11 Settembre (1 Viewer)

Josè Arcadio Buèndia

Forumer storico
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"....Estas son mis últimas palabras y tengo la certeza de que mi sacrificio no será en vano,
tengo la certeza de que, por lo menos,
será una lección moral que castigará la felonía,
la cobardía y la traición."

Santiago de Chile, 11 de septiembre de 1973









Carlos Caszely


Mi chiamo Carlos Caszely, e nonostante il cognome sono cileno.
Adesso sono un imprenditore, ma fino a qualche anno fa sono stato un calciatore, un buon calciatore.
Ho militato per quasi tutta la mia carriera nella squadra più famosa del mio paese, il Colo Colo,
oltre a qualche stagione in Spagna, nell’Espanyol di Barcellona, e in Ecuador.
Ho disputato anche molte partite in nazionale, e ho partecipato a due campionati del mondo.
In questo momento, nella notte tra il 27 e il 28 di settembre del 1998, mi trovo da solo, al freddo,
dentro un immenso stadio, completamente vuoto.
No, non sono impazzito.
Sto solo cercando di riattaccare dei cocci, quei cocci che non riuscii a raccogliere quel maledetto 21 novembre 1973,
e che si dispersero ancora di più il 14 giugno del 1974.

Pur avendo frequentato tanti stadi, in vita mia, non avevo mai visto uno stadio completamente vuoto.
Fa quasi paura, e nel silenzio della notte, poi, è anche inquietante.
Ma non sono qui per pensare a queste cose.

Ormai è primavera, ma il freddo è ancora tanto.
Faceva già caldo, invece, in quel maledetto giorno di novembre, quel maledetto 21 novembre 1973.
Il giorno peggiore della mia vita, il buco nero dei miei ricordi, il fuoco di tutti i miei incubi.
Il giorno in cui provai disprezzo per me stesso.

Qualche settimana prima, il paese era stato violentato da un colpo di stato dei militari,
che rovesciarono con il sangue il governo legittimo di Unidad Popular, guidato da Salvador Allende.
Fu una carneficina, morirono in migliaia, e migliaia furono gli arrestati.

Arrestarono talmente tanta gente qui a Santiago, che dovettero portarli in uno stadio di calcio,
in ‘questo’ stadio, lo stadio Nacional de Chile.
Gli spalti divennero le prigioni, gli spogliatoi gli uffici degli aguzzini, e i sotterranei le camere di tortura.
Nessuno saprà mai che cosa avvenne nei sotterranei di questo stadio, e credo che anche immaginarlo sia difficile,
posto che esista una mente umana capace di immaginare tante nefandezze.
All’epoca io ero un calciatore già famoso, attaccante del Colo Colo e della nazionale, e,
nonostante avessi sempre professato pubblicamente la mia fede di sinistra, nonostante avessi sempre appoggiato Unidad Popular e Allende, nessuno mi fece niente, in quei giorni.
Ero troppo famoso perché quei vigliacchi avessero il coraggio di toccarmi.

Ma la loro vendetta arrivò implacabile, qualche settimana dopo.
Dovete sapere che il Cile per qualificarsi ai mondiali di calcio che si sarebbero disputati l’anno successivo in Germania doveva affrontare uno spareggio con l’Unione Sovietica.
Due partite, la prima a Mosca, la seconda in Cile.
La prima partita fu disputata regolarmente, a Mosca.
Faceva un freddo cane, quel giorno, loro erano forti e motivati, ma noi riuscimmo ad imporre il pareggio, 0-0, che ci faceva ben sperare per il ritorno.

Accadde però che i sovietici chiesero alla federazione internazionale di far disputare la gara di ritorno in campo neutro,
in quanto lo stadio Nacional de Chile fino a poche settimane prima era stato usato come lager per i prigionieri politici.
La federazione internazionale si rifiutò, e l’U.R.S.S. decise a quel punto di ritirarsi.
Tuttavia, con quel misto di macabro e di ridicolo che solo le dittature più stupide e violente hanno,
la federazione cilena, su istigazione delle autorità militari, e con l’osceno placet della federazione internazionale,
decise di mettere su un’allucinante sceneggiata.
Il 21 novembre, giorno fissato per la partita di ritorno, la nostra nazionale sarebbe ugualmente scesa in campo,
da sola, e al termine di un’azione in cui tutti i componenti della squadra avrebbero dovuto toccare il pallone,
uno di noi avrebbe dovuto segnare nella porta vuota.
Poi ci sarebbe stata un’amichevole contro il Santos, ma il clou della giornata avrebbe dovuto essere quell’assurda pantomima.
Quando me lo dissero non ci volevo credere,
ma col passare dei giorni capii che era tutto vero, e allora cominciò la mia crisi.
Già vivevo male quei giorni, sapendo quello che stava accadendo intorno a me,
sapendo che anche molti miei amici erano stati portati in questo stadio, e poi torturati e uccisi;
mi sentivo un vigliacco, mi vergognavo di continuare la mia vita come se niente fosse successo mentre intorno a me succedeva quello che succedeva.
Ma voi non potete immaginare quale atmosfera ci fosse in quei giorni nel mio paese.
Un’atmosfera di paura, la toccavi, la paura, ti ci scontravi ogni volta che ti muovevi,
che giravi la testa, che alzavi un sopracciglio.
Ci voleva troppo coraggio per sconfiggere tutta quella paura, e io non ce l’avevo, tutto quel coraggio.

E così, il 21 novembre, fummo convocati ed istruiti su quello che avremmo dovuto fare.
Io avevo un ‘altra paura, in quel momento: che come giocatore più rappresentativo di quella squadra,
e magari per punirmi per le mie idee, decidessero di farlo fare a me, il ‘gol’ della vittoria.
Che sospiro di sollievo tirai quando invece l’allenatore si avvicinò a Francisco Valdes, il nostro capitano,
e gli disse che in qualità di capitano, quel ‘gol’ l’avrebbe segnato lui.

Povero, Francisco.
Figlio di operai, militante di sinistra da sempre, quando l’allenatore gli comunicò quella notizia lo vidi sbiancare,
appoggiarsi con la schiena al muro e chiudere gli occhi.
Ed io provai vergogna per il mio sollievo.
Forse, se avessi avuto coraggio, sarei andato da Francisco e gli avrei detto:
“Lascia perdere, Paco, lo faccio io, quel gol”,
o forse, se avessi avuto coraggio, non sarei nemmeno stato presente dentro quegli spogliatoi, quel giorno.
Ma io non ce l’avevo, tutto quel coraggio…
Scendemmo in campo, e naturalmente il regime aveva fatto le cose per bene.
Tutto il mondo lo condannava, condannava la sua violenza, e quella era la sua risposta.
Io, Francisco, tutti gli altri giocatori, eravamo ingranaggi di un gioco più grande di noi,
delle pedine piccole ma fondamentali.
Lo stadio era pieno fino all’ultimo posto, la gente sembrava felice, orgogliosa del proprio paese.
Tutti urlavano, facevano cori, sventolavano bandiere, e io mi chiedevo, tra me e me:
‘ma che cazzo avete da urlare, bastardi,
mentre noi siamo qui, adesso, tanta gente viene rapita, torturate,
uccisa, qui in questo stadio, fino a pochi giorni fa si moriva, altro che urlare!’.
Poi mi resi conto che anch’io ero lì, che se quella gente urlava era perché ‘io’ ero lì,
e mi venne da vomitare.
Pensai: ‘Adesso, quando la palla arriva a me, la butto in fallo laterale. Voglio proprio vedere a chi la fanno battere, la rimessa!’.
Già. Io ero un ingranaggio piccolissimo nel loro grande gioco, ma un granellino di sabbia per bloccare quel meccanismo ce l’avevo.
L’arbitro era pronto. Era un austriaco dalla faccia ottusa.
Eh, già, solo un ottuso poteva, come arbitro, prestarsi.
Che cosa c’entrava lui, austriaco, con quella messinscena? Ma non si vergognava, lui?
Noi almeno correvamo dei rischi a non prestarci, ma lui, che rischi correva?
Ebbi per un attimo l’impulso di parlargli, di dirgli “Senta, si rifiuti di dare il fischio d’inizio, tanto non le faranno nulla, al massimo la impacchetteranno e la metteranno sul primo volo per Vienna!’, ma non feci nemmeno quello.
Mi feci coraggio, pensai, ‘Quando mi danno la palla, la metto in fallo laterale’, e diedi inizio al gioco.

I miei compagni non tenevano il pallone.
Sembrava che bruciasse, quando arrivava tra i loro piedi.
Uno addirittura dalla fretta di passarlo, quasi lo mandò davvero in fallo laterale.
Poi, arrivò tra i miei piedi, e qui si fermò.
Corricchiavo lentamente, con quel pallone di merda tra i piedi, e intento pensavo:
‘Ecco, adesso, adesso lo butto in fallo, coraggio Carlos!’.
Coraggio, ripetevo quella parola tra me e me, coraggio, coraggio, coraggio…
Ma non ne ebbi abbastanza, di coraggio, vinse la paura, e passai la palla a Francisco, che la mise in gol.

Ci guadagnammo così la partecipazione ai mondiali di calcio in Germania, nel 1974.
Nello spogliatoio, dopo quella farsa, c’era un’atmosfera di silenzio.
Se prima c’era stata paura, adesso c’era solo vergogna, per quello che avevamo fatto,
per quello che avremmo dovuto fare e non facemmo.
Francisco Valdes si chiuse in bagno a vomitare, io mi coprii la testa con un asciugamano e rimasi lì,
nascosto al mondo per non so quanto tempo, fino a quando l’allenatore non venne a dirmi che bisognava tornare in campo.
Lo sapete? Per anni ho evitato di guardarmi allo specchio, dopo quel giorno.
Partecipammo ai mondiali, e la nostra fu un’avventura breve e poco gloriosa.
Ed ancor meno gloriosa fu la mia.
Io, che non ero mai stato espulso in tutta la mia carriera, il 14 giugno 1974,
durante il primo incontro con la Germania Ovest, in un eccesso di rabbia, presi a calci Vogts,
che fino a quel momento mi aveva ridicolizzato.
Anzi, non riuscii nemmeno a colpirlo, provai a scalciarlo in maniera ridicola, come in un film di comiche, e l’arbitro mi scacciò.
Giusto così. Quella nostra partecipazione era sporca, così come era sporca la mia coscienza, la mia dignità.
Quando tornammo in Cile, dopo aver perso con la Germania Ovest,
e dopo due ridicoli pareggi contro Germania Est ed Australia, mi sentii quasi sollevato.

Per anni ho tentato di riattaccare quei cocci, senza riuscirci.
Ma oggi ho la mia occasione.
Domani questo stadio, lo stadio dove vennero torturati e uccisi migliaia di oppositori al golpe fascista di Pinochet,
verrà intitolato ad una delle vittime che furono torturate e uccise qui.
Da domani, 28 settembre 1998, a venticinque anni esatti da quelle tremende giornate,
questo stadio si chiamerà ‘Estadio Victor Jara’.
Victor Jara era un artista, un grande cantautore.
Subito dopo il golpe non scappò, venne arrestato, condotto qui dentro, torturato.
Prima di finirlo gli mozzarono le mani, mozzarono le mani ad uno che in una sua splendida canzone aveva scritto:
“Pongo en tua manos abiertas/ mi guitarra de cantor,/ martillo de los mineros/ arado del labrador” *, poi lo finirono.
Ecco perché sono qui, in una fredda notte primaverile, da solo, in questo stadio deserto.
Non parteciperò alla cerimonia pubblica di domani, non ne sono degno.

Ma sono qui, da solo, al freddo, nel silenzio, e piango lentamente.
Io, che non seppi mettere la palla in fallo laterale,
in quel giorno maledetto, io che accettai di essere strumento per una volgare e vomitevole manifestazione del regime,
io che vissi la mia partecipazione ad un campionato mondiale di calcio come una punizione, io sono qui.
 

sasa

Nuovo forumer
<<....Poi, arrivò tra i miei piedi, e qui si fermò.
Corricchiavo lentamente, con quel pallone di pace e bene tra i piedi, e intento pensavo:
‘Ecco, adesso, adesso lo butto in fallo, coraggio Carlos!’.
Coraggio, ripetevo quella parola tra me e me, coraggio, coraggio, coraggio…
Ma non ne ebbi abbastanza, di coraggio, vinse la paura, e passai la palla a Francisco, che la mise in gol.>>


Ci sono stati altri nella storia che non hanno mandato la palla in fallo laterale, personaggi molto più autorevoli e influenti che invece hanno preferito condividere la finestra di quel palazzo dove l'11 settembre del 1973 fu uccisa la democrazia oltre che il suo legittimo P-residente.
Carlos si è vergognato del suo mancato coraggio e lo confessa senza remora...era solo un calciatore, è umano.

Altri, che non erano semplici calciatori, altri che pretendevano di essere quasi sovrumani, non si sono mai vergognati, anzi...
Nel 1999 quando Pinochet si trovava a Londra in attesa di estradizione in Spagna su richiesta del giudice Garçon, il Vaticano tramite il card. Sodano, profuse le proprie energie per scongiurare quell'estradizione...se questo significa essere cristiani!..................

Sapete che cosa mi fa più rabbia? Constatare che i dittatori sanguinari, tranne rare eccezioni, muoiono di vecchiaia nel loro letto. Un esempio per tutti: Amin" the cannibal" morto nel suo letto nella ospitale Arabia Saudita...nessun "gendarme della democrazia" ha mai reclamato un processo in un tribunale internazionale per crimini contro l'umanità.

Pinochet ieri 11 settembre ha festeggiato il 30° anniversario del golpe insieme ai suoi fedelissimi...ma non era malato su una sedia a rotelle e incapace di intendere e di volere come lo stesso Vaticano aveva detto per motivare l'intercessione in suo favore?...Anche lui morirà nel suo letto e confortato dai sacramenti cristiani. Questa è la giustizia di Dio e degli uomini!
berlino.jpg
 

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