10.1. Ed in effetti,,
il parametro a cui si fa riferimento nel valutare, in definitiva, la piena occupazione dei fattori della produzione (lavoro e capitale),
e quindi nel corroborare la teoria del pareggio di bilancio fondata sulla inefficienza del deficit pubblico a determinare un maggior livello di prodotto,
- appunto, sul presupposto del raggiungimento della “piena occupazione”…per incorporazione statistica dello staus quo -,
è quello di deficit strutturale; che si collega a quello di Pil potenziale (e di
output gap).
“Il termine “strutturale” accoppiato alla parola “
deficit” identifica una specifica fattispecie:
la differenza tra le entrate e le spese dello Stato al netto delle circostanze cicliche (peggioramento della congiuntura)
e delle misure una tantum (misure imprevedibili come catastrofi naturali o emergenze sociali come l’immigrazione).
Il deficit strutturale, dunque, rappresenterebbe la condizione dei conti pubblici di un Paese
in corrispondenza del PIL potenziale,
vale a dire in corrispondenza di una situazione in cui l’economia riesce ad impiegare tutte le risorse di cui dispone – lavoro e capitale –
senza generare pressioni inflazionistiche. Per l’Italia, che è un Paese con elevato debito pubblico, le regole europee prescrivono un deficit strutturale pari a zero.
Il
PIL potenziale di un’economia non è una grandezza osservabile, ma va stimato sulla base delle risorse a disposizione dell’economia.
La stima di questo valore è fonte di grande incertezza, statistica e teorica, tanto da aver dato vita ad un apposito gruppo di lavoro
presso la Commissione Europea chiamato
Output Gap Working Group (OGWG)
.
L’OGWG, infatti, utilizza
il metodo cd. “della funzione di produzione” per stimare il PIL potenziale (D’auria et al., 2010).
La funzione di produzione utilizzata dalla Commissione è una funzione Cobb-Douglas a rendimenti costanti,
in cui
il prodotto potenziale è funzione dello stock di capitale potenziale, della disponibilità di lavoro
e della cosiddetta produttività totale dei fattori, TFP, o residuo di Solow, che rappresenta il progresso tecnico di un’economia.
Stando a documenti ufficiali prodotti dalla Commissione (Havik et al., 2014) il PIL potenziale costituisce il miglior indicatore composito dell’offerta aggregata di un’economia
e il suo scopo è quello di indicare una crescita sostenibile e non inflazionistica. Una concezione, propria della teoria neoclassica,
che vede il PIL potenziale come determinato unicamente da fattori di offerta, al più modificabile solo grazie a shock tecnologici o di natura strutturale.
Un punto fondamentale su cui focalizzarsi è
il concetto di crescita non inflazionistica, che si basa su un tasso di disoccupazione “strutturale”
calcolato anch’esso dalla Commissione Europea: il
NAWRU (
non accelerating wage rate of unemployment),
cioè il tasso di disoccupazione in corrispondenza del quale il tasso di crescita dei salari nominali non accelera.
Questo tasso di disoccupazione è considerato “strutturale” in quanto connaturato ad un certo sistema economico,
come se fosse il risultato di determinati fattori che vanno a caratterizzare una economia: legislazione del mercato del lavoro, andamento demografico etc.
Il NAWRU, è bene ricordarlo, è una grandezza oggetto di diverse controversie teoriche (Stockhammer, 2006; Stirati, 2016)
ed è stato oggetto di ripensamento e modificazione, sia teorica che empirica (Ball et al., 2009).
Secondo la letteratura tradizionale, essendo un indicatore strutturale, esso non può essere modificato da politiche discrezionali dal lato della domanda,
ma può essere influenzato solamente da politiche strutturali, appunto, come la modificazione, quasi sempre in senso flessibilista, delle istituzioni che presiedono al
mercato del lavoro. [1]
Questo tasso di disoccupazione rappresenta una situazione di spartiacque tra situazioni di inflazione crescente e di deflazione crescente.
Quando il tasso di disoccupazione effettivo eguaglia il NAWRU il tasso di crescita dei salari nominali, secondo la teoria, non dovrebbe accelerare;
quando ad esempio il tasso di disoccupazione effettivo è inferiore al NAWRU il tasso di crescita dei salari monetari, secondo la teoria, dovrebbe invece accelerare.
I modelli che prendono in considerazione questa grandezza dividono l’analisi in due parti: come ben evidenziato anche nell’ultimo articolo di
Viscione (2018),
nel breve periodo viene accettata l’idea che possano esservi fasi in cui il tasso di disoccupazione effettivo differisce dal NAWRU,
ma nel lungo periodo si suppone che il sistema tenda verso il NAWRU, che viene messo alla stregua di un punto attrattore per il sistema economico.
Nel caso di tasso di disoccupazione effettivo diverso dal NAWRU si viene a configurare una situazione di unemployment gap,
cioè di differenza tra la disoccupazione effettiva e quella giudicata strutturale. Questo gap nella disoccupazione si riverbera in un gap tra il PIL potenziale e il PIL effettivo.
Tale differenza va a definire una grandezza fondamentale per le correzioni di finanza pubblica indicate da Bruxelles: l’output gap.
Tanto più l’output gap è elevato in valore assoluto, tanto più la Commissione permette all’Italia di fare deficit
perché si ritiene che lo iato tra le due grandezze sia destinato ad assorbirsi nel corso del tempo,
attraverso una quasi automatica tendenza del prodotto effettivo a quello potenziale.
In una situazione del genere, dunque, la Commissione attribuisce al deficit una natura ciclica, che potremmo definire
giustificata dalla congiuntura economica.
Al contrario,
quanto più il gap tende a chiudersi, tanto più l’Italia deve ridurre il proprio deficit convergendo verso il rispetto del saldo strutturale di bilancio in pareggio,
visto che in corrispondenza di una situazione in cui l’economia si esprime al massimo potenziale l’Italia non può avere un disavanzo pubblico.
Un metodo del genere risulta essere di non semplice interpretazione: infatti, seguendo MEF (2009), nella realizzazione delle politiche economiche,
i policy-maker dovrebbero essere in grado di distinguere la natura congiunturale del deficit rispetto a quella strutturale.
10.2. Approfondiamo il tema con alcune osservazioni ed alcune domande sollevate
in questo scritto di Aldo Barba (che vale la pena di leggere integralmente):
“…Nonostante la metodologia approvata dal Consiglio ECOFIN miri, attraverso l’uso di una funzione di produzione,
a fare della nozione di crescita del prodotto potenziale qualcosa di più che una semplice estrapolazione del trend di crescita dagli andamenti ciclici della produzione effettiva,
essa resta poco più che una media dei tassi di crescita registrati negli anni precedenti.
…
Una seconda e più sostanziale considerazione investe invece il significato da attribuire ad una nozione di crescita potenziale pari all’andamento medio della crescita effettivamente registrata.
Che vi sia una relazione tra produzione effettiva e produzione potenziale, quali che siano i limiti di misura della produzione potenziale,
è cosa innegabile,
dal momento che difficilmente le risorse produttive possono crescere permanentemente ad un tasso maggiore della produzione effettiva,
essendo la seconda innanzitutto destinata a riprodurre le prime.
La questione centrale è piuttosto un’altra:
è la produzione potenziale a vincolare quella effettiva oppure il contrario?
Per usare l’espressione della BCE, se la produzione potenziale rappresenta le condizioni dell’offerta e quella effettiva quelle della domanda,
è l’offerta a vincolare la domanda oppure il contrario?
…
Secondo l’Unione,
il trend di crescita potenziale è indipendente dalle condizioni della domanda ed è influenzabile dalle sole politiche strutturali del piano Europa 2020.
Le riforme contemplate dal piano individuano tre aree di intervento: mercato del lavoro, mercato dei prodotti, innovazione e conoscenza.
Quelle relative al mercato del lavoro mirano al contenimento delle imposte sui salariati, da conseguirsi attraverso la riduzione dei contributi pensionistici
ed uno spostamento del carico fiscale dal lavoro ai consumi.
L’obiettivo dichiarato di queste misure è quello di accrescere, al contempo, il margine di profitto e il salario netto.
Tuttavia, difficilmente i salariati possono beneficiare della minor imposizione, a prescindere dalla loro forza contrattuale:
se i salariati fossero infatti in grado di preservare i precedenti livelli salariali al lordo dell’imposizione,
questo incremento sarebbe in ogni caso fittizio, traducendosi in minor salario differito e in forme contributive più regressive;
se, al contrario, e come le attuali condizioni distributive lasciano realisticamente pensare,
il salario al lordo delle imposte si riducesse,con la detassazione, l’alleggerimento del carico fiscale sul lavoro si tradurrebbe in un minor salario netto.
Lo slogan “detassare l’impresa e il lavoro per accrescere la competitività” deve essere pertanto correttamente inteso
come un mutamento del carico tributario tutto a favore dei margini di profitto,
visto che, nel caso più favorevole ai salariati, lascerebbe immutate le retribuzioni nette.
Le misure relative al mercato dei prodotti dovrebbero conseguire la riduzione del
mark up sui prodotti finali e quella dei costi amministrativi,
rimandando quindi ad un ulteriore recupero dei margini di profitto da ottenersi grazie ad una
riduzione dei redditi misti, dominanti proprio nei settori della distribuzione e dei servizi all’impresa.
Infine, l’azione volta al rafforzamento dell’innovazione e della conoscenza dovrebbe garantire
crediti fiscali e sussidi al settore R&S,
considerato strategico al fine di sostenere importanti processi di innovazione di prodotto e di processo.
11. Ogni problema pare dunque risolto: l’Italia, secondo i più recenti Country Report, avrebbe sostanzialmente colmato l’
output gap
e si trova in situazione prossima alla piena occupazione. L’inflazione non sia surriscaldata da “eccessi di domanda”:
l’occupazione è ai suoi livelli (quasi) ottimali e ogni interferenza dell’azione espansiva della finanza pubblica va vista come inefficiente e inflattiva.
E certamente come non idonea ad aumentare il prodotto interno in modo corretto e stabile.
Anzi, il deficit risulterebbe destabilizzante, portando a effetti inflattivi determinati dalla creazione di occupazione in attività considerate,
per presunzione normativa prima che per verifica empirica, non produttive nonché da pretese salariali eccessive ed ingiustificabili
(appunto, denominate “rigidità del mercato del lavoro”): in concreto, ciò si rifletterebbe nel mero aumento del debito pubblico rispetto ad un Pil
la cui crescita può essere momentaneamente drogata, ma che, nel medio e nel lungo periodo, porterà a perdita di competitività, aumento delle importazioni e disoccupazione.
12. Nell’intero svolgimento degli assunti a cui rinvia la concezione europea del pareggio di bilancio
e considerando l’intera impalcatura della struttura e delle dinamiche economiche fissate per standard supernormativo dalle istituzioni dell’eurozona,
risaltano due “razionali”:
a)
la crescita si ottiene sempre e soltanto per via della “innovazione tecnologica”, ovverosia l’offerta, purché
tecnologicamente avanzata,
(a prescindere da come tale giudizio sia formulabile in modo oggettivo), trova sempre il modo di determinare la sua stessa domanda
(non importa
dove, avendosi il “mercato-mondo” globalizzato a disposizione);
b)
il consolidarsi statistico di qualsiasi livello di disoccupazione e di qualsiasi livello di trasformazione in capitale produttivo di qualsiasi livello di risparmio nazionale
– purché non sia superato in eccesso il target inflattivo e sia garantita una crescita delle esportazioni, che contiene in sé la prova della capacità tecnologica innovativa dell’offerta nazionale -,
costituisce “piena occupazione” ai sensi dell’art. 3, par.3 del Trattato sull’unione europea.
.
Il mancato raggiungimento del target inflattivo per difetto, non rileva: non è prevista, rispetto a questa tautologia statistico-deduttiva, alcuna implicazione negativa della mancata crescita salariale.
L’ideale, che viene assunto a dimostrazione della virtù dell’austerità fiscale, è la crescita dell’occupazione con il simultaneo,
“curioso”, fenomeno della crescita dell’occupazione con un’inflazione stabile o, sempre più frequentemente, in calo.
Anzi:
le riforme strutturali devono essere ulteriormente completate, tagliando il welfare, pubblico (pensioni, sanità, istruzione pubblica)
in quanto distorsivo ed inefficiente nell’allocazione delle risorse che otterrebbe il settore privato;
e, inoltre, riformando,
in senso riduttivo del costo del personale e del numero degli occupati (mediante l’innovazione digitale!)
il settore della pubblica amministrazione.
La creazione di posti di lavoro è altrettanto affidata al
riformismo strutturale:
completare il riassetto del mercato del lavoro è prioritario,
aumentando la “certezza” del licenziamento senza causa, affidando alla contrattazione aziendale,, fortemente localizzata e in assenza di intervento pubblico,
la determinazione “atomizzata” delle retribuzioni.
Le tipologie di contratto di lavoro, gli orari e le modalità di svolgimento delle prestazioni, devono essere, in ogni modo e a qualsiasi costo, maggiormente flessibilizzate:,
le aspettative di risparmio e di investimento delle famiglie, e le stesse possibilità di consumo, sono una
variabile indipendente dall’equilibrio macroeconomico.
L’innovazione tecnologica e l’efficiente allocazione delle risorse in assenza di deficit del settore pubblico, provvederanno;
chi non si ritrova in questo assetto socio-economico, è un perdente della globalizzazione, un inadatto all’ordine internazionale del mercato.
Gli si può riservare il
reddito di cittadinanza (e la relativa “pensione” di cittadinanza) ma solo se graduata in funzione della “ricchezza”,
costituita dal retaggio di abitazioni (non importa se ereditate, o fatiscenti, o non riscaldate) e se il “beneficiato” sia sottoponibile alla condizionalità “educativa” della flexicurity.
E in ogni modo, il reddito di cittadinanza non deve incentivare un irrigidimento del salario di entrata sul mercato del lavoro,
in modo da por fine alla deflazione salariale competitiva da cui dipende l’equilibrio del ciclo economico
(statisticamente autoalimentato da qualsiasi livello di crescita e di occupazione che si stabilizzi per un periodo sufficientemente significativo).
12.1. Solo se e quando si sarà creato lo spazio fiscale risultante dalla completa attuazione delle riforme strutturali,
e quindi quando sarà posta sotto controllo la spesa per pensioni, stipendi dei pubblici dipendenti, servizio sanitario pubblico,
in modo da realizzare il pareggio strutturale di bilancio, – essendo per definizione mantenuta dinamicamente la piena occupazione deflattiva -,
si potrà pensare a fare investimenti pubblici in eventuali infrastrutture che possano aumentare la produttività dal lato dell’offerta; ma solo a queste ristrette condizioni.
Altrimenti, a rigore,, l’investimento pubblico dovrà essere aumentato, – ove ne fosse rappresentato il bisogno dal lato dell’offerta e per le esigenze della produttività e della competitività -,
all’interno del pareggio di bilancio e ad ulteriore discapito della spesa corrente: quest’ultima va assunta come illimitatamente comprimibile,
una volta abbattutto l’imbarazzo della disapplicazione sistematica delle norme della Costituzione in materia di tutela del lavoro e di prestazioni previdenziali e solidaristiche.
.
Il pareggio di bilancio, ovvero, la teoria economica che lo considera come obiettivo di uno stabile equilibrio “ottimale” dell’economia e della convivenza sociale,
ci proietta in un nuovo mondo di “piena occupazione”,, conforme al NAWRU, praticamente sempiterna
(salvo
schock esogeni che nascerebbero da condizioni di…
irrazionalità in altre parti del mondo globalizzato e interconnesso,
dove non si adotti prontamente e efficientemente lo stesso sistema di regole fiscali dell’eurozona, competitiva e esprtatrice):
cioè,chi lavora lavori,ma non faccia storie premendo per ottenere aumenti salariali.
Ci sarà sempre chi ancora non lavora (o non lavora più; o lavora a condizioni di povertà difficilmente protraibili)
che sarà disciplinatamente disposto ad accettare una retribuzione non inflattiva, produttivistica e competitiva..
Almeno fino a che non si decida di redistribuire, forse, un giorno, la crescita reale della produttività.
Un mondo perfetto e privo di crisi congiunturali, tutte imputabili alla rigidità dei prezzi e alle spinte inflattive determinate dall’assetto “distorsivo” del mercato del lavoro
e dai livelli di privilegio ingiustificato “spuntato” (in
tristi fasi politiche “collettiviste”) col sistema previdenziale e la gratuità della sanità pubblica.
E un questo mondo dell’€uropa competitiva,un uomo responsabile e produttivisticamente efficiente, sarà vivificato dal contatto con la “durezza del vivere”,
scevro da comportamenti parassitari e pretenziosi che, oltretutto, sono alla base del riscaldamento globale; e quest’uomo, umile e credibile,
ragionevolmente remissivo e assuefatto alla virtù della sopportazione, imparerà a trovare il suo ruolo nel mondo, controllato e programmato, in futuro, dall’idolatria della digitalizzazione.
Amen.