News, Dati, Eventi finanziari amico caro, te lo dico da amico, fatti li.... qui e' tutta malvivenza (2 lettori)

mototopo

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sulle prime righe vedem..............................zio putin forse ci mettera lo zampino.....sul resto se si avverasse.......................mamma butta la psta, e spegni la luce.............. chissa se vladimiro ................trallazzando qui e la,,,,,,,,,,,,,,,,,,,
 

mototopo

Forumer storico
MOSSA DELLA BCE: SE LA NOTIZA FOSSE ESATTA di Leonardo Mazzei




[ 7 luglio ]

La Bce impone il "congelamento" del 27% dei depositi delle banche greche
Mario Draghi tira la volata alla linea euro-tedesca: o Tsipras capitola, o la Grecia è fuori dall'euro.

«Una democrazia non vale più delle altre» ha detto l'ineffabile Juncker.

Tranquilli, non si riferiva alla Germania, che notoriamente non pretende di contare più degli altri... Il lussemburghese ha così dato la linea per l'Eurogruppo di oggi: nessuna concessione alla Grecia, e se accade l'irreparabile la colpa sarà tutta di Atene.

Ma prima di Juncker è stata la Bce a stringere ancora un po' il cappio sul collo della Grecia. Ieri sera, riunito in teleconferenza, il consiglio direttivo della Banca Centrale Europea ha deciso di non concedere altra liquidità alle banche elleniche. Banche che anche oggi, contrariamente alle promesse un po' avventate del governo, restano ovviamente chiuse.

Ma c'è di peggio. Non solo il tetto del programma Ela (Emergency liquidity assistance) non è stato innalzato, come chiedeva Atene, ma il mantenimento agli attuali livelli è stato vincolato a nuove garanzie. Il valore del collaterale che le banche mettono a garanzia per ottenere liquidità —normalmente si tratta di titoli greci— è stato pesantemente svalutato. Di quanto è top secret (Barclays ipotizza un taglio del 60%), ma è chiaro come la Bce consideri ormai i titoli greci al livello di spazzatura.
Siamo evidentemente al puro strozzinaggio. Altro che aiuti alla Grecia! Così funziona la Bce, come una qualsiasi banca privata. Il tutto perfettamente in linea con i dettami del sistema euro. E pensare che ci sono degli idioti che parlano e scrivono degli interventi di Draghi come se fossero dei regali a fondo perduto. Ma lasciamo perdere queste stupidaggini e torniamo a bomba.

La domanda che si impone è questa: se il valore del collaterale è stato pesantemente svalutato, da dove arrivano le nuove garanzie? Qui il segreto è quasi tombale, ma è evidente che ci sono. L'unico giornale italiano che ne parla esplicitamente stamattina è la Repubblica. Leggiamo:

«Il consiglio direttivo della Bce ha confermato la liquidità (Ela) per le banche greche, bloccandola a 89 miliardi di euro, a fronte però di maggiori garanzie. Di fatto viene congelato il 27% di tutti i depositi delle banche greche, con il rischio che possano essere i correntisti a farne le spese» (sottolineatura nostra).

E' esatta questa notizia? Non lo sappiamo, ma di certo è altamente probabile che sia così, altrimenti non si capirebbe cosa andrebbe a compensare l'haircut applicato al collaterale messo precedentemente a garanzia. Varufakis ha fatto bene, domenica mattina, a denunciare il terrorismo del Financial Times che parlava di prelievi sui conti bancari oltre gli 8mila euro, ma evidentemente qualcosa stava già bollendo in pentola.

Certo, le prossime ore potrebbero essere decisive, ma una domanda si impone comunque: è stato saggio, da parte del governo Tsipras, arrivare a questo punto? Non sarebbe stato meglio svincolarsi dalla Bce emettendo da subito una qualche forma di moneta parallela, sia pure ancora denominata in euro? A noi la risposta sembra chiara, anche perché il tempo non gioca mai a favore delle vittime dell'usura. Gioca sempre a favore degli strozzini. E quando la decisione di liberarsene arriverà, con una decisione politica forte e chiara, non sarà mai troppo presto.



 

mototopo

Forumer storico
Anders
ELA E IL RISCHIO PER I DEPOSITI: ECCO IL RICATTO DELLA BCE di Luca Di Marco


Poche persone hanno capito cosa si è deciso ieri, 6 Luglio, durante la conference call della BCE per esaminare la richiesta – da parte della Banca centrale Greca – di ulteriore liquidità d’emergenza (ELA).
Credo sia un diritto di tutti sapere che strumenti vengono utilizzati dalla BCE, ormai organo sempre più politicizzato (alla faccia dell’indipendenza), per fare pressione sul governo greco.
Per capire il silenzioso ricatto, bisogna comprendere cosa sia effettivamente l’ELA, come si ottiene, da chi e come viene erogata.

SPIEGAZIONE GENERALE
L’ELA (Emergency Liquidity Assistance) viene richiesta ed erogata quando alcuni istituti finanziari dell’area Euro si trovano a corto di liquidità quindi, normalmente, a seguito di un deflusso di depositi.
La richiesta viene effettuata dalla Banca Centrale Nazionale dello Stato alla BCE che dovrà analizzare se vi sono i requisiti necessari per accedervi (https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/other/201402_elaprocedures.it.pdf ). Una volta che la BCE ne autorizza l’erogazione sarà la Banca Centrale Nazionale ad assicurare i fondi agli enti creditizi bisognosi.
Questi fondi hanno un costo superiore alle principali operazioni di rifinanziamento BCE (0,05%), esattamente 150 punti base in più, ovvero 1,55%.
Per accedere a questa liquidità bisogna, ovviamente, essere solventi (controllo effettuato negli stress test di ottobre 2014) e fornire dei collaterali cioè delle garanzie(titoli di vario tipo). Il valore di un collaterale non è pari al suo valore nominale ma è sottoposto ad un haircut variabile. Per esempio con haircuts sui collaterali del 50% per ricevere 100 miliardi devi presentare collaterali per il valore di 200 miliardi.

IL CASO GRECO
La BCE ha fornito, fino ad oggi, circa 89 miliardi di liquidità d’emergenza agli istituti greci. Questa soglia non è stata più messa in discussione da due settimane a questa parte con l’arenarsi delle trattative con la Troika (ennesima dimostrazione della poca indipendenza della BCE). Ovviamente i controlli di capitali sono una conseguenza diretta di questa decisione. Di questi 89 miliardi ne sono già stati utilizzati più di 88 nonostante il massimale di prelievo fissato a 60 euro.

Ed eccoci alla decisione di ieri: la BCE ha negato ulteriore liquidità e ha aggiustato gli haircuts sui collaterali.
(http://www.ecb.europa.eu/press/pr/date/2015/html/pr150706.en.html)

IL RICATTO
Nell’immagine sottostante (grazie a Zerohedge) troviamo rappresentata la situazione attuale greca: ciò che è successo e ciò che potrebbe succedere.
Prima della decisione di ieri, gli haircuts sui collaterali greci erano fissati intorno al 50% quindi prima/seconda colonnina verde a destra. In quella situazione gli istituti greci avevano ancora 20 miliardi di collaterali con i quali aveva richiesto ulteriore liquidità.
Ieri la BCE, secondo fonti attendibili, ha innalzato gli haircuts sui collaterali al 60% cioè il punto cerchiato. Questa mossa ha eliminato precisamente tutto il buffer dei collaterali rimanente mettendo in serio pericolo i depositi dei cittadini greci.



CONCLUSIONI
Innanzitutto non verrà più fornita liquidità (avendo la BCE eliminato il buffer di collaterali con questa mossa) e come abbiamo ricordato, l’ELA è in esaurimento –questioni di giorni- nonostante lo stringente controllo di capitali.
È stata fatta una forte pressione sul governo greco; se oggi non si troverà un accordo con la Troika, la BCE potrebbe non esitare ad aumentare haircuts sui collaterali rendendo necessario il bail-in delle banche greche… ovviamente con i depositi dei cittadini.

Ribadiamo: Grexit è un processo, non un evento e si sta arrivando al punto di “non ritorno”.

Luca Di Marco
 

tana.nana

Nuovo forumer
Scusa Moderatore, ma cosa scrivo di cosi grave ed immorale che mi escludi da tutte le conversazioni? Ma chi sei? Scrivilo che almeno chi legge si regola.
Per Dominatore, guarda che le mie tradate sono da 250.000, qul post era un esempio per dire a Ninjaxx che con 20.000 euri se uno deve prendere i rischi che si prende lui in h24, mangerebbe solo briciole , facendosi portar via le più belle pagnotte. Se a +/- 0,50% lascio il gain, che senso ha starsene in h24 sulle piatte con 20.000 euri? Infatti.......Operatività la sua inutile per chi legge, non replicabile, ma questo glielo han detto già...Solo che a lui frega poco.
Poi si sa, se sta bene al capo, si può fare tutto, pure pubblicizzare eventi folkloristicio aprire nuove attività online sulla finanza.
Ripeto, in Itaglia con un buon accordo, si può fare tutto.
State bene cosi, con molti auguri.
 

mototopo

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MONTE DEI PACCHI DI SIENA – LA BANCA SENESE SBORSÒ 17 MILIARDI A BOTIN PER IL “PACCO” ANTONVENETA, MA DRAGHI AVEVA AUTORIZZATO UN COSTO DI 9 MILIARDI – PERCHÉ BANKITALIA NON BLOCCÒ L’OPERAZIONE, VISTO CHE AVEVA BOCCIATO ANTONVENETA?

9 lug 17:35
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L’autorizzazione della Banca d’Italia all’acquisizione di Antonveneta da parte di Mps è del marzo 2008, ma appena un anno prima un’ispezione di Via Nazionale aveva demolito i conti e la gestione dell’istituto veneto
 

mototopo

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1970, Chiusura delle Banche.


“Cos’è il denaro?”

Il 4 maggio apparve sull’ “Irish Independent”, il miglior quotidiano d’Irlanda, un avviso a tutto pagina, dal titolo semplice ma allarmante: “CHIUSURA DELLE BANCHE”. L’annuncio, pubblicato dalla Commissione Permanente delle Banche d’Irlanda, gruppo che rappresentava tutte le principali banche irlandesi, informava il pubblico che a causa del grave deterioramento dei rapporti industriali fra le banche e i loro impiegati, "si è giunti a una situazione in cui è impossibile per le suddette banche fornire anche il recentemente limitato servizio nella Repubblica d’Irlanda". L’annuncio proseguiva: "In tali circostanze è rammarico che queste banche annunciano la chiusura di tutti gli uffici nella Repubblica d’Irlanda a partire da venerdì 1° maggio, fino a nuovo ordine". Potrà sconvolgere l’idea che il sistema bancario di una economia avanzata potesse chiudere pressochè in blocco da un giorno all’altro, in tempi così recenti. All’epoca, tuttavia, questo esito era ampiamente previsto, non fosse altro perché si era già verificato una volta, nel 1966. L’oggetto del contenzioso fra le banche e i loro impiegati era ben noto all’ Europa della fine degli anni sessanta: l’aumento degli stipendi rispetto a quello dei prezzi. L’inflazione alta per tutto il 1969 (in autunno il costo della vita era salito più del 10% rispetto ai quindici mesi precedenti) aveva spinto il sindacato dei dipendenti a esigere un nuovo accordo sui pagamenti. Le banche si erano rifiutate, e l’Associazione irlandese dei funzionari di banca aveva decretato lo sciopero.
Fin dall’inizio, ci si aspettava che la chiusura delle banche non sarebbe stata breve, dunque ci si preparò all’eventualità. La prima reazione delle aziende fu quella di fare incetta di monete e banconote. Scrisse l’”Irish Independent”:
Ci furono prelievi massicci di contante in tutto il paese: le aziende accumulavano scorte in previsione di una chiusura. Si preannunciano ottimi affari per le compagnie di assicurazione, rivenditori di casseforti e società di sicurezza durante tutto il periodo di “shut down”. Fabbriche e altre attività dagli organici numerosi si sono attivate per ricevere denaro contante da grosse rivendite come supermercati e grandi magazzini per far fronte ai pagamenti degli stipendi.
Ma nel primo mese della crisi divenne evidente che la situazione non era poi così nera.
Ad aprile la Banca Centrale d’Irlanda aveva soddisfatto deliberatamente il surplus di richieste di contante, dunque a maggio circolavano circa 10 milioni di sterline in più del solito in monete e banconote. I flussi di pagamento diedero inevitabilmente origine a un eccesso di piccoli tagli in alcuni luoghi (in genere nei negozi e altre attività al dettaglio) e una mancanza di altri, di solito grossisti e pubbliche istituzioni che non avevano motivo di ricercare contanti nel corso degli affari della giornata. La Banca Centrale fece persino un vano appello alla società statale di autobus affinchè distribuisse contanti ai passeggeri. Ma questi ingorghi nella circolazione di monete e banconote si rivelarono un inconveniente da poco. Il motivo era che la stragrande maggioranza dei pagamenti continuava a essere effettuata tramite assegno; in altre parole trasferendo denaro dal conto corrente di un individuo o di una azienda a quello di un altro, nonostante le banche dove i conti erano tenuti fossero chiuse. Nella sua relazione sull’intera faccenda, la Banca Centrale d’Irlanda osservò che prima della chiusura "circa due terzi dei patrimoni complessivi sono costituiti da saldi su conti correnti, e il rimanente da banconote e monete".
La domanda cruciale, dunque, era se questo “denaro bancario” avrebbe continuato a circolare. Soprattutto per i privati non c’era davvero scelta: per ogni spesa eccedente il contante che possedevano quando le banche avevano chiuso il primo maggio, l’unica possibilità era quella di scrivere delle cambiali sotto forma di assegno e sperare che fossero accettate.
La cosa degna di nota fu che, durante quella lunga estate, le transazioni proseguirono e gli assegni vennero scambiati quasi esattamente come al solito. L’unica ovvia differenza fu che nessuno degli assegni poteva essere presentato in banca. Di norma è questa la struttura che perlopiù solleva i venditori dal rischi insito nell’accettare pagamenti a credito: gli assegni possono essere incassati alla fine di ogni giornata lavorativa. Con l’arresto del sistema bancario, però, gli assegni erano temporaneamente soltanto delle cambiali private o aziendali. I venditori che li accettavano si affidavano soltanto al proprio giudizio personale sul credito dei compratori. Il rischio maggiore, dunque, era che si abusasse di quel sistema improvvisato. Date che gli assegni non venivano riscossi, in linea di principio nulla impediva di scrivere assegni per importi che non si possedevano. Affinchè il sistema funzionasse i pagati dovevano confidare che gli assegni dei paganti non fossero scoperti, e tutto questo senza avere idea di quando le banche avrebbero riaperto, per poterlo verificare. Il “Times” di Londra seguiva gli eventi al di là del mare d’Irlanda con grande interesse, e a luglio notava sia il fatto straordinario che nulla sembrava essere cambiato granchè, sia la fragilità apparente della situazione. "Le cifre e le tendenze disponibili indicano che finora il contenzioso non ha avuto un’effetto nocivo sull’economia", scriveva il suo corrispondente. "Ciò è dovuto a una serie di fattori, non ultima la prudenza delle imprese nei riguardi delle spese eccessive". Ma quell’equilibri precario poteva durare? " Esiste però oggi il rischio psicologico che, se il contenzioso si trascinerà, la cautela venga abbandonata, soprattutto dalle piccole imprese". Qua e la iniziavano effettivamente ad apparire delle crepe. A un mese dalla chiusura ci fu un momento di panico quando alcuni mercati di bestiame annunciarono che non avrebbero più accettato assegni da privati. A luglio un agricoltore di Omagh che era stato condannato per aver introdotto illegalmente nella Repubblica sette maiali non potè pagare la multa comminatagli di 309 sterline, per mancanza di liquidità. E nel corso dell’estate la lobby delle aziende, incoraggiata dalle banche ed esasperata dalle spese sostenute per aggirare la loro chiusura, iniziò a disseminare nei giornali dichiarazioni allarmistiche, affermando per esempio che " A causa del contenzioso delle banche si sta diffondendo nell’economia una paralisi in rapido aumento". Ma le prove raccolte dalla Banca Centrale d’Irlanda alla risoluzione della crisi nel novembre 1970 dimostrano l’esatto contrario. La sua relazione sulla chiusura concludeva non soltanto che "l’economia Irlandese ha continuato a funzionare per un periodo ragionevolmente lungo pur con le principali banche di compensazione chiuse al pubblico", ma che "il livello di attività economica ha continuato a crescere" in quel periodo. Per quanto sembrasse incredibile subito prima e subito dopo, in qualche modo aveva funzionato: per sei mesi e mezzo, in una delle 30 economie più ricche del mondo all’epoca, "un sistema di credito altamente personalizzato, senza alcuna scadenza definitiva per l’eventuale compensazione di debiti e crediti ha sostituito il sistema bancario istituzionalizzato esistente".
Alla fine, il maggior impedimento causato da questo sistema tanto riuscito si rivelò di natura logistica. Quando le banche e i loro dipendenti raggiunsero finalmente un accordo sui pagamenti, e fu annunciato che le banche avrebbero riaperto il 17 novembre 1970, privati e aziende avevano accumulato una mole enorme di assegni non riscossi. Sui giornali apparvero annunci che invitavano i clienti a non presentarli tutti insieme, e avvertivano che difficilmente i saldi dei conti si sarebbero riallineati prima di parecchie settimane. Ci vollero altri tre mesi, da novembre a metà febbraio del 1971, prima che tutto tornasse alla normalità. A quel punto erano stati presentati per la riscossione cinque milioni di sterline in assegni compilati durante il periodo di chiusura. Era il denaro che il popolo irlandese si era prodotto da sé mentre le banche erano in sciopero.
Come si era potuto realizzare questo apparente miracolo di cooperazione economica spontanea? L’opinione diffusa dopo il fatto era che a questo esito positivo avevano contribuito vari elementi della vita sociale irlandese, non ultimo il più famoso: il pub. La difficoltà principale era stabilire l’affidabilità creditizia di chi pagava con assegni non riscuotibili. L’Irlanda era avvantaggiata in questo senso, dato che le comunità, sia nelle città sia in campagna, erano molto compatte. Ognuno conosceva di persona quasi tutti quelli con cui trattava, e dunque poteva farsi facilmente un’idea della loro affidabilità. Ma nel 1970 l’Irlanda aveva comunque una economia sviluppata e diversificata, per cui le cose non stavano sempre così. Fu qui che i pub e le botteghe si rivelarono preziosi, fungendo da nodi del sistema, raccogliendo, garantendo e riscuotendo assegni come un sistema bancario sostitutivo. L’economista irlandese Antoin Murphy concludeva, con ammirevole circospezione: " Pare che i gestori di queste rivendite e pubblici esercizi disponessero di molte informazioni sui propri clienti; dopotutto non si serve da bere a qualcuno per anni senza venire a sapere qualcosa circa la sua liquidità".

La chiusura delle banche irlandesi dimostra che l’armamentario ufficiale di banche, carte di credito e banconote solennemente decorate con emblemi impossibili da contraffare, non è una componente essenziale del denaro. Tutto ciò può scomparire e il danaro rimarrà comunque: un sistema di credito e di debito, che si espande e contrae senza sosta come un cuore pulsante, mantenendo in vita la circolazione dei commerci. Quel che importa è soltanto che esistano emittenti che il pubblico considera affidabili dal punto di vista creditizio, e una convinzione sufficientemente condivisa che le loro obbligazioni saranno accettate da terzi. In genere è facile soddisfare questi criteri per i governi e le banche: mentre per le società, e ancor più i privati, è in genere difficile. Ma come dimostra l’esempio irlandese, queste regole indicative non hanno validità universale. Quando si disintegrano gli ordinamenti monetari ufficiali, è sorprendente l’efficacia con cui la società improvvisa delle alternative.

Tratto da: Denaro, di Felix Martin,

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Vedere quello che hai davanti al naso richiede una lotta costante”. (George Orwell;)
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mototopo

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9 luglio 2015
PERCHE' IL CASO GRECIA CI FA CAPIRE CHE DOVREMMO USCIRE AL PIU' PRESTO DALL'UE (magari prima dell'Armageddon cino-globale)



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1. Uno dei vantaggi derivanti dall'attuale crisi dell'Unione €uropea, - che consiste nel paradosso che, proprio perchè il "fogno" sta avendo successo, i rispettivi popoli devono essere distrutti (per essere sostituiti da "qualcosa", un "meticciato di viscidi esseri inferiori", eugeneticamente più adatto agli obiettivi che ESSI stanno realizzando)- è il cedimento involontario della facciata marmorea della disinformazione espertologo-mediatica (anti)italiana.
Su di essa, infatti, si regge il controllo sociale degli spaghetti-ordoliberisti-tea party (indispensabile per condurre a termine l'eliminazione identitaria e, possibilmente, fisica, delle Nazioni democratiche).


2. Mentre sul Sole24ore, gli editoriali, oltre ad auspicare il suicidio (incartato di solidarismo) del Fondo di redenzione, finiscono per ammettere che "in 17 anni, ossia da quando si è vincolata all'euro, l'Europa non ha ancora trovato un meccanismo che sostituisca degnamente quello di cui si è privata dal 1° gennaio del 1999, ossia la flessibilità del cambio", un po' ovunque, nei talk a reti unificate a ciclo continuo, si è costretti a dire che la Grecia non ha una struttura industriale capace di reggere all'uscita dall'euro e quindi si troverebbe con una moneta svalutata a dover importare di tutto e di più.
La grande scoperta (raffazzonata ed incompleta) delle condizioni di Marshall-Lerner, rispetto alla Grecia, - che censura il fatto che, comunque, la cura inflitta alla Grecia dal 2010 ha portato a una deindustrializzazione del 30% e che la svalutazione, dal punto di vista del turismo, e persino di quello delle privatizzazioni degli assets pubblici, (aumentandone la redditività), darebbe una spinta enorme all'afflusso di valuta forte dal resto d'€uropa e del mondo- porta al fastidioso inconveniente che l'argomento, in termini logici, deporrebbe a favore di un'uscita italiana dalla moneta unica.


Tra i tanti autogoal inconsapevoli in questo senso, segnaliamo questo articolo de La Stampa, dove, a proposito della Grexit (esplusione, per essere più precisi) si legge, all'interno di una certa confusione economicistica: "Quanto ad Atene, una volta rinunciato all’euro, dovrebbe comunque rinegoziare il debito col Fmi e l’Eurotower, che terrebbero conto della probabile recessione e della svalutazione, oltremodo dannosa per un paese che esporta poco".


3. Va infatti segnalata, anche nel caso estremo della Grecia, la non scontatezza di una recessione, quantomeno comparativamente "maggiore" di quella che si avrebbe dentro la €-condizionalità!, recessione che, per contro, come dimostra Krugman, è piuttosto una sicurezza legata alla permanenza dell'euro (come se ci fosse ancora bisogno di dimostrare che le politiche di correzione euroimposte siano la cause di recessione e stagnazione dell'intera UEM).
E va precisato che il problema della Grecia non è che esporta poco, ma che produce poco (in qualunque tipo di produzione, non turistica ed agricola), sempre in conseguenza della "specializzazione" produttiva - equivalente a deindustrializzazione (in aggravamento rispetto alla situazione di partenza, debole, che sconsigliava l'adesione alla moneta unica) - legata inevitabilmente all'adesione a un trattato liberoscambista con moneta comune (sostanzialmente) gold standard.


Il fatto, però è che questi argomenti non varrebbero per l'Italia.
Certo, abbiamo subito anche noi una pesante deindustrializzazione, dovuta all'euro e ai suoi strumenti di correzione della inevitabile crisi (non certo a corruzione, spesa pubblica e evasione fiscale-Statobrutto):


dati della produzione industriale greca confrontati con quelli degli altri paesi dell'Eurozona
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4. In questo quadro, scontando difficoltà varie legate al suddetto "effetto di specializzazione" (che come si può vedere si è risolto generalmente nell'UEM, in una tendenziale deindustrializzazione generalizzata a favore della Germania), - ed al fatto che, come dice Cesare Pozzi, abbiamo perduto molte filiere fondamentali e, per quelle rimaste, abbiamo perso il relativo controllo, divenendo price taker (di controllori finali esteri dei prodotti finiti)-, si avrebbe, con molta probabilità, un risultato dell'Ital-exit molto differente rispetto a quella greca. Più o meno (per dire) in questo modo (un'ipotesi che non sappiamo se abbia tenuto conto dell'elasticità dei consumi e degli investimenti importati, alla variazione del reddito e del cambio):
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5. Allo stato attuale, anche volendo rimanere su dati piuttosto raw e divulgativi, la situazione è peraltro in miglioramento, dato che il panico che potesse rompersi il giocattolo della deflazione salariale e del controllo sociale, ha portato alle "mosse" di Draghi che svalutano il cambio relativo dell'euro, cioè, in parte, anticipano obiettivamente una parte dell'effetto del ritorno alle valute nazionali, quantomeno rispetto all'area extra-UEM (anche se questo non lo si deve dire mai in TV e sui giornaloni).

Il surplus italiano nel commercio estero (la domanda interna è tutta un'altra cosa), nei dati di aprile 2015, registrati a giugno, "è salito a 3,7 miliardi dai 3,5 miliardi di un anno fa. Esclusa energia, bilancia positiva per 7 miliardi. Grandi affari con Cina, Usa e UK.
...Sempre ad aprile, la crescita tendenziale dell'export è particolarmente sostenuta negli affari con gli Stati Uniti (+36,3%), Cina (+17,9%) e Regno Unito (+14,8%), mentre una forte flessione si registra per la Russia (-29,5%). In marcata crescita le vendite di autoveicoli (+51,2%). Gli acquisti dai paesi Eda (+50,8%) e quelli di mezzi di trasporto, autoveicoli esclusi (+36,7%) sono in forte crescita."

N.B.: Mettiamo da parte, al momento, la questione della borsa cinese e del collasso planetario, in probabile preparazione, della finanza globalizzata. Ci torneremo presto, non sarà rassicurante, ma almeno ESSI potebbero farci fare qualche sana risata...

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6. Risulta utile, allora, al netto dello scenario Armageddon cino-globalizzato, citare il discorsetto fatto in un comunicato del CENSIS del marzo 2014, prima che l'effetto BCE spargesse a piene mani la competitività da svalutazione del cambio...di cui non si può parlare, chissà perchè, in caso di euroxit:
"Restiamo un mercato molto appetibile.
Un rafforzamento del potere contrattuale dell'Italia nei confronti dell'esecutivo europeo e degli altri Paesi potrebbe provenire da un'attenta ricognizione di ciò che significa per l'Europa comprendere al proprio interno un territorio il cui peso economico e produttivo va al di là del mero rapporto dare-avere registrato dal budget finanziario dell'Ue. Essendo in termini di Prodotto interno lordo la quarta economia europea, l'Italia rappresenta il 12,6% dei consumi finali delle famiglie nei 27 Paesi membri, per un ammontare di circa 1.000 miliardi di euro. E siamo al quinto posto per numero di passeggeri del traffico aereo, con una quota sul totale europeo pari all'11,3% e un valore assoluto che supera i 116 milioni di passeggeri.
Questa domanda si riflette in un rilevante livello di importazioni interne all'Unione, pari a 200 miliardi di euro, ovvero il 73% del totale delle importazioni interne (si tratta di una cifra vicina all'intero Pil della Grecia e superiore a quello della Danimarca o della Finlandia).
...La società italiana è solida. La quota sul Pil del valore degli immobili di proprietà in Italia è pari al 9,1% (...? ndr: siamo sicuri?): questo dato ci pone in cima alla classifica europea. Sul piano della ricchezza finanziaria netta, gli italiani presentano un valore che è più di due volte e mezzo il reddito disponibile (quinto posto in Europa).

E diamo un forte contributo alla competitività europea.
L'Italia si conferma la seconda economia manifatturiera europea in termini di valore aggiunto (216 miliardi di euro nel 2012) e in base al numero di imprese: 422.000, pari al 19,9% di tutte le imprese manifatturiere europee, che occupano quasi 4 milioni di addetti, preceduti solo dai tedeschi, con poco più di 7 milioni di addetti.
Con circa 370 miliardi di euro esportati nel 2012, il manifatturiero italiano si pone al quarto posto nell'export in Europa. E l'Italia realizza il quinto saldo positivo della bilancia commerciale nell'Unione europea, con un valore vicino a 11 miliardi di euro. Siamo terzi per produzione lorda di energia da fonti rinnovabili. Mentre siamo al primo posto nei prodotti agroalimentari di qualità, disponendo di 248 marchi certificati (la Francia è seconda, con un numero di prodotti di qualità molto inferiore: 192), e terzi per numero di aziende biotecnologiche.

Se è vero che lo scenario di un'uscita dell'Italia dall'euro appare nei fatti non praticabile e non auspicabile, è anche vero che una diversa rappresentazione del ruolo e del peso dell'Italia nell'Ue, che vada oltre i freddi meccanismi di determinazione degli obiettivi di finanza pubblica così come sono oggi stabiliti, potrebbe condurre a una più chiara identificazione del potenziale di crescita complessivo dell'Unione europea, dei cui benefici si avvantaggerebbero non solo i cittadini italiani."


7. Ma quello che è sommamente interessante, è quanto è detto poco prima riguardo al "dare-avere" con l'UE (un discorso qui già varie volte affrontato):
"L'Italia è il terzo contribuente netto dell'Ue. Il budget annuale dell'Unione europea è di circa 140 miliardi di euro, ovvero poco più dell'1% del Pil complessivo degli Stati membri. Il contributo italiano alla formazione del bilancio comunitario è pari a circa il 12% del totale.
Le risorse versate dall'Italia all'Ue sono aumentate dai 14 miliardi di euro del 2007 ai 16,4 miliardi del 2012, mentre gli accrediti effettuati dall'Unione nel periodo si sono aggirati intorno ai 9-11 miliardi all'anno, determinando così un consistente saldo a nostro svantaggio: 6,6 miliardi nel 2011, 5,7 miliardi nel 2012.
Sono 12 i Paesi che versano più di quanto ricevono. Il maggiore contribuente netto è la Germania, con un valore cumulato nel periodo 2007-2012 di 52,7 miliardi di euro e un saldo medio annuo negativo per quasi 9 miliardi. Al secondo posto c'è la Francia, con un valore negativo cumulato pari a 33 miliardi di euro e un saldo medio annuo negativo di 5,5 miliardi.
L'Italia è il terzo contribuente netto, con 26,7 miliardi di euro cumulati nel periodo e in media 4,5 miliardi all'anno, nonostante noi occupiamo il 12° posto in Europa in termini di Pil pro-capite (25.600 euro per abitante rispetto ai 31.500 euro dei tedeschi e ai 27.700 dei francesi). Nel 2012, in particolare, abbiamo versato 16,4 miliardi di euro e abbiamo ricevuto indietro 10,7 miliardi, con un saldo negativo di 5,7 miliardi.
Fra i percettori netti si collocano ai primi posti la Polonia (con 47 miliardi di saldi cumulati nel periodo 2007-2012 e una media di 8 miliardi all'anno), la Grecia (con 27,6 miliardi complessivi e un dato medio annuo di 4,6 miliardi), la Spagna (18,7 miliardi in totale e 3,1 miliardi in media all'anno).

Speso il 52,7% dei fondi comunitari a noi destinati. La dinamica degli accrediti risente anche della capacità progettuale e gestionale dei fondi europei da parte delle autorità italiane. Attraverso i diversi fondi strutturali di derivazione comunitaria e nazionale, nel periodo 2007-2013 l'Italia ha finanziato 52 programmi, per un volume iniziale di risorse pari a 59 miliardi di euro nei 7 anni di riferimento. Oggi l'importo complessivo risulta pari a 47,7 miliardi e il contributo proveniente dall'Unione europea si attesta sui 28 miliardi. Considerando la spesa certificata a partire dal 2009, a fine 2013 risulta assorbita una quota del 52,7%."


8. Le parti enfatizzate in neretto ci consentono, senza troppo spiegare ciò che è palese, di venire al nocciolo del problema:


a) la principale difficoltà di impiego dei fondi europei risiede nel sistema del co-finanziamento: un paese che, come l'Italia, sia fanaticamente impegnato a divenire esportatore netto (per rimanere nell'euro e cioè per correggere la posizione netta sull'estero da cui dipendono gli spread), e che quindi risulti in regola coi limiti del deficit prescritti variamente dall'applicazione del fiscal-compact (pareggio di bilancio), non può permettersi di spendere tutti i fondi europei con tempestività perchè ciò lo esporrebbe, a causa della spesa aggiuntiva obbligata dal co-finanziamento, a procedure di infrazione;


b) anche se ciò non fosse (cioè anche se spendessimo entro il periodo di riferimento il 100% dei fondi "in restituzione" di nostra spettanza), comunque, il semplice fatto di essere contribuenti netti (quindi in passivo) rispetto al bilancio UE, ci obbliga ogni anno, in media, a emettere 6 miliardi aggiuntivi di debito pubblico, finanziandolo per di più in manovra in pareggio di bilancio (significa copertura con tasse e tagli aggiuntivi). Si tratta di un aggravamento dei conti, e quindi del deficit pubblico, strutturale ed inevitabile, nonchè privo di qualunque vantaggio corrispettivo, pari a circa 0,35-0,4 punti di PIL in media.
Notare che, invece per un paese come la Grecia, uscire dall'UE, sarebbe un disastro, essendo "percettore" netto per oltre 2 punti di PIL; persino l'euro-exit, in questo contesto, sarebbe pretesto per un'ovvia ulteriore condizionalità-ricatto, a pena di sospensione dell'erogazione dei fondi europei (condizionalità in sostanza già applicata, e di cui non si parla). Per l'Italia, tale leva di ricatto, semplicemente non esiste;


c) il deficit di contribuzione al bilancio UE è un trasferimento annuale, di pari misura, che aggrava i nostri conti con l'estero e, in caso di recupero della sovranità monetaria, sarebbe aggravato dalla svalutazione (proprio perchè è un deficit e non ha alcun possibile contropartita "sinallagmatica" da parte UE);
d) pertanto, l'Italia, per il solo fatto di uscire dalla UE, e non solo dalla moneta unica, avrebbe un miglioramento non indifferente del proprio conto corrente con l'estero, strutturale e permanente; e per ottenere ciò, non occorrerebbe richiamarsi all'abusato (e incompreso) recesso ex art.50 TUE, cioè al recesso "politico", sine causa, ma, più utimente, al recesso per la manifesta ricorrenza della clausola "inadimplenti non est adimplendum" o anche di quella "rebus sic stantibus" (artt.60 e 61 della Convenzione di Vienna; cfr; p.4);


e) l'adozione di questa linea avrebbe, - all'interno della quale sarebbe agevolmente negoziabile il nostro mantenimento all'interno di un'area doganale europea (essendo nell'interesse bilaterale di tutti)-, ulteriori enormi vantaggi, se e solo se, ovviamente, fosse adottata al più presto:
e1) l'Italia uscirebbe dal vincolo del fiscal compact senza perdere nulla: in particolare, non sarebbe più obbligata, come conseguenza, a mantenere la sua ulteriore contribuzione ai fondi operativi dell'ESM, e con ciò non porrebbe ulteriormente a rischio la parte di capitale già versata in quanto impiegata, in quota consistente e in prospettiva crescente, in salvataggi verso la Grecia e verso altre situazioni di debitori che non potranno restituire mai e, anzi, solo fare un default tardivo e di crescenti dimensioni;
e2) l'Italia avrebbe titolo, uscendo dall'UE simultaneamente all'euroexit, per riavere indietro i propri contributi già versati per l'ESM e l'ESFS (circa 142 miliardi, tra versamenti a debito e equivalenti "garanzie", da sommare alla cessazione delle contribuzioni ancora dovute), oltre che la contribuzione al capitale della BCE.
Tutte voci di credito che andrebbero opposte in compensazione nella regolazione dei residui passivi della contabilità target-2 (nella misura in cui rifletta una posizione passiva - commerciale- italiana all'interno dell'area euro stessa);
e3) last, but not (only) least, anzi "best", l'Italia eviterebbe di essere coinvolta nella conclusione - forzosa ed inevitabile- del TTIP e del successivo peg sul dollaro, potendo semmai riacquistare spazi autonomi di negoziazione nella materia, soggetti al vaglio effettivo del parlamento e del dibattito democratico interno: dibattito che, semmai l'Italia fosse capace di riacquistare una dignità sovrana e democratica uscendo dalla UE, come vuole fare il Regno Unito e come persino l'Austria potrebbe considerare, sarebbe da condurre, finalmente, alla luce dei parametri ineludibili, di assunzione di vincoli da trattato, posti inderogabilmente dall'art.11 Cost.


Lo so è una fantasia, in pratica, ma, appunto solo "rebus sic stantibus" (politicamente e culturalmente parlando): ed è sempre meglio del "fogno" malato in cui contitnuano a volerci affossare...








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mototopo

Forumer storico
9 luglio 2015
PERCHE' IL CASO GRECIA CI FA CAPIRE CHE DOVREMMO USCIRE AL PIU' PRESTO DALL'UE (magari prima dell'Armageddon cino-globale)



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1. Uno dei vantaggi derivanti dall'attuale crisi dell'Unione €uropea, - che consiste nel paradosso che, proprio perchè il "fogno" sta avendo successo, i rispettivi popoli devono essere distrutti (per essere sostituiti da "qualcosa", un "meticciato di viscidi esseri inferiori", eugeneticamente più adatto agli obiettivi che ESSI stanno realizzando)- è il cedimento involontario della facciata marmorea della disinformazione espertologo-mediatica (anti)italiana.
Su di essa, infatti, si regge il controllo sociale degli spaghetti-ordoliberisti-tea party (indispensabile per condurre a termine l'eliminazione identitaria e, possibilmente, fisica, delle Nazioni democratiche).


2. Mentre sul Sole24ore, gli editoriali, oltre ad auspicare il suicidio (incartato di solidarismo) del Fondo di redenzione, finiscono per ammettere che "in 17 anni, ossia da quando si è vincolata all'euro, l'Europa non ha ancora trovato un meccanismo che sostituisca degnamente quello di cui si è privata dal 1° gennaio del 1999, ossia la flessibilità del cambio", un po' ovunque, nei talk a reti unificate a ciclo continuo, si è costretti a dire che la Grecia non ha una struttura industriale capace di reggere all'uscita dall'euro e quindi si troverebbe con una moneta svalutata a dover importare di tutto e di più.
La grande scoperta (raffazzonata ed incompleta) delle condizioni di Marshall-Lerner, rispetto alla Grecia, - che censura il fatto che, comunque, la cura inflitta alla Grecia dal 2010 ha portato a una deindustrializzazione del 30% e che la svalutazione, dal punto di vista del turismo, e persino di quello delle privatizzazioni degli assets pubblici, (aumentandone la redditività), darebbe una spinta enorme all'afflusso di valuta forte dal resto d'€uropa e del mondo- porta al fastidioso inconveniente che l'argomento, in termini logici, deporrebbe a favore di un'uscita italiana dalla moneta unica.


Tra i tanti autogoal inconsapevoli in questo senso, segnaliamo questo articolo de La Stampa, dove, a proposito della Grexit (esplusione, per essere più precisi) si legge, all'interno di una certa confusione economicistica: "Quanto ad Atene, una volta rinunciato all’euro, dovrebbe comunque rinegoziare il debito col Fmi e l’Eurotower, che terrebbero conto della probabile recessione e della svalutazione, oltremodo dannosa per un paese che esporta poco".


3. Va infatti segnalata, anche nel caso estremo della Grecia, la non scontatezza di una recessione, quantomeno comparativamente "maggiore" di quella che si avrebbe dentro la €-condizionalità!, recessione che, per contro, come dimostra Krugman, è piuttosto una sicurezza legata alla permanenza dell'euro (come se ci fosse ancora bisogno di dimostrare che le politiche di correzione euroimposte siano la cause di recessione e stagnazione dell'intera UEM).
E va precisato che il problema della Grecia non è che esporta poco, ma che produce poco (in qualunque tipo di produzione, non turistica ed agricola), sempre in conseguenza della "specializzazione" produttiva - equivalente a deindustrializzazione (in aggravamento rispetto alla situazione di partenza, debole, che sconsigliava l'adesione alla moneta unica) - legata inevitabilmente all'adesione a un trattato liberoscambista con moneta comune (sostanzialmente) gold standard.


Il fatto, però è che questi argomenti non varrebbero per l'Italia.
Certo, abbiamo subito anche noi una pesante deindustrializzazione, dovuta all'euro e ai suoi strumenti di correzione della inevitabile crisi (non certo a corruzione, spesa pubblica e evasione fiscale-Statobrutto):


dati della produzione industriale greca confrontati con quelli degli altri paesi dell'Eurozona
Fact_07.png



4. In questo quadro, scontando difficoltà varie legate al suddetto "effetto di specializzazione" (che come si può vedere si è risolto generalmente nell'UEM, in una tendenziale deindustrializzazione generalizzata a favore della Germania), - ed al fatto che, come dice Cesare Pozzi, abbiamo perduto molte filiere fondamentali e, per quelle rimaste, abbiamo perso il relativo controllo, divenendo price taker (di controllori finali esteri dei prodotti finiti)-, si avrebbe, con molta probabilità, un risultato dell'Ital-exit molto differente rispetto a quella greca. Più o meno (per dire) in questo modo (un'ipotesi che non sappiamo se abbia tenuto conto dell'elasticità dei consumi e degli investimenti importati, alla variazione del reddito e del cambio):
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5. Allo stato attuale, anche volendo rimanere su dati piuttosto raw e divulgativi, la situazione è peraltro in miglioramento, dato che il panico che potesse rompersi il giocattolo della deflazione salariale e del controllo sociale, ha portato alle "mosse" di Draghi che svalutano il cambio relativo dell'euro, cioè, in parte, anticipano obiettivamente una parte dell'effetto del ritorno alle valute nazionali, quantomeno rispetto all'area extra-UEM (anche se questo non lo si deve dire mai in TV e sui giornaloni).

Il surplus italiano nel commercio estero (la domanda interna è tutta un'altra cosa), nei dati di aprile 2015, registrati a giugno, "è salito a 3,7 miliardi dai 3,5 miliardi di un anno fa. Esclusa energia, bilancia positiva per 7 miliardi. Grandi affari con Cina, Usa e UK.
...Sempre ad aprile, la crescita tendenziale dell'export è particolarmente sostenuta negli affari con gli Stati Uniti (+36,3%), Cina (+17,9%) e Regno Unito (+14,8%), mentre una forte flessione si registra per la Russia (-29,5%). In marcata crescita le vendite di autoveicoli (+51,2%). Gli acquisti dai paesi Eda (+50,8%) e quelli di mezzi di trasporto, autoveicoli esclusi (+36,7%) sono in forte crescita."

N.B.: Mettiamo da parte, al momento, la questione della borsa cinese e del collasso planetario, in probabile preparazione, della finanza globalizzata. Ci torneremo presto, non sarà rassicurante, ma almeno ESSI potebbero farci fare qualche sana risata...

paris-wiped-out.jpg

6. Risulta utile, allora, al netto dello scenario Armageddon cino-globalizzato, citare il discorsetto fatto in un comunicato del CENSIS del marzo 2014, prima che l'effetto BCE spargesse a piene mani la competitività da svalutazione del cambio...di cui non si può parlare, chissà perchè, in caso di euroxit:
"Restiamo un mercato molto appetibile.
Un rafforzamento del potere contrattuale dell'Italia nei confronti dell'esecutivo europeo e degli altri Paesi potrebbe provenire da un'attenta ricognizione di ciò che significa per l'Europa comprendere al proprio interno un territorio il cui peso economico e produttivo va al di là del mero rapporto dare-avere registrato dal budget finanziario dell'Ue. Essendo in termini di Prodotto interno lordo la quarta economia europea, l'Italia rappresenta il 12,6% dei consumi finali delle famiglie nei 27 Paesi membri, per un ammontare di circa 1.000 miliardi di euro. E siamo al quinto posto per numero di passeggeri del traffico aereo, con una quota sul totale europeo pari all'11,3% e un valore assoluto che supera i 116 milioni di passeggeri.
Questa domanda si riflette in un rilevante livello di importazioni interne all'Unione, pari a 200 miliardi di euro, ovvero il 73% del totale delle importazioni interne (si tratta di una cifra vicina all'intero Pil della Grecia e superiore a quello della Danimarca o della Finlandia).
...La società italiana è solida. La quota sul Pil del valore degli immobili di proprietà in Italia è pari al 9,1% (...? ndr: siamo sicuri?): questo dato ci pone in cima alla classifica europea. Sul piano della ricchezza finanziaria netta, gli italiani presentano un valore che è più di due volte e mezzo il reddito disponibile (quinto posto in Europa).

E diamo un forte contributo alla competitività europea.
L'Italia si conferma la seconda economia manifatturiera europea in termini di valore aggiunto (216 miliardi di euro nel 2012) e in base al numero di imprese: 422.000, pari al 19,9% di tutte le imprese manifatturiere europee, che occupano quasi 4 milioni di addetti, preceduti solo dai tedeschi, con poco più di 7 milioni di addetti.
Con circa 370 miliardi di euro esportati nel 2012, il manifatturiero italiano si pone al quarto posto nell'export in Europa. E l'Italia realizza il quinto saldo positivo della bilancia commerciale nell'Unione europea, con un valore vicino a 11 miliardi di euro. Siamo terzi per produzione lorda di energia da fonti rinnovabili. Mentre siamo al primo posto nei prodotti agroalimentari di qualità, disponendo di 248 marchi certificati (la Francia è seconda, con un numero di prodotti di qualità molto inferiore: 192), e terzi per numero di aziende biotecnologiche.

Se è vero che lo scenario di un'uscita dell'Italia dall'euro appare nei fatti non praticabile e non auspicabile, è anche vero che una diversa rappresentazione del ruolo e del peso dell'Italia nell'Ue, che vada oltre i freddi meccanismi di determinazione degli obiettivi di finanza pubblica così come sono oggi stabiliti, potrebbe condurre a una più chiara identificazione del potenziale di crescita complessivo dell'Unione europea, dei cui benefici si avvantaggerebbero non solo i cittadini italiani."


7. Ma quello che è sommamente interessante, è quanto è detto poco prima riguardo al "dare-avere" con l'UE (un discorso qui già varie volte affrontato):
"L'Italia è il terzo contribuente netto dell'Ue. Il budget annuale dell'Unione europea è di circa 140 miliardi di euro, ovvero poco più dell'1% del Pil complessivo degli Stati membri. Il contributo italiano alla formazione del bilancio comunitario è pari a circa il 12% del totale.
Le risorse versate dall'Italia all'Ue sono aumentate dai 14 miliardi di euro del 2007 ai 16,4 miliardi del 2012, mentre gli accrediti effettuati dall'Unione nel periodo si sono aggirati intorno ai 9-11 miliardi all'anno, determinando così un consistente saldo a nostro svantaggio: 6,6 miliardi nel 2011, 5,7 miliardi nel 2012.
Sono 12 i Paesi che versano più di quanto ricevono. Il maggiore contribuente netto è la Germania, con un valore cumulato nel periodo 2007-2012 di 52,7 miliardi di euro e un saldo medio annuo negativo per quasi 9 miliardi. Al secondo posto c'è la Francia, con un valore negativo cumulato pari a 33 miliardi di euro e un saldo medio annuo negativo di 5,5 miliardi.
L'Italia è il terzo contribuente netto, con 26,7 miliardi di euro cumulati nel periodo e in media 4,5 miliardi all'anno, nonostante noi occupiamo il 12° posto in Europa in termini di Pil pro-capite (25.600 euro per abitante rispetto ai 31.500 euro dei tedeschi e ai 27.700 dei francesi). Nel 2012, in particolare, abbiamo versato 16,4 miliardi di euro e abbiamo ricevuto indietro 10,7 miliardi, con un saldo negativo di 5,7 miliardi.
Fra i percettori netti si collocano ai primi posti la Polonia (con 47 miliardi di saldi cumulati nel periodo 2007-2012 e una media di 8 miliardi all'anno), la Grecia (con 27,6 miliardi complessivi e un dato medio annuo di 4,6 miliardi), la Spagna (18,7 miliardi in totale e 3,1 miliardi in media all'anno).

Speso il 52,7% dei fondi comunitari a noi destinati. La dinamica degli accrediti risente anche della capacità progettuale e gestionale dei fondi europei da parte delle autorità italiane. Attraverso i diversi fondi strutturali di derivazione comunitaria e nazionale, nel periodo 2007-2013 l'Italia ha finanziato 52 programmi, per un volume iniziale di risorse pari a 59 miliardi di euro nei 7 anni di riferimento. Oggi l'importo complessivo risulta pari a 47,7 miliardi e il contributo proveniente dall'Unione europea si attesta sui 28 miliardi. Considerando la spesa certificata a partire dal 2009, a fine 2013 risulta assorbita una quota del 52,7%."


8. Le parti enfatizzate in neretto ci consentono, senza troppo spiegare ciò che è palese, di venire al nocciolo del problema:


a) la principale difficoltà di impiego dei fondi europei risiede nel sistema del co-finanziamento: un paese che, come l'Italia, sia fanaticamente impegnato a divenire esportatore netto (per rimanere nell'euro e cioè per correggere la posizione netta sull'estero da cui dipendono gli spread), e che quindi risulti in regola coi limiti del deficit prescritti variamente dall'applicazione del fiscal-compact (pareggio di bilancio), non può permettersi di spendere tutti i fondi europei con tempestività perchè ciò lo esporrebbe, a causa della spesa aggiuntiva obbligata dal co-finanziamento, a procedure di infrazione;


b) anche se ciò non fosse (cioè anche se spendessimo entro il periodo di riferimento il 100% dei fondi "in restituzione" di nostra spettanza), comunque, il semplice fatto di essere contribuenti netti (quindi in passivo) rispetto al bilancio UE, ci obbliga ogni anno, in media, a emettere 6 miliardi aggiuntivi di debito pubblico, finanziandolo per di più in manovra in pareggio di bilancio (significa copertura con tasse e tagli aggiuntivi). Si tratta di un aggravamento dei conti, e quindi del deficit pubblico, strutturale ed inevitabile, nonchè privo di qualunque vantaggio corrispettivo, pari a circa 0,35-0,4 punti di PIL in media.
Notare che, invece per un paese come la Grecia, uscire dall'UE, sarebbe un disastro, essendo "percettore" netto per oltre 2 punti di PIL; persino l'euro-exit, in questo contesto, sarebbe pretesto per un'ovvia ulteriore condizionalità-ricatto, a pena di sospensione dell'erogazione dei fondi europei (condizionalità in sostanza già applicata, e di cui non si parla). Per l'Italia, tale leva di ricatto, semplicemente non esiste;


c) il deficit di contribuzione al bilancio UE è un trasferimento annuale, di pari misura, che aggrava i nostri conti con l'estero e, in caso di recupero della sovranità monetaria, sarebbe aggravato dalla svalutazione (proprio perchè è un deficit e non ha alcun possibile contropartita "sinallagmatica" da parte UE);
d) pertanto, l'Italia, per il solo fatto di uscire dalla UE, e non solo dalla moneta unica, avrebbe un miglioramento non indifferente del proprio conto corrente con l'estero, strutturale e permanente; e per ottenere ciò, non occorrerebbe richiamarsi all'abusato (e incompreso) recesso ex art.50 TUE, cioè al recesso "politico", sine causa, ma, più utimente, al recesso per la manifesta ricorrenza della clausola "inadimplenti non est adimplendum" o anche di quella "rebus sic stantibus" (artt.60 e 61 della Convenzione di Vienna; cfr; p.4);


e) l'adozione di questa linea avrebbe, - all'interno della quale sarebbe agevolmente negoziabile il nostro mantenimento all'interno di un'area doganale europea (essendo nell'interesse bilaterale di tutti)-, ulteriori enormi vantaggi, se e solo se, ovviamente, fosse adottata al più presto:
e1) l'Italia uscirebbe dal vincolo del fiscal compact senza perdere nulla: in particolare, non sarebbe più obbligata, come conseguenza, a mantenere la sua ulteriore contribuzione ai fondi operativi dell'ESM, e con ciò non porrebbe ulteriormente a rischio la parte di capitale già versata in quanto impiegata, in quota consistente e in prospettiva crescente, in salvataggi verso la Grecia e verso altre situazioni di debitori che non potranno restituire mai e, anzi, solo fare un default tardivo e di crescenti dimensioni;
e2) l'Italia avrebbe titolo, uscendo dall'UE simultaneamente all'euroexit, per riavere indietro i propri contributi già versati per l'ESM e l'ESFS (circa 142 miliardi, tra versamenti a debito e equivalenti "garanzie", da sommare alla cessazione delle contribuzioni ancora dovute), oltre che la contribuzione al capitale della BCE.
Tutte voci di credito che andrebbero opposte in compensazione nella regolazione dei residui passivi della contabilità target-2 (nella misura in cui rifletta una posizione passiva - commerciale- italiana all'interno dell'area euro stessa);
e3) last, but not (only) least, anzi "best", l'Italia eviterebbe di essere coinvolta nella conclusione - forzosa ed inevitabile- del TTIP e del successivo peg sul dollaro, potendo semmai riacquistare spazi autonomi di negoziazione nella materia, soggetti al vaglio effettivo del parlamento e del dibattito democratico interno: dibattito che, semmai l'Italia fosse capace di riacquistare una dignità sovrana e democratica uscendo dalla UE, come vuole fare il Regno Unito e come persino l'Austria potrebbe considerare, sarebbe da condurre, finalmente, alla luce dei parametri ineludibili, di assunzione di vincoli da trattato, posti inderogabilmente dall'art.11 Cost.


Lo so è una fantasia, in pratica, ma, appunto solo "rebus sic stantibus" (politicamente e culturalmente parlando): ed è sempre meglio del "fogno" malato in cui contitnuano a volerci affossare...








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