciò che è bidimensionale non ha volume, non si può, dunque, afferrare. Non a caso la mistica considera che salendo di "livello" nell'iniziazione le dimensioni diminuiscono, invece di aumentare. Queste grandi immagini non possono essere afferrate, non possono essere ridotte alla dimensione abituale dell'osservatore, che è tridimensionale. Pertanto verranno da lui assimilate a qualcosa di superiore, di divino.
Infine, è noto che l'immobilità del corpo segnala autorevolezza, ed è il debole che si muove con incertezza per tutto il tempo. Il forte "sta".

PS apposta ho riprodotto le immagini in formato grande :pollicione:
 

giustino

Art is looking for you
Parto da una osservazione che mi è "scappata" nel 3d di Jenkins, che vorrà scusarmi ovunque egli sia. Questa:

Potrei motivarla. La superficie del quadro è una materia che si oppone alla profondità del nostro sguardo. Il pittore può reagire considerandola una porta verso l'idea, verso lo spirituale (che non significa affatto tridimensionalità) oppure solo un supporto per un accumulo di materia (che non significa che il pittore non abbia una visione). Il tutto a prescindere dal livello, dalla qualità dell'opera e dell'autore.

Si è visto abbastanza spesso, purtroppo, che il secondo caso porta con sé la tragedia del materialismo, perché il pittore a un certo punto si dice: io vivo solo per fare questi oggetti pieni di colore, anzi, di pigmento, ciò non porta a nulla, la mia vita è sprecata ecc.

Perché a un certo punto ognuno fa un bilancio, e deve trovare un senso per la sua vita. Se il pittore si è legato eccessivamente alla materia, se ha rinunciato a progettare prima con idee, a cercare un contatto con lo spirituale, ebbene, la materia ti trascina giù, e un senso di disperazione può entrare in chi ha dato tutta la vita all'arte, ma percepisce oscuramente di aver mancato proprio l'incontro più importante.

Quello che hai scritto è mooolto interessante.:bow:
  • L'errore più grave è proprio quello di "dare tutto all'arte" perchè questo seppur bello può diventare davvero una prigione.
  • Vedere nell'arte la risposta alle domande più profonde che nascono in noi è riduttivo.
  • L'arte ti può accompagnare per un pezzo della strada ma quando ci si avvicina all'incontro più importante, quello con noi stessi, l'arte non basta più.
  • E' sempre opportuno lasciare aperta una via di fuga che non appena qualcosa di diverso, di decisivo, si possa essere in grado di mollare tutto, temporaneamente o per sempre, il costruito nel mondo dell'arte.
  • Per questo motivo penso che chi non vive l'arte come fonte principale di sostentamento sia privilegiato perchè ha più spazio di manovra

Il suicidio di Nicolas de Stael, (o quello di Chaim Soutine, o di Mark Rothko) secondo me ha proprio questa origine. Potrei aggiungere Tobey e Tancredi, se si vuole. Si potrebbe obiettare che almeno Stael e Rothko a un certo punto passarono da un uso greve di pigmento ad una pittura assai "liquida", ma il punto non è la quantità di materia, bensì l'attenzione esclusiva che per essa ha il pittore, tanta o poca che sia. E i più sensibili (non certo i pittori della domenica, o, per dire, gli Emblema, i Biggi, o certi rappresentanti dell'arte povera) sono più a rischio.

Ripeto, la questione non è che il pittore debba "rappresentare" qualcosa, non è quanta materia usa per dipingere. La questione è se il suo operare si perde nella materia pittorica o se è in grado di fare un passo indietro, di ricordarsi che altro c'è oltre il gesto del dipingere.

(più tecnicamente parlando, si potrebbe dire che creando questo genere di pittura il pittore non usa più l'occhio come tale, con vivacità, con mobilità, ma lo lascia immobilizzarsi quasi in moda da "non vedere": però capisco bene che è un discorso difficile, almeno per chi non abbia confidenza con il concetto reichiano di "blocco" muscolare-espressivo).

Non ho "confidenza con il concetto reichiano di "blocco" muscolare-espressivo" ma mi ritrovo molto nelle cose che hai espresso.

Andando sempre più in profondità, la superfice pittorica perde significato, in un certo senso non c'è più niente che valga la pena dipingere se non come sfogo, terapia personale.

E proprio qui il passo indietro, o di lato può permettere di intravvedere nuove interessanti possibilità espressive.

Ed allora anzichè Rotko, Soutine... porto ad esempio Fontana che mi pare uno di quelli che il passo indietro o oltre l'abbia fatto...
lucio-fontana-concetto-spaziale-attesa1964-65-idropittura-su-telacm-61x50.jpg










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baleng

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Se dovessimo dividere la storia in periodi a seconda che l’atmosfera generale fosse legata a percezione di buona ricchezza o di triste povertà, oppure anche periodo di “piacere” vs periodo di “tormenti”, forse ne sortirebbe una osservazione sull’uso dei colori o del nero.

Si vedrebbe che le epoche del piacere e della ricchezza prediligono l’uso del colore rispetto al BN, e i colori chiari rispetto a quelli scuri.

Senza volerne fare una rigida regola, si può comunque osservare che il settecento libertino con il Rococò, così come la Roma delle antiche ville affrescate o il secondo 900 da Appel a Warhol, abbiano prediletto l’uso di colori vivaci sia nella pittura che nella grafica (vabbè, lasciando stare l’antichità).

E si osserva anche come l’Italia degli anni 70, paese in crisi e pieno di problematiche politiche e sociali, abbia sospeso il trionfare di grafiche colorate per volgere verso il bianconero di opere il più delle volte tormentate e fredde (spesso anche scarse).

Chiaramente la presenza del colore coinvolge soprattutto i sensi, quella del segno nero è più vicina all’intelletto. Pertanto, in un periodo in cui i sensi vengano mortificati, prevarrà l’oscurità nelle sue varie forme. Si pensi all’oscuro 600 italiano post-caravaggesco e controriformista; o si pensi al periodo fascista, che, dopo il tripudio di colori e di bon-vivre, anche in Italia, della Belle Époque, propose forme austere e poco colorate, sino alle oscurità di un Sironi. O viceversa alla Milano da Bere degli anni 80, con i colori leggeri di Tadini, Treccani ecc.

Se questo è vero, sarà possibile anche cercare alcune contraddizioni che appaiono quasi come dei lapsus. Per esempio irruzioni di “colore” in opere o momenti di segno opposto, o improvvise oscurità nell’ambito di una visione piuttosto tragica. Tali contraddizioni possono addirittura nascondere quasi del tutto una realtà psicologica opposta. Si veda a questo proposito come Tancredi, che sviluppò negli estremi anni una schizofrenia affiorante chiaramente anche dai suoi ultimi lavori, sino a giungere al suicidio, non abbia abbandonato la gamma di colori chiari di cui si serviva prima, nel periodo generalmente più noto ed apprezzato. Lì, solo il rovello delle forme comunicava la situazione psichica.

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tancredi@10.18.39_1.jpg
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Per dare un esempio, comunque, di questi “lapsus”, si veda come in questo Klee dell'ultimo periodo la gioiosa leggerezza precedente si sia già metamorfosata in serenità apparente, proprio tramite i pochi segni neri che "negano" il colore pastello di fondo

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Paul_Klee_Ohne_Titel_Gefangen-copia.jpg
 
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baleng

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Poiché li cito nel 3d "Stroncature", approfitto per indicare qui i lati negativi di Carzou e Bernerd Buffet.
bernard-buffet-les-trapezistes.jpg
In questo Buffet le linee sono tutte rette (rigide) e nere, cioè si tratta di disegno colorato, non di pittura. La linea esprime il contatto dell'artista con il mondo e, contemporaneamente, come egli riesce a pensare il mondo. L'assenza totale di qualche morbidezza ovviamente espone una rigidità e un modo di pensare schematico.
bernard-buffet-violinist.jpg
bernard-buffet-notre-dame-de-lorette-et-le-sacre-coeur.jpg
bernard-buffet-le-coq-(the-rooster).jpg
Inoltre l'incrociarsi scomposto delle linee oscura letteralmente il lavoro, facendo percepire una insensibilità alla luce e alla bellezza, con effetto sporcizia inevitabile. Diciamo che Buffet ci comunica il peggio di sé. Poiché il masochismo abbonda nella nostra società, è ancora autore quotato piuttosto caro.

Osservazioni analoghe si possono fare su Carzou

jcar-l001.jpg
images
 

baleng

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Si potrebbe poi notare, più leggermente, che di solito esiste una discreta correlazione tra la cucina di un paese e la pittura dei suoi artisti. La Gran Bretagna non è esattamente nota come un paese della grande cucina: ora, a parte che io personalmente ho poca fiducia nelle capacità degli inglesi in questo campo, tuttavia non si può non notare che i colori acidi di un Bacon abbiano qualche rispondenza con il paese del fish & chips. La ricchezza dell'alta cucina francese si rispecchia nelle varietà di colori e tocco degli impressionisti, la semplicità di quella italiana con la sobria armonia di molti suoi classici. Peraltro, la pesantezza della cucina del nostro meridione produce opere a loro volta spesso grevi, da Guerricchio a Cantatore ecc.
Il linguaggio lo mostra chiaramente quando, indifferentemente, parla di gusto, per l'arte come per la buona cucina. D'altra parte, mi verrebbe da dire: trovami un pittore che non sappia cucinare - ma non lo dico perché le eccezioni ci sono :d:
Naturalmente questi due aspetti possono essere visti più in general nel quadro delle molte caratteristiche di un popolo (carattere, musica ecc), ma mi sembra innegabile che pittura e cucina abbiano un rapporto particolarmente privilegiato.
 

Heimat

Forumer attivo
Interessante questo riferimento alla connessione tra arte e cucina. Tu sicuramente puoi portare ad esempio altri esempi. Cucina tedesca ad esempio: come paragonarla con Kiefer, Polke, Baselitz, Mack ?
 

baleng

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Interessante questo riferimento alla connessione tra arte e cucina. Tu sicuramente puoi portare ad esempio altri esempi. Cucina tedesca ad esempio: come paragonarla con Kiefer, Polke, Baselitz, Mack ?

Quello che ho visto della cucina tedesca è, volendo trovare una sintesi, buona cura nel preparare piatti semplici, ma fantasie un po' perverse quando si tratta di tentare una cucina più raffinata. Ti pare che coincida con i tuoi autori?
 
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