USA-CINA: Guerra in vista? (1 Viewer)

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Una cooperazione militare tra Russia e Cina può mettere fine alle guerre USA
Da RedazioneAgo 07, 20186 Commenti

Ispezione truppe cina Russia
di Luciano Lago

Dopo le ultime dichiarazioni dell’ambasciatore cinese in Siria, Qi Qianjin, riguardo alla possibilità di operazioni militari cinesi in Siria a fianco delle forze del presidente siriano Bashar al-Assad, contro i gruppi radicali jihadisti sostenuti dagli USA e Arabia Saudita, si apre una nuova prospettiva sullo scenario internazionale.

In effetti la Cina sta inviando dei segnali molto precisi di essere disposta a farsi coinvolgere direttamente in operazioni contro il terrorismo, la destabilizzazione ed il caos che, fino ad oggi, sono stati una prerogativa degli interventi degli USA e della NATO in varie parti del mondo, basta ricordarsi dell’Afghanistan dell’Iraq, della Siria, ello Yemen, ecc..

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Duello Cina-Usa a summit Apec: "no a protezionismo", "Pechino cambi strada"


Summit Apec: nessun accordo a causa dello strappo tra Cina e Stati Uniti


Xi Jinping and Mike Pence APEC speeches reveal deep ideological divide

WATARU SUZUKI, MASAYUKI YUDA and CLIFF VENZON, Nikkei staff
November 17, 2018 14:08 JST Updated on November 17, 2018 18:36 JST

PORT MORESBY -- Chinese President Xi Jinping and U.S. Vice President Mike Pence on Saturday traded barbs in speeches at a summit of world leaders, with Xi criticizing U.S. protectionism and Pence saying the U.S. will not back down on tariffs while Beijing engages in "forced technology transfers" and "intellectual property theft."

"Global growth is shadowed by protectionism and unilateralism," Xi said at the Asia-Pacific Economic Cooperation CEO Summit, aboard a cruise ship in the harbor of Papua New Guinea's capital. "History has shown that confrontation, whether in the form of a cold war, hot war, or trade war will produce no winners."

He added that "there are no issues that countries cannot resolve through consultation" as long as they understand each other.

His words appeared to be a possible olive branch ahead of his talks later this month with U.S. President Donald Trump on the sidelines of another summit, in Argentina.

Then Pence took to the podium.

"As we know, [China] has engaged in quotas, forced technology transfers, intellectual property theft and industrial subsidies on an unprecedented scale," the vice president said. "The United States will not change its course until China changes its ways."

The issue is expected to take center stage on Sunday, when the leaders of the 21 APEC nations meet. The participants are expected to announce a joint statement promoting free trade.

According to a working draft of the statement from Thursday, the U.S. is pushing to include the need to reform the World Trade Organization, and the "removal of all trade distorting practices," such as forced technology transfers and government subsidies for industry.

On Friday, Trump told reporters he received a "large" list of 142 items from Beijing in response to American demands for reform. He said the list is "not acceptable to me yet" but also noted that the U.S. "may not have to" impose further tariffs on Chinese imports. Trump has previously threatened to raise the tariff rate on $200 billion worth of Chinese imports from 10% to 25% in January 2019, and impose additional tariffs on a further $267 billion worth of Chinese imports.

In this context, Pence's speech could be a bargaining chip thrown on the table ahead of the Argentina meeting. His remarks come amid reports that Beijing and Washington are negotiating a truce before the presidents sit down together.

Trump's administration has accused Beijing of unfair trade and intellectual property practices. Trump has also accused the World Trade Organization of being unable to police countries that violate its rules.

"The cornerstone of the WTO is not to be challenged," Xi hit back on Saturday, warning that doing so would shake the "very foundation of a multilateral trading system."
Despite his strong words, Pence did not rule out those direct talks between Xi and Trump on the sidelines of the Group of 20 summit.

"The United States of America seeks a better relationship with China, based on fairness, reciprocity and respect for sovereignty," the vice president said. "As the president prepares to meet with President Xi at the G-20 summit ... we believe progress could be made."

The verbal jousting went far beyond trade issues. In his speech, Xi dismissed concerns over the political intentions of China's Belt and Road initiative, a sprawling infrastructure development program that would touch many parts of the globe.

"It is not designed to serve any hidden geopolitical agenda," Xi said. "It is not a trap, as some people have labeled it."

But in his speech, Pence warned about "strings attached" to the initiative. The U.S. "offers a better option," he said, referring to a $60 billion infrastructure investment scheme centered on the Indo-Pacific region.

"We don't drown our partners in a sea of debt," he said. "We don't coerce or compromise your independence. We do not offer a constricting belt or a one-way road."

Xi and Pence also clashed over ideologies.

"The truth is," Pence said, "governments that deny rights to their own people too often violate the rights of their neighbors. Authoritarianism and aggression have no place in the Indo-Pacific."

He went on to hit China's closed internet, known as the Great Firewall. A "free and open Indo-Pacific deserves a free and open internet," Pence said.

The Great Firewall has acted as an incubator to many of the country's information technology giants, allowing them to grow piles of cash that they would later use to sweep through other Asian markets.

Xi said there is no single model for development and called on countries to embrace diversity.
...
China-US war of words escalates beyond trade


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DIETRO L'ATTACCO USA AGLI SMARTPHONE CINESI
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Comitato promotore della campagna #NO GUERRA #NO NATO
Italia

5 DIC 2018 —

Manlio Dinucci

Dopo aver imposto pesanti dazi su merci cinesi per 250 miliardi di dollari, il presidente Trump al G-20 ha accettato una «tregua» posticipando ulteriori misure, soprattutto perché l’economia Usa è colpita dalla ritorsione cinese.

Ma oltre alle ragioni commerciali ci sono quelle strategiche. Sotto pressione del Pentagono e delle agenzie di intelligence, gli Usa hanno bandito gli smartphone e le infrastrutture di telecomunicazioni della società cinese Huawei, con l’accusa che possono essere usati per spionaggio, e premono sugli alleati perché facciano altrettanto.

Ad avvertire soprattutto Italia, Germania e Giappone, paesi con le più importanti basi militari Usa, sul pericolo di spionaggio cinese sono le stesse agenzie Usa di intelligence che hanno spiato per anni le comunicazioni degli alleati, in particolare Germania e Italia.

La statunitense Apple, un tempo leader assoluta del settore, è stata scavalcata come vendite dalla Huawei (società di proprietà degli impiegati quali azionisti), piazzatasi al secondo posto mondiale dietro la sudcoreana Samsung.

Ciò è emblematico di una tendenza generale. Gli Stati uniti – la cui supremazia economica si basa artificiosamente sul dollaro, principale moneta finora delle riserve valutarie e dei commerci mondiali – vengono sempre più scavalcati dalla Cina sia come capacità che come qualità produttiva.

«L’Occidente – scrive il New York Times – era sicuro che l’approccio cinese non avrebbe funzionato. Doveva solo aspettare. Sta ancora aspettando. La Cina progetta una vasta rete globale di commerci, investimenti e infrastrutture che rimodelleranno i legami finanziari e geopolitici».

Ciò avviene soprattutto, ma non solo, lungo la Nuova Via della Seta che la Cina sta realizzando attraverso 70 paesi di Asia, Europa e Africa.

Il New York Times ha esaminato 600 progetti realizzati dalla Cina in 112 paesi, tra cui 41 oleodotti e gasdotti; 199 centrali soprattutto idroelettriche (tra cui sette dighe in Cambogia che forniscono la metà del fabbisogno elettrico del paese); 203 ponti, strade e ferrovie, più diversi grandi porti in Pakistan, Sri Lanka, Malaysia e altri paesi.

Tutto questo viene considerato a Washington una «aggressione ai nostri interessi vitali», come sottolinea il Pentagono nella «Strategia di difesa nazionale degli Stati Uniti d’America 2018».

Il Pentagono definisce la Cina «competitore strategico che usa una economia predatoria per intimidire i suoi vicini», dimenticando la serie di guerre condotte dagli Stati uniti, anche contro la Cina fino al 1949, per depredare i paesi delle loro risorse.

Mentre la Cina costruisce dighe, ferrovie e ponti utili non solo alla sua rete commerciale ma anche allo sviluppo dei paesi in cui vengono realizzati, nelle guerre Usa dighe, ferrovie e ponti sono i primi obiettivi ad essere distrutti.

La Cina viene accusata dal Pentagono di «voler imporre a breve termine la sua egemonia nella Regione Indo-Pacifica e di voler spiazzare gli Stati uniti per conseguire in futuro la preminenza globale», di concerto con la Russia accusata di voler «frantumare la Nato» e «sovvertire i processi democratici in Crimea e Ucraina orientale».

Da qui l’«incidente» nello stretto di Kerch, provocato da Kiev sotto regia del Pentagono per far saltare l’incontro Trump-Putin al G-20 (come è avvenuto) e far entrare l’Ucraina nella Nato, di cui è già membro di fatto.

La «competizione strategica a lungo termine con Cina e Russia» è considerata dal Pentagono «principale priorità». A tal fine «modernizzerà le forze nucleari e rafforzerà l’Alleanza trans-atlantica della Nato».

Dietro la guerra commerciale si prepara la guerra nucleare.
 

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Full Economic War

Il Canada ha arrestato la figlia del fondatore di Huawei ( e probabile successore del padre ) che è anche alto dirigente della stessa azienda. Il motivo dell’arresto avvenuto il 1 Dicembre è una richiesta da parte degli Stati Uniti per violazione della l’embargo deciso dagli USA stessi dell’embargo verso l’IRAN.… more...
 

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Guerra commerciale e rappresaglie incrociate
Trade war: con la Cina non si scherza
A meno di due settimane dai tentativi di distensione andati in scena a Buenos Aires, lo scontro a distanza tra Washington e Pechino è entrato in una nuova fase di rappresaglie incrociate, inasprite dall’arresto di Meng Wanzhou, vertice di Huawei. Una fase della trade war a dir poco tempestosa perché, a riavvolgere il nastro sugli ultimi anni di offensive commerciali, con la Cina non si scherza.


Il primo dicembre, dietro richiesta di Washington, le autorità canadesi hanno arrestato a Vancouver Meng Wanzhou, figlia del fondatore del colosso delle telecomunicazioni cinese Huawei. La hanno accusata di aver aggirato le sanzioni Usa contro l’Iran e invischiato la compagnia in un giro di affari con Teheran, forte della carica di chief financial officer che Wanzhou ricopre per l’azienda di famiglia.

L’arresto di Meng, come prevedibile, ha fatto andare su tutte le furie la dirigenza di Pechino, che nel giro di una settimana ha risposto alla “violazione dei diritti umani” della propria cittadina arrestando a sua volta due cittadini canadesi residenti in Cina: l’ex diplomatico (e membro del think tank International Crisis Group) Michael Kovrig e l’uomo d’affari, esperto di rapporti commerciali con la Corea del Nord, Michael Spavor. Per entrambi, secondo Pechino, è scattato il fermo a seguito di indagini intorno ad “attività che mettono a repentaglio la sicurezza nazionale cinese”.

Nel frattempo, Meng è stata liberata su cauzione e non potrà lasciare il Canada finché il ministro della giustizia canadese non prenderà una decisione circa la richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti. In caso di estradizione, Meng dovrebbe rispondere dell’accusa di associazione a delinquere di fronte alle autorità Usa, rischiando una pena detentiva di trent’anni per capo d’imputazione.

Seguendo a menadito il brogliaccio della sua “bullying policy”, Donald Trump si è dichiarato pronto a intervenire presso lo U.S. Justice Department nel caso una sua intercessione potesse essere d’aiuto per raggiungere un accordo commerciale definitivo con Pechino.

Che un approccio estorsivo simile darà i frutti sperati da Trump – piegare definitivamente Xi Jinping e imporre alla Cina un set di profonde riforme del proprio assetto economico –, resta ancora tutto da vedere.

Ma di certo nessuno, almeno nella storia recente, aveva mai osato alzare così tanto il livello dello scontro con Pechino, intuendo di cosa la Cina è capace di fronte a provocazioni anche di gran lunga meno pirotecniche del caso Meng.

D’altronde, come spiega senza peli sulla lingua il direttore di «Global Times» Hu Xijin in questo video, la rappresaglia cinese può spingersi molto oltre l’arresto di due cittadini canadesi, pescando da un mazzo di misure poco ortodosse ma utilizzate nel passato recente per rispondere a episodi giudicati “provocatori” da Pechino.

Può spingersi molto oltre.
Norvegia, 2011. Un anno prima il dissidente cinese Liu Xiaobo, promotore del pamphlet pro diritti umani Charter 08, vince il premio Nobel per la Pace. La Cina, che dal 2008 teneva Liu Xiaobo in stato d’arresto accusato di cospirazione, protesta con veemenza, censurando la notizia e convocando l’ambasciatore norvegese.
Nello stesso anno, le autorità cinesi introducono controlli più stringenti per le importazioni di salmone norvegese, facendo crollare le esportazioni di pesce da Oslo del 62 per cento nel giro di soli sei mesi.
Il bando al salmone norvegese rimarrà in vigore per ben sei anni.

Giappone, 2012. Nel mese di settembre il governo giapponese dichiara unilateralmente la nazionalizzazione delle isole Senkaku, attribuendole alla prefettura di Okinawa.
Le isole sono da anni al centro di una contesa territoriale tra Repubblica popolare cinese e Giappone (e Taiwan, considerata però da Pechino una parte integrante della Cina continentale, “temporaneamente ribelle”).
La Cina risponde incoraggiando un boicottaggio popolare dei marchi giapponesi, in particolare delle case automobilistiche Honda e Okinawa non ha ancora dato il via libera a nessun progetto infrastrutturale che interessi le isole Senkaku.

Hong Kong, 2015.
In seguito all’elezione di Xi Jinping a presidente della Repubblica popolare cinese (novembre 2012), una serie di autori e librai vicini alla libreria indipendente Causeway Bay Books, ad Hong Kong, pianifica la pubblicazione di alcuni libri critici nei confronti del neo presidente cinese; attività teoricamente tutelata dall’articolo 27 della Basic Law locale che garantisce, nell’isola, la piena libertà d’espressione.
Due anni dopo, tra l’ottobre e il dicembre del 2015, cinque uomini legati alla Causeway Bay Books spariscono improvvisamente dall’isola, prelevati da agenti cinesi in borghese. Lui Bo, Gui Minhai, Lam Wing-kee, Cheung Jiping e Paul Lee riappaiono alla spicciolata nel 2016, tutti detenuti dalle autorità cinesi o per coinvolgimento in “attività illegali” o per “collaborare” a non meglio specificate indagini.
Al momento, in seguito a “confessioni spontanee” trasmesse dalle reti nazionali cinesi, sono tutti in libertà condizionata ma non possono lasciare la Repubblica popolare, salvo brevi visite “per motivi personali” ad Hong Kong.

Corea del Sud, 2017. Seul accetta di installare sul proprio territorio il Thaad, un sistema antimissilistico ideato, gestito e pagato dagli Stati Uniti. La Cina considera il Thaad una minaccia diretta alla propria sovranità, accusando Washington di voler spiare Pechino con la scusa del contenimento della minaccia nordcoreana. Pechino intima a Seul di bloccare l’installazione del sistema antimissilistico, richiesta che la Corea del Sud non vuole – o non può – soddisfare.
La dirigenza di Pechino, allora, dal mese di marzo incoraggia ancora una volta un boicottaggio a tappeto dei marchi sudcoreani, colpendo il settore dell’automobile (Hyundai, – 64%), della rivendita al dettaglio (Lotte, – 95%) e scoraggiando il turismo verso la Corea del Sud. In sei mesi, il turismo cinese verso la Corea del Sud – che equivale a metà delle visite complessive – si dimezza. Il presidente sudcoreano Moon Jae-in annuncia lo stop all’upgrade del Thaad e apre un’indagine sui danni ambientali causati dall’installazione del sistema antimissilistico americano. Pechino e Seul normalizzano ufficialmente le relazioni bilaterali nell’ottobre dello stesso anno.

Una serie di precedenti, quella su cui si è appena riavvolto il nastro, per cui è opportuno chiedersi se e come la Cina di Xi Jinping intenda rilanciare di fronte alle provocazioni di Trump, spostando il mirino della rappresaglia dal Canada agli Stati Uniti.

Da un lato, Donald Trump, perennemente impegnato su più tavoli sovrapposti tra vicende private, dubbi rapporti con Putin, escandescenze razziste e un gabinetto di governo gestito come un’infinita sessione di sedie musicali, sembra non aver niente da perdere e nessuno in grado di consigliarlo.

Dall’altro, Xi Jinping, alle prese con una Via della Seta più difficile da realizzare del previsto e fiaccato dagli effetti dei dazi Usa, si ritrova per la prima volta costretto in una disputa in cui potrebbe non avere la meglio.

In mezzo, spettatrice impotente e campo di battaglia, c’è la comunità internazionale col suo sistema economico direttamente dipendente dagli umori di Washington e Pechino.
Grande è la confusione sotto il cielo, avrebbe forse commentato il “grande timoniere” Mao, ma stavolta la situazione non sembra eccellente.





 

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Via della Seta, perché la Cina punta sull’Italia e perché gli Usa sbuffano. Parla Caracciolo (Limes)

di Marco Orioles
Via della Seta, perché la Cina punta sull'Italia e perché gli Usa sbuffano. Parla Caracciolo (Limes)
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“Sono vari anni che la Cina bussa alla porta italiana, poiché l’Italia si configura dal punto di vista geografico come un paese privilegiato, nel centro del Mediterraneo, ideale per il collegamento tra le rotte marittime provenienti dall’Oceano Indiano via canale di Suez e poi dirette verso l’Europa centrale e la Germania”. Parla Lucio Caracciolo, analista di geopolitica, direttore di Limes ed editorialista del quotidiano la Repubblica



La notizia del giorno è la probabile, addirittura imminente, adesione dell’Italia – primo Paese del G7 a farlo – al maxi progetto infrastrutturale della Cina di Xi Jinping: la “Belt and Road Initiative” (BRI). Sono le famose “nuove vie della Seta” che si sostanzieranno in sei corridoi, cinque terrestri ed uno marittimo, tra Asia ed Europa, capaci di connettere la Repubblica Popolare al mercato strategico del Vecchio Continente e a quelli emergenti dell’Asia sudorientale, dell’Asia centrale, del Medio Oriente e dell’Africa.

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Un progetto ambizioso, fiore all’occhiello del presidente Xi, con cui Pechino si candida a guidare una nuova fase della globalizzazione, questa volta con “caratteristiche cinesi”. Ma al quale non pochi guardano con sospetto, riconoscendovi l’imprinting di un preciso disegno geopolitico che mira ad assorbire intere regioni e paesi in una nuova sfera di influenza della Cina. La quale diventerebbe, così, il nuovo centro di un mondo riconfigurato secondo i desiderata, e le esigenze, del Partito Comunista Cinese.

I primi a suonare l’allarme sono, ovviamente, gli Stati Uniti. I quali, nello stesso articolo del Financial Times che riportava ieri le dichiarazioni con cui il sottosegretario al ministero dello Sviluppo Economico, Michele Geraci, rivelava che il Memorandum of understanding con cui aderiremo alla BRI è in dirittura d’arrivo, consegnavano al nostro paese un duro monito, arrivato attraverso le parole di Garret Marquis, portavoce del National Security Council, organo della Casa Bianca che si occupa di minacce strategiche.

Nelle stesse ore, inoltre, fonti del Corriere della Sera portavano a galla le pressioni esercitate dagli Usa sul presidente del Consiglio Giuseppe Conte e sul sottosegretario di Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti affinché l’Italia non dia seguito al suo proposito di essere il primo paese del gruppo dei Grandi a partecipare alla BRI e non approfitti in particolare della visita nel nostro paese del presidente Xi, programmata per i prossimi 22 e 23 marzo, per apporre la fatidica firma.

Un dossier scottante che Start Magazine ha deciso di approfondire.

Ecco la conversazione con Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la prima rivista italiana di geopolitica e fucina di analisti ed intellettuali che dissezionano i grandi trend strategici del nostro pianeta.

Cosa sono dunque, Caracciolo, le nuove vie della Seta, ovvero “una cintura, una strada”?
Rappresentano una strategia di globalizzazione vestita da progetto di promozione infrastrutturale marittima e terrestre, che ha il compito di collegare il mercato europeo a quello cinese e ad altri mercati asiatici. Un progetto con un chiaro sottotono geopolitico, che punta sulla valorizzazione del marchio Cina e sull’espansione dell’influenza cinese nel mondo, con particolare riguardo ai paesi toccati da queste rotte marittime e terrestri.

Un insieme di progetti, la BRI, nell’ambito dei quali il nostro paese dovrebbe ricoprire un ruolo privilegiato, nella sua qualità di sbocco delle vie della seta: di qui l’importanza dei porti dell’Alto Adriatico, tra cui quello di Trieste.
Più che di ruolo per il nostro paese, parlerei di potenziale. Nel senso che sono vari anni che la Cina bussa alla porta italiana, poiché l’Italia si configura dal punto di vista geografico come un paese privilegiato, nel centro del Mediterraneo, ideale dunque per il collegamento tra le rotte marittime provenienti dall’Oceano Indiano via canale di Suez e poi dirette verso l’Europa centrale e la Germania. Potenziale, perché sinora l’Italia non è stata in grado o non ha voluto offrire vere sponde alla Cina.

E oggi?
Oggi, se veramente si firmerà questo memorandum, le cose procederanno diversamente. Lei ha citato Trieste, ma si potrebbe citare Genova, così come altri porti meno rilevanti, che potrebbero diventare dei perni del collegamento marittimo e ferroviario dalla Cina all’Europa. Trieste ha la caratteristica speciale di essere un porto franco, fondato 300 anni fa dagli Asburgo: ciò significa un vantaggio doganale notevole per chi vi sbarca o lo utilizza. Trieste è ben collegata alla linea Vienna-Monaco piuttosto che al resto dell’Italia. E poi Trieste ha da sempre una vocazione autonoma, di carattere anche geopoliticamente ambiguo fra Italia ed Europa di mezzo, e questo rappresenta da un certo punto di vista un vantaggio, ma anche un problema per l’Italia. Poi c’è un secondo capitolo della BRI…


Quale?
È il capitolo rappresentato dalle vie della seta digitali, ossia la penetrazione di cavi internet e data center. Su questo i cinesi puntano molto, in particolare Huawei, portatrice di una tecnologia 5G che le conferisce una posizione privilegiata rispetto agli americani. Questo crea però una tensione forte tra Italia e Usa, perché Washington teme che la Cina usi l’Italia come base di spionaggio.

E qui, dopo le opportunità che i progetti cinesi offrono all’Italia, si apre la questione delle minacce. Che gli Usa, sia per quanto riguarda BRI che per Huawei, ci ricordano ad ogni pie’ sospinto. Perché, concretamente, gli Usa vogliono che l’Italia si tenga alla larga dalla BRI e dalla Cina più in generale?
Gli Stati Uniti vedono nella Cina la minaccia numero uno al loro primato mondiale. Vedono nella tecnologia cinese nel campo di internet un rivale pericoloso, capace di penetrare anche i segreti degli Usa e della loro sfera di influenza imperiale, di cui noi facciamo parte. Quindi, se, come già sta avvenendo, Huawei apre dei centri di raccolta dati e internet in Italia, questo crea un malumore negli Stati Uniti.

Gli Usa lanciano l’allarme Huawei, ma non esibiscono le prove: non c’è la pistola fumante di un coinvolgimento dell’azienda di Shenzhen nello spionaggio di Pechino. Le famose “backdoor” che Huawei piazzerebbe nella rete, e che costituirebbero il cavallo di Troia con cui il regime cinese penetrerebbe nei nostri network, non le ha viste nessuno.
Noi sappiamo che da parte britannica, dunque di un alleato privilegiato degli Usa, è stata notata una relativa innocuità delle tecnologie di Huawei. E’ chiaro che, in questo campo, prove certe non ci sono, o se si hanno ciascuno le tiene per sé, magari sotto il tavolo. Quindi non mi aspetterei rivelazioni clamorose. Resta il fatto che gli americani, che abbiano ragione o torto, credono che Huawei sia un pericolo.

Un pericolo anche perché la legge cinese sull’Intelligence del 2017 dice chiaramente che Huawei è obbligata a collaborare col governo.
Ma questo è perfettamente normale, in tutti i paesi normali. Anche Google e Facebook collaborano con il governo americano.

Ma quali minacce specifiche pone la Via della seta al nostro Paese?
Nessuna in particolare. Il vero problema a mio avviso è che i cinesi potrebbero usare l’Italia per i loro fini esclusivi e mettano un’impronta troppo forte ed esclusiva sull’Italia. Questo significa evidentemente una minaccia per un paese come il nostro che fa parte della Nato ed è dentro la sfera di influenza europea dell’America. Quindi, come vediamo anche dalla cronaca, siamo sottoposti ad una serie di pressioni.

Peraltro, è la stessa Unione Europea a nutrire diffidenza nei confronti della BRI. Ricordo solo il report firmato da 27 ambasciatori in Cina dei paesi UE – tutti tranne quello ungherese – che l’anno scorso evidenziò tutte le perplessità europee sul progetto.
Per la verità alcuni paesi europei non secondari, come la Germania o l’Inghilterra, sono già in rapporti con Huawei ed hanno già rapporti piuttosto avanzati in campo tecnologico con la Cina. Credo che retorica e sostanza in questo caso non coincidono.

Secondo lei, il governo italiano sottovaluta i problemi intrinseci ai dossier BRI ed Huawei? Vede la possibilità all’orizzonte di uno scollamento nei rapporti tra Italia e Usa?
C’è un problema di dilettantismo, o se si preferisce di ignoranza. Questo è un governo composto da persone che non hanno mai avuto a che fare con questo genere di dossier, e dunque si sono fatte prendere alla sprovvista. Di Maio stesso pensava di poter firmare il memorandum of understanding sulla BRI nel novembre scorso (mentre era in visita istituzionale in Cina, ndr), ed evidentemente è stato fermato dagli americani.

E invece la Lega – al di là dell’entusiasmo di Geraci – che posizione ha su questi dossier?
Almeno finora, direi che sostanzialmente condivide la necessità di aderire alle Vie della seta. Non vedo dunque su questo una divaricazione tra M5S e Lega.

Gli Usa tuttavia, va detto, hanno un atteggiamento quanto meno ondivago. Perché se da un lato chiamano all’ordine gli alleati su Huawei e BRI, poi scopriamo dal New York Times che Donald Trump ogni tanto si consulta con i suoi consiglieri su come si possa far uscire l’America dalla Nato. Quindi non ci si può stupire se l’Italia non sappia più come orizzontarsi.
A parte le esercitazioni di Trump, è chiaro che gli Usa non hanno alcuna voglia di uscire dalla Nato. Anzi, negli ultimi tempi la loro presenza in Europa anche militare si è accresciuta.

A proposito dei nostri rapporti con il nostro maggiore alleato, cosa ne pensa della partecipazione del ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi alla ministeriale di Varsavia convocata due settimane fa dagli Usa per dare vita ad una poderosa coalizione contro l’Iran? Un’iniziativa che è stata disertata, oltre che da Federica Mogherini, dai capi delle diplomazie di Francia e Germania, che hanno preso clamorosamente le distanze dal tentativo americano di coinvolgere l’Europa nella campagna di “massima pressione” nei confronti degli ayatollah. Le chiedo, l’Italia ha per caso aderito, senza strombazzarlo troppo, alla coalizione anti-Iran?
Non mi risulta. L’Italia mantiene una posizione piuttosto riservata. Comunque la posizione italiana non conta granché visto che il nostro paese, per sua scelta, non ha voluto partecipare ai negoziati con l’Iran sul trattato contro la proliferazione nucleare. Quindi siamo fuori da questo gioco.

Nella grande partita che è in corso nella Mezzaluna tra regimi come quello di Sisi e bin Salman da un lato e forze islamiste guidate da Turchia e Qatar dall’altro, noi stiamo facendo un gioco, come dire, altalenante, che non sembra nemmeno funzionale ai nostri interessi nazionali, come dimostra il caso della Libia, che ci vede sempre più isolati ed in difficoltà. Lei cosa suggerirebbe a questo governo?
Io penso che sia importante mantenere relazioni decenti con tutti, anzitutto con l’Iran, che è uno dei paesi veri della regione. A parte Teheran, io vedo solo Israele e Turchia come realtà consolidate. Il resto sono o famiglie allargate, vedi quella saudita, o regimi su cui difficilmente si può scommettere per il futuro. Segnalo anche i sommovimenti in corso in Algeria, che ci interessano da vicino.
 

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