Appunti di geopolitica (1 Viewer)

lorenzo63

Age quod Agis
L’Iran

Lo scontro Ahmadi-Nejad/Mousavi è solo l’aspetto più evidente del duro braccio di ferro in corso tra estremisti e moderati. In un clima di apparente normalizzazione, mentre l’agenzia Ria Novosti, citando la Radio Russa, parla della richiesta dei comandi pasdaran di processare il sessantasettenne Mousavi, candidato riformista alle recenti elezioni presidenziali, condannandolo addirittura a 10 anni, il dissenso e le polemiche per il controverso voto presidenziale non si sono ancor placati del tutto. La verifica del 10% dei voti autorizzata dal Consiglio dei Guardiani ed effettuata in presenza del solo rappresentante del presidente uscente, Ahmadi-Nejad, ha prevedibilmente confermato la vittoria di quest’ultimo.

Il risultato del voto, però, continua a non essere riconosciuto da Mousavi, sostenuto in questo suo rifiuto da vari settori professionali e dagli intellettuali, nonché dalla parte più “illuminata” del clero sciita (gli ayatollah Montazeri, Sanei, Ardebili, Bojnurdi, Tabrizi). In uno dei suoi ultimi comunicati, Mousavi parla apertamente della “nostra responsabilità storica di continuare la protesta per ripristinare i diritti dei cittadini ”.

La manipolazione del voto, a parere dei riformisti e di ampie fasce della società civile, è stata pianificata dal governo di Ahmadi-Nejad, da alcuni ambienti dell’esercito politico dei pasdaran (le milizie basiji) e dai servizi sotto l’egida dell’ultraconservatore esponente del clero sciita, l’ayatollah Mesbah Yazdi. Come è noto, subito dopo l’annuncio ufficiale del voto, il governo di Ahmadi-Nejad ha fatto arrestare gli esponenti e gli attivisti del riformismo (Hajjariyan, Atriyanfar, Mirdamadi tra gli altri) ed in una condizione di monopolio dei media radiotelevisivi, ha limitato ulteriormente i margini d’espressione democratica (stampa, internet, sms), vietando ogni manifestazione e annunciando manovre delle forze di polizia nelle città e dell’esercito nelle aree extraurbane. Per tutta risposta, in una imponente manifestazione (non autorizzata) di protesta tre milioni di cittadini di Teheran hanno invocato pacificamente l’annullamento del voto, chiedendo il rispetto della legalità.
Lo scontro, inevitabilmente, ha finito per coinvolgere tutta l’opposizione democratica, da tre decenni ufficialmente esclusa dalla vita politica del paese e dall’ambito nazionale minaccia di travalicare nell’arena internazionale.

2. Dopo la rivoluzione del 1979, l’Iran è guidato da un potere che ha escluso in maniera sistematica i rappresentanti politici di vasti strati della società. Dopo la caduta della dinastia Pahlavi e l’eliminazione della sua base sociale, è stata la volta dei partiti etnici (come il Partito democratico del Kurdistan) e poi di quelli nazionalisti (Tudeh, il Partito comunista, i feddayyin, i mojaheddin e ad altre correnti della sinistra e dei liberaldemocratici eredi del governo Mosadegh). Nelle intenzioni dei gerarchi, ora dovrebbe toccare a Mousavi, due volte prim ministro ai tempi dell’ayatollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica. Così si è costituito uno potere d’indirizzo conservatore, il quale, tuttavia, in considerazione delle millenarie tradizioni di una delle più antiche nazioni del mondo e del convivere storico di etnie e indirizzi cultural-confessionali diversi, non ha potuto non mantenere alcune forme di pluralismo formale.
Si dimentica, però, che l’Iran è al contempo una civiltà millenaria e l’unico paese al mondo in cui lo sciismo, la corrente razionalista dell’Islam, è maggioritaria. Si dimentica anche che l’Iran è il paese della rivoluzione costituzionalista del 1906, unica in tutto l’oriente, del movimento democratico di Mossadegh, della tendenza modernista di Khatami e che il paese ha duramente contrastato i taliban.
Libano, Afghanistan, Pakistan, India, Azerbaigian, Arabia Saudita, Bahrein, Yemen, ecc.), i capi delle forze armate, i vertici del potere giudiziario e della radiotelevisione di Stato e i membri del “ Consiglio dei Guardiani”.Il Rahbar ha voce in tutti gli aspetti della vita politica: è autorità somma nella politica estera, nella difesa, nella cultura, dove i suoi consiglieri hanno un maggior peso rispetto ai ministri del governo.

Sotto la Guida Suprema c’è il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione (dodici membri, 6 giureconsulti nominati dalla Guida Suprema e 6 giuristi proposti dal parlamento ed approvati dalla Guida Suprema). Quest’organo, molto sensibile alle istanze della Guida Suprema, decide preventivamente sull’approvazione di tutte le candidature ai vari livelli e ha la facoltà di abrogare le leggi del parlamento, se non le ritiene conformi alla propria interpretazione della legge sacra.

Rispetto alla Guida Suprema, eletta o nominata dal Consiglio degli Esperti (majlis-e Khebregan-e Rahbari, il Senato di giureconsulti e giuristi d’indirizzo religioso), il presidente della repubblica, in carica 4 anni, è una specie di capo del governo e nomina i ministri (che hanno bisogno dell’approvazione del parlamento), i quali de facto amministrano la cosa pubblica per conto dei poteri non elettivi come la Guida Suprema, il potere giudiziario, i pasdaran e le varie strutture di sicurezza. Durante la presidenza di Ahmadi-Nejad c’è stata una fusione di questi poteri e il complesso militar industriale, arricchito dagli introiti petroliferi, ha cercato di eludere il ruolo guida del clero e di togliere spazio alle oligarchie di bazar (base tradizionale delle varie anime del clero). Da una parte la maggioranza del clero composto dai centristi vicini a Rafsanjani (gli ayatollah Javadi Amoli, Amini, Ostadi, Bayat Zanjani), dagli ayatollah illuminati e di sinistra (Montazeri, Taheri, Sanei, Mousavi Tabrizi, Mousavi Bojnurdi), dagli islamisti provenienti dagli ambienti universitari allievi di Khomeini, Taleghani, Bazargan e Shariati di formazione francese (come Mousavi stesso, ma, soprattutto, la moglie Zahra Rahnavard). A questi si aggiunge il partito Mosharekat, Majma’-e Rohaniyun e altri partiti riformisti, sostenuti dal mondo del lavoro e della cultura, dalle minoranze, dalle donne, dai giovani e dall’opposizione democratica erede di Mossadegh. Con il governo Ahmadinejad, molti pasdaran sono diventati governatori di varie regioni e province ed, assieme agli ambienti di sicurezza sostenuti dall’ala tradizional-letteralista del clero (Mesbah Yazdi, Mohammad Yazdi, Mahdavi Kani, Ahmad Khatami), costituiscono il famoso “Partito della caserma”. Appoggiati sul piano internazionale dalla Russia e dalla nomenclatura cinese, mirano a rafforzare il regime sul piano interno e a cercare lo scontro sul piano esterno, per cementare ulteriormente il proprio potere.

Sul piano sociale, parlare di islamisti radicali seguaci di Ahmadinejad che propugnano una politica sociale più decisa e hanno l’appoggio dei ceti più poveri della popolazione è approssimativo e fuorviante. La presidenza di Ahmadi-Nejad, caratterizzata da nepotismo e malgoverno, ha alimentato l’inflazione, rendendo la vita difficile alle categorie meno abbienti.
A fronte degli irriducibili, che controllano gran parte dell’economia e hanno in Ahmadi-Nejad il loro portavoce, vi il clero moderato, di gran lunga maggioritario.
La libertà d’espressione è stata fortemente limitata e molti esponenti ed attivisti del riformismo si trovano tuttora in carcere. Shariatmadari, direttore del quotidiano vicino ai servizi, chiede “un processo a carico di Mousavi e Khatami per tradimento”.
Secondo il fratello e rappresentante del candidato Rezai, comandante dei pasdaran ai tempi della guerra con l’Irak e conservatore di ferro, in alcuni seggi il 70% delle schede risulterebbe scritto con la stessa calligrafia e la stessa penna.
Così, nonostante l’insistenza del ministero degli Interni riguardo la veridicità delle percentuali annunciate anche dopo la verifica delle schede, i cittadini sfiduciati dal comportamento dei governanti hanno continuato la protesta in modo deciso e massiccio. Di fronte alla mobilitazione della società civile, che ha spaventato le gerarchie del potere, è sceso in campo il capo di Stato Maggiore delle forze armate, il generale pasdaran Firouzabadi, che ha minacciato gli europei intimando loro di “chiedere scusa”.
L’emergere del radicalismo in Iran è stato facilitato dalle politiche dell’amministrazione Bush, che era arrivata a inserire il governo del riformista Khatami nell’Asse del male. Questo ha indebolito i movimenti della società civile iraniana, punto di riferimento per tutto il Medio Oriente, ed ha dato linfa vitale alle forze ultraradicali.

Oggi il duo Khamenei–Ahmadi-Nejad, facendosi scudo della Shanghai Cooperation Organization (Sco), cerca di applicare in Iran il modello russo-cinese, basato sulle aperture economiche all’esterno e sulle chiusure sociali interne. Non a caso, Ahmadi-Nejad è stato ricevuto da Medvedev la mattina dopo l’annuncio ufficiale del voto. Negli ultimi 200 anni, gran parte dell’intellighenzia iraniana si è formata in Europa ed oggi numerosi iraniani vivono e lavorano in Europa. In Iran storicamente è esistito il dispotismo, ma mai il totalitarismo che, come dimostra la popolarissima pratica sufi basata sulla tolleranza e accettazione delle diversità e i vari movimenti della società civile di tendenza modernista , non appartiene all’anima più profonda della nazione.


6. L’atteggiamento deciso di Mousavi nel continuare la protesta dimostra che egli non solo si sente forte come leader della società civile, ma che probabilmente gode anche del sostegno di ambienti di militari nazionalisti e di quei conservatori che credono nei valori della repubblica, ancorché d’indirizzo islamico e conservatore. La stessa ala illuminata del clero sciita di Qom (a differenza di quello di Mashhad ), nei suoi valori basilari tende piuttosto verso la democrazia . La stessa Guida Suprema, sebbene schierata con Ahmadi-Nejad, sembra più incline al compromesso che allo scontro.
È noto che l’Iran non dispone ancora nemmeno del nucleare civile: come potrebbe mai minacciare sul serio di distruzione nucleare Israele, che invece è una potenza nucleare ufficiosa?

Una soluzione al problema, che preoccupa molte cancellerie, potrebbe venire proprio dal movimento democratico iraniano, in quanto sono stati i riformisti del governo Khatami i primi a porre il problema della sicurezza delle centrali (vista la vecchia tecnologia sovietico-russa) e della compatibilità del loro status con la giurisdizione internazionale.

L’America del presidente Obama, è conscia della centralità dell’Iran nell’ambito regionale e della sua importanza nel contribuire alla sicurezza e stabilità globale.
 

lorenzo63

Age quod Agis
Progetto Nabucco

Pubblico delle immagini e un video descrittivo del progetto Nabucco, gasdotto voluto dall'Unione europea per importare oro blu direttamente dalle regioni del Mar Caspio e ridurre così la dipendenza da Gazprom. Nello specifico il progetto vede coinvolte diverse società: Mol (Ungheria), Botas (Turchia), Omv (Austria), Bulgargaz (Bulgaria) e Transgas (Romania). Il gasdotto collegherà l'Europa alla regione iraniana del Caspio, da cui entro il 2025 dovrebbe provenire il 15% circa delle forniture di gas della Unione europea.

Nabucco: tragitto e distanze

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Il costo stimato dell'infrastruttura, lunga 3.300 km, è di circa 7,9 miliardi di euro, mentre la capacità totale è stata calcolata intorno ai 30 miliardi di metri cubi all'anno

Dopo la conferenza in Repubblica Ceca, si scatenano i diverbi sul gas tra i paesi caucasici. Si lavora sul progetto del gasdotto diretto in Europa.

ll summit Europeo sul “Southstream Corridor” svoltosi a Praga lo scorso 8 maggio ha dato il calcio d’inizio di una nuova fase per le trattative del progetto del gasdotto Nabucco in Europa. Il risultato di maggior spessore del summit é rappresentato dall’accettazione della dichiarazione finale da parte dei presidenti di Turchia, Georgia e Azerbaijan nel supportare il progetto Nabucco. I tre paesi infatti, hanno dato il via libera alla possibilitá di garantire un flusso di 31 miliardi di metri cubi l’anno di gas naturale (circa il 5% del fabbisogno energetico europeo) provenienti dall’Azerbaijan attraverso la pipeline Nabucco. Dopo aver attraversato la Turchia, la pipeline Nabucco si dirigerá verso l’hub europeo, situato a Vienna. La realizzazione del progetto Nabucco, insieme a quello di altre pipeline sul suolo europeo come White Stream e ITGI, fanno parte di un progetto di sviluppo/partenariato promosso dall’Unione Europea del Southern Corridor, eticchettato dalle autorità di Bruxelles come un progetto di mutuo sviluppo economico, tecnologico e sociale di una nuova Silk road, che si estende fino all’Asia Centrale.

L’emergenza di un ‘passo in avanti’ per lo sviluppo del progetto Nabucco ha sicuramente risentito dell’ultima crisi del gas tra Ucraina e Russia lo scorso Gennaio e della necessitá di una diversificazione degli approviggionamenti di gas naturale da Mosca. Il consorzio europeo guarda con maggior fiducia al prossimo summit di Istanbul alla fine del mese di giugno, dove i paesi esportatori e di transito si riuniranno per firmare un accordo intergovernativo per l’inzio dei lavori. I vertici europei non hanno trovato un accordo sui paesi da cui l’Unione Europea riceverá il gas naturale per le tre pipelines. La Turchia, inoltre, non ha rivelato se e quali tariffe applicherá al gas che transiterá sul suo territorio. Il problema è rappresentato dalla quantità del gas proveniente dalla fase II che l’Unione Europea può realisticamente comprare dal paese caucasico, considerando che parte del gas estratto in fase II sarà destinato al mercato interno azero e che la richiesta turca di una quantità ben superiore a 7 miliardi di cubi annui da destinare al proprio mercato interno. Durante il summit di Praga, il governo di Ankara ha accantonato il progetto di ricevere il 15 per cento del gas di transito sul proprio territorio ad un prezzo più basso, tecnicamente conosciuta come strategia del “transit plus’’. L’aspetto politico di questa vicenda è legato anche ad una clausola ufficiosa trapelata dal presidente turco Gul, secondo cui sarebbe possibile il supporto turca al progetto a due condizioni: l’ avanzamento dei negoziati per l’ammissione turca all’Unione Europea, maggior cooperazione riguardo l’accesso turco nel mercato energetico europeo.
Da tempo, il governo di Ashgabat ha manifestato interesse nel garantire uno sviluppo commerciale alle proprie risorse di gas cerando dei mercati alternativi a quello russo per le esportazioni delle proprie risorse. Alla fine di questo anno, la provincia cinese dello Xinjang riceverá i primi flussi di gas turkmeno attraverso la nuova pipeline turkmeno-cinese. Ad ovest, l’Unione Europea potrebbe rappresentare un ulteriore mercato cui far confluire le proprie risorse gazifere. Lo scorso mese il Turkmenistan ha firmato un accordo con la compagnia tedesca RWE, membro del consorzio Nabucco, che prevede il diritto di esplorazione di risorse di gas naturale da poter esportare in Europa attraverso la trans-caspian pipeline sotto il mar del Caspio fino a Baku.
Malgrado l’incertezza che ruota intorno alla posizione turca, la prossima visita della delegazione turkmena il prossimo 4 giugno a Bruxelles potrebbe offrire punti interessanti per il futuro della sicurezza energetica europea..
 

lorenzo63

Age quod Agis
Groenlandia, l’indip. passa dall’uranio--Cina:perchè problemi con gli UIGURI

Da anni la Groenlandia, provincia autonoma danese, scalpita per avere l’indipendenza da Copenaghen e divenire un vero e proprio Stato. Raggiunta qualche mese fa la piena autonomia tramite un referendum, l’autogoverno di Godthåb (o Nuuk, in lingua inuit) ha deciso di autorizzare l’estrazione dell’uranio presente nel sottosuolo dell’Isola di Ghiaccio, nonché, ovvio, il suo sfruttamente economico, cosa che il governo centrale danese aveva sempre vietato.

La prima licenza estrattiva (per delle indagini in una zona di 82 chilometri quadrati) è andata alla compagnia australiana Greenland Minerals Energy (Gme), che opererà a Narsaq, nel sud dell’isola. La Gme, presieduta da Hans Kristian Schønwandt, stima che nell’area che sonderà potrebbero essere celati più di 85 mila tonnellate di uranio (ovvero oltre il doppio di quanto nei primi anni ‘80 aveva ipotizzato l’Agenzia danese per l’energia atomica).

Com’è comprensibile, le associazioni ambientaliste sono assai preoccupate. L’estrazione dell’uranio, infatti, potrebbe aggravare le condizioni dei ghiacciai groenlandesi, che, secondo alcuni dati forniti dai satelliti della Nasa, rappresentano il 50% circa di tutti i ghiacciai del pianeta scioltisi negli ultimi 5 anni.

Petrolio, gas e uranio Ecco il tesoro che fa gola al regime


Il «Tibet islamico» è tornato ad esplodere come un fiume carsico, che ogni tanto affiora dalle viscere della colonizzazione cinese. Lo Xinjiang è una vasta regione montuosa e desertica della Cina nord occidentale a tremila chilometri da Pechino. Da quelle parti passò Marco Polo lungo la via della Seta. Otto milioni di abitanti, il 45% della popolazione, sono uiguri, l’etnia originaria musulmana e turcofona. I cinesi del ceppo Han, grazie alla colonizzazione forzata, sono passati dal 6% al 40%. Inevitabile l’astio etnico fra la popolazione originaria ed i nuovi colonizzatori, che affonda nella storia di questo angolo di mondo poco conosciuto. Alla fine della guerra civile cinese fra nazionalisti e comunisti gli uiguri fondarono la Repubblica indipendente del Turkestan. Nel 1949 l’esercito di liberazione di Mao conquistò armi in pugno la regione ribatezzandola Xinjiang. Per i cinesi lo Xinjiang è il forziere del terzo millennio, ricco di risorse naturali (gas, petrolio ed uranio). Non solo: a Lop Nor sono state testate le armi nucleari cinesi. Il Tibet musulmano è esploso negli anni Novanta con insurrezioni di piazza, duramente represse, che causarono centinaia, forse migliaia di morti e 300mila internati nei campi di rieducazione. La rivolta aveva anche un suo braccio armato: le Tigri di Lop Nor composta dai veterani della guerra santa in Afghanistan contro l’invasione sovietica degli anni Ottanta. Gli uiguri sono discriminati nel mercato del lavoro a favore dei cinesi. I bingtuan sono enormi strutture produttive militarizzate, create soprattutto lungo il confine con l’Asia centrale, dove trovano lavoro e alloggio milioni di immigrati Han. Della lingua degli uiguri è vietato l’insegnamento e la loro cultura viene poco a poco erosa dalla penetrazione cinese. Il pugno di ferro di Pechino ha provocato una diaspora negli Stati Uniti ed in Europa, dove si sono formate organizzazioni di dissidenti soprattutto in Germania e Turchia. Le sirene talebane del vicino Afghanistan hanno attratto una minoranza di giovani dello Xinjiang alla ricerca dell’Islam duro e puro. In 17 vengono catturati e deportati a Guantanamo. Dopo la sconfitta dei talebani, Qari Mohammed Tahir Jan, fonda il Movimento islamico del Turkestan orientale raccogliendo le schegge fondamentaliste di tutta l’Asia centrale. Il gruppo armato, sulla lista nera dell’Onu, può contare su alcune centinaia di veterani della guerra santa internazionale con gli occhi a mandorla. I cinesi fanno di tutta l’erba un fascio e accusano di terrorismo sia le cellule che emulano Al Qaida, che i gruppi dissidenti trapiantati all’estero che si battono pacificamente per chiedere il rispetto dei diritti umani e la libertà. Un sanguinoso attentato ed un dirottamento sventato lo scorso anno, in occasione delle Olimpiadi, servono a demonizzare il separatismo islamico dello Xinjiang. Prima dei Giochi i cinesi arrestano migliaia di uiguri e scoppiano nuovi scontri. Gli americani, però, liberano un mese fa quattro uiguri detenuti a Guantanamo consegnandoli alle Bermude. Dove i «terroristi» scagionati sognano solo di aprire un ristorante. Per gli altri gli Usa cercano Paesi che li ospitino non considerandoli pericolosi. Pechino li vorrebbe indietro per condannarli a morte. Al disgraziato popolo degli uiguri manca un Dalai Lama, una figura carismatica, che porti avanti nel mondo la loro causa. Rebiya Kadeer è la leader in esilio del Congresso mondiale degli uiguri proposta per il Nobel per la pace. Alla Cina chiede solo «libertà e non indipendenza. Ci battiamo per una vera autonomia come quella chiesta dal Dalai Lama per il Tibet».
 

Imark

Forumer storico
La frontiera energetica con la Russia ha già scavalcato l'Ucraina ed è più a ovest, sull'Ungheria. La Gaprom russa ha acquistato il 20% della società ungherese MoL, coinvolta anche nel Nabucco. Ma la Russia preferisce South Stream. Le preoccupazioni ungheresi.

E’ per comprensibili ragioni industriali e politiche che Mosca preferisce lo sviluppo della pipeline per il gas “South Stream” rispetto al progetto “Nabucco”: è noto che la prima struttura passa per il territorio russo, e la seconda no.

Sembrerebbe che il “pericolo” per il Cremlino sia comunque limitato, visto che il consorzio Nabucco fatica a trovare sufficienti forniture per occupare la capacità prevista per il tubo. Eppure, alcune recenti vicende sviluppatesi in Ungheria sembrerebbero suggerire che i russi stanno seguendo attentamente il progresso di Nabucco, mettendo in campo tutte le tattiche possibili.

Tra i principali investitori di Nabucco risulta essere infatti “MoL”, una compagnia energetica ungherese, una delle più grandi aziende indipendenti europee del settore. Si tratta di una sorta di “Gazprom ungherese”, visto che è nata nel 1991 come unione di 9 aziende energetiche statali. Forse è per questa affinità che Gazprom verso la fine di aprile ha rilevato il 21,2% delle quote di Mol, tramite la consociata Surgutneftegas. Il prezzo di acquisto è stato di 1,4 miliardi di euro, e tutto si è svolto in stile russo d’antan, in un aurea di riservatezza che ha escluso qualsiasi tipo di preavviso al governo di Budapest. Il presidente ungherese Laszlo Solyom ha potuto solo protestare per la procedura seguita; il suo ministro degli Esteri ha convocato l’ambasciatore russo per chiedere spiegazioni. Ma l’operazione era già conclusa.

E’ necessaria una premessa: l’energia è uno dei settori più sensibili per gli ambienti politici e industriali ungheresi, proprio per il fatto che porta con sé un retaggio a tinte fin troppo fosche del passato sovietico
Anche la gestione della rete nazionale di distribuzione del gas può diventare una “dimostrazione di tutte le negoziazioni segrete che hanno trasformato il settore energetico di questa parte dell’Europa in un pantano”, secondo un recente articolo dell’Herald Tribune. E’ per questo che Budapest si è preoccupata oltre ogni misura quando si è diffusa la notizia che Gazprom si celasse dietro alla cessione di alcune quote in “Emfez”, una società ungherese che controlla un quinto del mercato di gas nazionale.

Emfez era stata creata nel 2003 da un imprenditore ucraino, Dmitry Firtash, che la riforniva di gas da un’altra azienda di sua proprietà, la RosUkrEnergo, quest’ultima partecipata da Gazprom. Tra le attività secondarie di RosUkrEnergo, e forse tra le prime a livello lucrativo, c’era quella di vendere il gas russo e turkmeno all’Ucraina. Il destino ha voluto che nel corso dell’ultima disputa russo-ucraina, il primo ministro di Kiev Julia Tymoschenko si sia accordata con Putin perché l’Ucraina comprasse direttamente il gas da Mosca, facendo fuori RosUkrEnergo dal giro – un giro che valeva circa 800 milioni di dollari l’anno.

La notizia curiosa è giunta dopo: RosUkrEnergo non avrebbe più rifornito Emfez. Il gas per l’Ungheria sarebbe stato comprato dalla “RosGas”, un’azienda di sede svizzera, fino allora pressoché ignota. O almeno, di provenienza incerta, se si considerano le voci insistenti che la vogliono imparentata con Gazprom.

Gazprom sostiene di non aver nulla a che fare con Rosneft; su diverse testate si è sostenuto invece che RosGas sia legata alla bulgara Overgas, dalle dirette relazioni con Gazprom. Quale che sia la verità, un punto chiaro comunque c’è: per anni ci siamo preoccupati di un possibile ritorno della Russia in Europa, dopo l’aggressiva avanzata della NATO verso Est. Le vicende ungheresi suggeriscono che il confine si è già spostato oltre l’Ucraina.
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Segnalo sul punto un interessante articolo del Sole sul numero di sabato scorso... se qualcuno riuscisse a recuperarlo...
 

lorenzo63

Age quod Agis
Un libro da leggere

Segnalo una buona lettura per chi fosse appassionato dell' argomento il libro scritto da PARAG KHANNA avente titolo "I TRE IMPERI": un libro scritto con rara lucidità e visione d'assieme e nel dettaglio come pochi o nessuno sa fare...da leggere tutto d'un fiato ....

Mi permetto di consigliarlo in particolar modo a LINA (che nn me ne voglia..:)) e che cortesemente saluto, la quale ,curiosissima ed instancabile ricercatrice, troverà la risposta alla domanda "che ci stiamo-stanno a fare (gli Americani..) in Afghanistan?"(mi rifaccio al post/3D nella creazione del nemico..) ne verrà fuori un quadro meno nebuloso, dove si vede come gli USA, come al tempo del Vietnam nn è che abbiano imparato un granchè in gestione della politica estera :( ....

Un caro saluto a tutti. :)
 

Franzo

PELO e CONTROPELO
Caro Lorenzo, ... "fai bene quello che stai facendo" ... lo hai scritto sotto il bel dipinto (inglese?) dell' avatar, ... in maniera metaforica la frase costituisce un richiamo ad interpretare correttamente il presente, che solo è ... in nostro possesso e, dal quale, dipende l'avvenire.

Splendido topic.
 

lorenzo63

Age quod Agis
Caro Lorenzo, ... "fai bene quello che stai facendo" ... lo hai scritto sotto il bel dipinto (inglese?) dell' avatar, ... in maniera metaforica la frase costituisce un richiamo ad interpretare correttamente il presente, che solo è ... in nostro possesso e, dal quale, dipende l'avvenire.

Splendido topic.

Grazie dei complimenti, Franzo :up::up: :)

Il dipinto è di Caspar David Friederich, Viandante sopra un mare di nebbia...1817-18; Una delle massime espressioni della pittura tedsca dell' 800 del filone del Romanticismo...A me è piaciuto (in combinazione con la frase sotto riportata.. "fai bene quello che stai facendo") in quanto sebbene hai passato buona parte della vita a studiare, ad apprendere, quindi in una frase a salire con la conoscenza, poi quando guardi in basso o se vogliamo anche al tuo livello o addirittura in alto comunque ti accorgi che poco hai capito e che comunque volendo ben vedere molto ti è oscuro.. per questo è necessario anzi è ancor di piu' necessario "fare bene quello che stai facendo" che è la cosa migliore per avere un po' meno nebbia nel futuro tuo.

Buona serata Franzo :)
 

mostromarino

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da corriere del ticino,oggi
non linko in quanto in abbonamento

:D

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I CLINTON

HILLARY: STAR CON L’OMBRA DI BILL

GERARDO MORINA

Da quando, all’inizio di quest’anno, Hillary Clinton si è insediata a Foggy Bottom, l’edificio di Washington dove ha sede il Dipartimento di Stato, il suo percorso come responsabile della politica estera americana è stato in continua ascesa.

Prima i viaggi in Asia e ora quello in Africa (si conclude oggi con l’ultima tappa a Capo Verde) hanno mostrato una segretaria di Stato che ha saputo sempre più costruirsi un proprio spazio e un grado di affidabilità tale da essere considerata in patria quasi universalmente un’abile tessitrice degli interessi americani nel mondo.

All’estero il presidente Obama è impegnato in un complicato gioco di costruzione di una nuova immagine degli Stati Uniti che si distacchi da quella del suo predecessore Bush, senza però rinunciare in pratica ad alcuni cardini fondamentali: l’aumentato impegno militare in Afghanistan, il contrasto dell’arma nucleare nordcoreana e iraniana, la lotta all’estremismo islamico, un rapporto di collaborazione con la Cina, ma nello stesso tempo (come è il caso del continente africano), la costruzione di un’argine contro
l’avanzata trionfale di Pechino su nuovi mercati.


«L’America è tornata», «Nessun Paese può oggi affrontare le sfide globali da solo» sono gli slogan della neosegretaria di Stato che, in un discorso pronunciato lo scorso 15 luglio al Council on Foreign Relations, ha chiarificato la nuova strategia di cui intende farsi portabandiera nel mondo: una strategia, ha detto Hillary Clinton, multilaterale in cui l’America è chiamata a essere leader ma fornendo l’esempio, esercitando il suo «soft power» (l’arma della persuasione e della diplomazia), ma anche, quando è necessario, ribadendo la sua forza di superpotenza.


«Madame Secretary», così la chiamano ufficialmente al Dipartimento di Stato, ha saputo egregiamente calarsi nel suo ruolo perché ha giocato quattro carte fondamentali.

Ha creato buone relazioni con il Pentagono, soprattutto con il ministro della Difesa Robert Gates, repubblicano e succeduto a Donald Rumsfeld, ma più elastico e aperto del suo
predecessore.

Ha saputo vincere le resistenze e le diffidenze del vicepresidente Joe Biden, tutt’altro che digiuno di politica estera in quanto già presidente del Foreign Relations Committee del Senato.

Ha avuto il merito di diversificare e delegare la gestione della politica estera americana a tre differenti «inviati speciali»: Richard Holbrook per il Pakistan-Afghanistan; Dennis Ross per il Golfo e i Paesi del sudovest asiatico; e George Mitchell per il processo di pace in Medioriente.


È riuscita infine – contraccambiata – a dimenticare le ostilità dimostrate per Obama nel corso della campagna elettorale per diventare un’influente e fedele componente del gabinetto ministeriale del presidente.

In altre parole una segretaria di Stato che è oggi battuta negli indici di popolarità solo dal suo «boss» Barack Obama.


Rimane però il fatto che se da una parte Hillary Clinton ha tutte le carte in regola per apparire una star e rifulgere di luce propria nel ruolo che le compete, dall’altra non manca puntualmente di vedersi, anche se solo parzialmente, ottenebrata dal marito Bill, con il quale continua peraltro ad intrettenere un ottimo rapporto coniugale.

Mentre Hillary tesseva la tela della diplomazia americana in Africa, il marito, che mira a rinforzare il suo ruolo di statista stagionato con l’incarico di missioni delicate nel mondo, le rubava il riflettore come protagonista di un viaggio in Corea del Nord conclusosi con la liberazione delle due giornaliste americane.

A dimostrare l’effetto simbiosi, ancora prevalente nell’immaginario collettivo, di una Hillary non disgiunta dalla presenza del marito, sono stati due episodi che hanno messo a dura prova la ricerca di autonomia della segretaria di Stato.

Nel primo, capitato alla fine del mese scorso durante la visita ufficiale in Thailandia, Hillary si è vista rivolgere dalla stampa locale la domanda in merito a quali fossero i suoi argomenti di conversazione con il marito.

«Parliamo del nostro cane, che si ammala spesso e va portato periodicamente dal veterinario», è stata la risposta di «Madame Secretary».


Il secondo episodio è avvenuto pochi giorni fa nella Repubblica democratica del Congo.

Qui un ragazzo ha chiesto all’ex First Lady, attraverso una traduttrice, che cosa pensasse Bill Clinton degli accordi con la Cina bocciati dalla Banca mondiale.

Piccata, Hillary Clinton ha risposto: «Un momento, Lei vuole sapere da me che opinione ha mio marito? Beh, io le dico che non sono la sua portavoce, il segretario di Stato sono io, non lui».

Mai la figura di Bill le deve essere apparsa così ingombrante
 

mostromarino

Guest
HATOYAMA: MENO USA E PIÙ CINA?
GERARDO MORINA

cdt,oggi

«N o, non sono antiamericano», ha sentito il bisogno di precisare il neoeletto premier giapponese Yukio Hatoyama una settimana dopo aver scritto per il New York Times un editoriale fortemente critico sull’America e sul suo ruolo nel mondo. «Penso che a causa della sconfitta nella guerra in Iraq e della crisi finanziaria, l’era della globalizzazione guidata dagli Stati Uniti sia arrivata alla fine e che ci stiamo muovendo verso un’era multipolare» erano state le parole di Hatoyama, protagonista alle recenti elezioni della svolta politica con cui il Giappone ha posto fine al cinquantennale monopolio di potere delle destra liberaldemocratica. Nonostante i complimenti per la sua vittoria inviati dal presidente Obama, le rassicurazioni di Hatoyama non tranquillizzano Washington, per il quale il neopremier giapponese rimane un interlocutore da studiare.

Dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, il Giappone è stato l’incrollabile bastione della politica USA in Asia, essenzialmente grazie al permanere al Governo di un partito di stampo conservatore e filoamericano. Ora invece l’alternanza rappresentata dal partito di centrosinistra di Hatoyama costituisce per Washington un grande punto interrogativo, con le premesse che qualcosa possa cambiare, nel tono e nelle sfumature se non nella sostanza, nel rapporto con il suo grande alleato asiatico. L’amministrazione Obama, insomma, pur avendo a Tokyo un Governo ideologicamente amico, potrebbe, per ragioni geopolitiche, trovarsi con un alleato in meno in una sua regione cruciale. Anche perché pesa sui rapporti bilaterali un contenzioso che si articola in tre nodi fondamentali.

Il primo è l’Afghanistan. Scadrà infatti a gennaio l’impegno delle navi giapponesi che nell’Oceano Atlantico sono un punto di rifornimento per la missione a Kabul. In campagna elettorale Hatoyama aveva promesso che tale impegno non verrà rinnovato, mentre Ichiro Ozawa, suo predecessore alla guida del partito, aveva fatto capire di eere disposto a inviare in Afghanistan, in cambio del ritiro delle navi, un certo numero di militari. Tale opzione non ha però mai ottenuto consensi in un Paese come il Giappone che non vede morire in un conflitto armato un proprio militare dalla fine della seconda guerra mondiale.

Il secondo dossier aperto è costituito dalla presenza in Giappione di ben 47 mila militari americani. Le basi in cui operano sono state spesso oggetto di conflitto con la popolazione locale, soprattutto a Okinawa, da dove partiranno almeno 8 mila marines, per essere ridispiegati nella statunitense Guam. Ne resteranno 4 mila, che dovranno però lasciare l’isola di Futenma e trasferirsi nel nord del Paese. In particolare, per gli Stati Uniti Okinawa riveste un ruolo strategico cruciale, collocata com’è tra Giappone e Taiwan, di fronte alla Cina, in un’area che è ormai diventata il baricentro orientale dell’Asia.

Il terzo nodo è segnato dalla questione delle armi nucleari che sembra essere destinata a fare emergere un fronte comune tra Washington e Tokyo, favorito anche dal timore della minaccia nucleare nordcoreana. Parallelamente si prospetta però un punto di dissenso. Il Giappone, unica nazione ad aver subito un attacco atomico, si è spesso fatto portavoce di un bando internazionale delle armi nucleari e l’appello di Obama per un mondo libero da questo genere di armi risponde esattamente a questa aspirazione. Ma non è chiaro che cosa risponderà Washington qualora il neopremier dovesse chiedere che navi statunitensi che trasportano armamenti nucleari non attracchino nei porti giapponesi.

Ma la preoccupazione americana è soprattutto che con Hatoyama si crei un asse superasiatico Tokyo-Pechino. Il partito del neopremier fa capire di voler essere, rispetto ai governi precedenti, un po’ più autonomo da Washington

. E questo apre nuovi spazi per la Cina e l’Asia orientale, facendo riscoprire al Giappone la sua dimensione asiatica.

Asiatica più ancora che cinese perché con Pechino continua ad esistere un rapporto in parte contraddittorio.

Da una parte Giappone e Cina sono infatti unite da un interscambio di oltre 266 miliardi di dollari.

Dall’altra Tokyo sta investendo in Paesi come Vietnam e Indonesia, che vede come naturali alleati per controbilanciare la crescita economica cinese.

Il partito di Hatoyama, per tradizione proPechino rispetto agli avversari del Partito liberale, ritiene che sul piano economico e strategico il Giappone e la Cina debbano condividere la leadership dell’Asia orientale.

Ma la visione prevalente in Cina sembra essere quella in base a cui «non possono esistere due soli nello stesso cielo». Per Pechino, dunque, l’unico sole che sorge è il proprio, mentre quello giapponese viene considerato al tramonto.
 

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