Cir (CIR) De BENE chiede lo sconto sui debiti (1 Viewer)

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Carlo De Benedetti lavora per i Rotschild, la prova in un documento della Banca: tutti i segreti di Cdb.

Scritto da Andrea

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Editore di Repubblica e l’Espresso. Tessera numero 1 del Pd e numero ignoto della P2. Gran cerimoniere dei governi di centrosinistra e oppositore di Berlusconi. Carlo De Benedetti è uno dei personaggi più controversi della nostra storia recente. E oggi si scopre anche che lavora per i Rotschild, i banchieri più spietati del mondo. Sarà per questo che la sua Sorgenia riesce sempre ad avere comportamenti di favore dalle banche italiane?


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È così importante sapere che Carlo De Benedetti siede nel management board di Edmond De Rotschild Francia?
Sì, se consideriamo che i Rotschild sono i banchieri più spietati e spregiudicati del mondo, speculatori in grado di modificare e influenzare – a proprio piacimento – le politiche di qualsiasi nazione in cui abbiano interessi.

E il loro “legame” con l’Italia è documentato a partire dal 1863, quando il senatore Siotto Pintor (Atti Parlamentari, Discussioni del Senato, sess. 1863-65, v. IV, p.3091.) denunciava che “il malcontento è grave, un senso di malessere si diffonde in tutte le classi della società. Le sorgenti della ricchezza vanno a disseccarsi. Noi facciamo il lavoro di Tantalo o di Penelope. Il signor Rothschild, re del milione, è, finanziariamente parlando, re dell’Italia”.
Proprio come oggi, nonostante più di un secolo sia passato.
A maggior ragione oggi, chè possono contare sull’appoggio del gran cerimoniere Carlo De Benedetti, editore di Repubblica e l’Espresso, tessera numero 1 del Pd (di cui influenza le strategie e le scelte) ed ex piduista, come rivelato dal giornalista Ferruccio Pinotti.
E allora è il caso di approfondire la figura, dai contorni molto oscuri, di Cdb.

Secondo Wikipedia, “nel 1993, in piena bufera Tangentopoli, Carlo De Benedetti venne arrestato. Presentò al pool di Mani Pulite un memoriale in cui ammetteva il pagamento di 10 miliardi di lire in tangenti ai Partiti di governo e funzionale all'ottenimento di una commessa dalle Poste Italiane, consistente in telescriventi e computer obsoleti.
Nel maggio dello stesso anno, viene iscritto all'albo degli indagati; De Benedetti non andrà mai a processo per questa tangente per sopraggiunta prescrizione.
Ma come, Berlusconi viene crocifisso ad ogni piè sospinto e uno come Cdb, che la sa lunga tanto quanto il confratello di Arcore, passa per un bonario ometto lindo e pinto?
E che dire del passaggio che Ferruccio Pinotti, nel libro “Fratelli d’Italia” (ed. Bur) dedica al masso-leone? Ne riportiamo alcuni stralci che rendono bene l’idea.
Ricostruire il lungo e complesso «filo rosso» della finanza massonica significa occuparsi anche della figura dell'ingegner Carlo De Benedetti.
Una figura la cui storia imprenditoriale è intrecciata con quella di altri uomini della finanza ritenuti vicini alla finanza «laica» e alla massoneria: Roberto Calvi in primis, Enrico Cuccia e soprattutto Silvio Berlusconi, un massone «dormiente» con il quale De Benedetti si è più volte incontrato e scontrato.

“All'epoca in cui De Benedetti viene «regolarizzato» come maestro alla loggia Cavour, l'imprenditore è alla guida della Gilardini, una società quotata in Borsa che fino ad allora si era occupata di affari immobiliari e che i due fratelli Carlo e Franco De Benedetti trasformeranno in una holding di successo, impegnata soprattutto nell'industria metalmeccanica.
Nel 1974 era stato nominato presidente dell'Unione Industriali di Torino, una realtà che ha sempre vantato una forte presenza massonica, a partire dallo storico «fratello» Gino Olivetti, uno dei massoni più rappresentativi del mondo economico torinese negli anni Venti.”

Ma il bello deve ancora venire, perché il nome di De Benedetti si lega a vicende poco chiare, come l’affaire del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi e soprattutto Flavio Carboni, il tanto vituperato faccendiere finito nel tritacarne mediatico di Repubblica in seguito allo scandalo P3.
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Pinotti è quanto mai esaustivo, preciso e dettagliato.
“Sta di fatto che, secondo Raffi, De Benedetti resta nel Grande Oriente, come maestro, dal marzo 1975 al dicembre1982. Un periodo estremamente significativo, in cui accadono molti eventi forti legati alla massoneria.
Un anno dopo l'ammissione al Grande Oriente, nel 1976, a De Benedetti viene affidata la carica di amministratore delegato della Fiat. Come «dote» porta con sé il 60 per cento del capitale della Gilardini, che cedette alla società degli Agnelli, in cambio di una quota azionaria della stessa Fiat (il 5 per cento). De Benedetti cercò di rinnovare la dirigenza della società torinese, nominando manager a lui fedeli (a cominciare dal fratello Franco) alla guida di importanti unità operative del Gruppo. Ma dopo un breve periodo, quattro mesi - a causa, si disse, di «divergenze strategiche» - abbandonò la carica in Fiat. Per alcuni, ma il condizionale è più che d'obbligo, i due fratelli avrebbero trovato un ostacolo insormontabile nella parte di dirigenza Fiat più legata alla famiglia Agnelli, che avrebbe scoperto un loro tentativo di scalata della società, appoggiata da gruppi finanziari elvetici.
Con il denaro ottenuto dalla cessione delle sue azioni Fiat, De Benedetti rilevò le Compagnie industriali riunite (Cir), a cui in seguito garantirà il controllo azionario del quotidiano «la Repubblica» e del settimanale «L'espresso». Successivamente vedrà la luce anche Sogefi, operante sulla scena mondiale nei componenti autoveicolistici di cui De Benedetti è stato presidente per venticinque anni consecutivi, prima di cedere il posto al figlio Rodolfo, conservando però la carica di presidente onorario. Nel 1978 entrò in Olivetti, di cui divenne presidente. In questa azienda, dal nome glorioso, ma molto indebitata e dal futuro incerto, porrà le basi per un nuovo periodo di sviluppo, basato sulla produzione di personal computer e sull'ampliamento ulteriore dei prodotti, che vide aggiungersi stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa.
Nel 1981 il primo incontro-scontro con un potente «fratello»: Roberto Calvi, membro della P2 e della massoneria d'oltralpe, ma anche uomo di riferimento della finanza vaticana. Il 19 novembre 1981, dopo una serie di contatti avviati in ottobre, Carlo De Benedetti acquista il 2 per cento delle azioni del Banco (tramite due società, Cir e Finco). L'imprenditore entra nel consiglio di amministrazione dell'Ambrosiano e viene nominato vicepresidente. Vi rimarrà per sessantacinque giorni, sino al 25 gennaio 1982 quando, a seguito di contrasti sulla gestione e sulla reale situazione finanziaria dell'istituto, rassegna le dimissioni e viene liquidato con oltre 80 miliardi di lire.

Cos'era successo in quel lasso di tempo?
Le interpretazioni si dividono.
Uno scontro tra De Benedetti e Calvi sui conti reali del Banco Ambrosiano e sulle gestione della rete estera è fuor di dubbio.
Ma c'è un versante che è stato meno analizzato. Dal luglio del 1981 Calvi aveva iniziato un processo di rottura con gli ambienti della P2 e durante la detenzione a Lodi aveva manifestato la disponibilità a collaborare con i giudici, parlando dei rapporti tra la P2 e la politica (in particolare con i socialisti).
Far entrare nel capitale dell'Ambrosiano un imprenditore che godeva di un'ottima immagine (De Benedetti era stato nominato da poco «imprenditore dell'anno» e controllava «la Repubblica» e «L'espresso») poteva essere un'opzione vincente. Qualcuno, però - forse la componente piduista della massoneria - gli aveva detto che avrebbe dovuto ripensare a quella scelta.
Già durante un incontro del 21 novembre 1981 (due giorni dopo l'accordo) nella villa di Calvi, a Drezzo, il banchiere inizia a lanciare messaggi ambigui all'ingegnere.«Sembrava un animale impaurito che cercasse di sfuggire alla luce. Ovviamente qualcuno o qualcosa gli aveva suggerito di abbandonare l'associazione con De Benedetti», osserva un fine analista, Rupert Cornwell. Così, dopo l'incontro del 21 novembre, la situazione tra Calvi e De Benedetti si deteriora rapidamente.
«Poco prima della riunione del consiglio di amministrazione [del Banco, Nda] del 6 dicembre 1981 Calvi aveva preso da parte De Benedetti in un corridoio: "Stia attento, la P2 sta raccogliendo informazioni su di lei. Le consiglio di fare attenzione, perché io so"», racconta Cornwell. Era una minaccia o una disperata richiesta di aiuto?
Emilio Pellicani, nel suo memoriale, rivela un dettaglio interessante: «L'onorevole Armando Corona [che sarebbe diventato Gran Maestro del Goi pochi mesi dopo i fatti di cui si narra, nel marzo 1982, Nda] doveva intervenire con il vicepresidente del Banco, De Benedetti, il quale stava procurando qualche fastidio a Calvi. A tale proposito Carboni mi riferì che lo stesso Corona effettuò un viaggio in Israele, affinché fosse richiamato il De Benedetti dai fratelli massonici; tale richiamo sfociò, sempre a detta del Carboni, nell'uscita del De Benedetti, clamorosa, dal Consiglio del Banco Ambrosiano».Pellicani aggiunge un altro dettaglio rivelatore: «Mazzotta [Maurizio Mazzotta, l'assistente di Francesco Pazienza, Nda] disse al Carboni che doveva preoccuparsi anche del fatto che non accadesse nulla al De Benedetti».


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Carlo De Benedetti, indagine su plusvalenze in Borsa nei giorni del ...
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C'è il nome di Carlo De Benedetti in un'informativa della Guardia di finanza che riguarda plusvalenze sospette, in Borsa, sulle banche popolari ...
Carlo De Benedetti, indagine su plusvalenze in Borsa nei giorni del decreto del governo sulle Popolari - Il Fatto Quotidiano

Nuova bomba Etruria: è coinvolto anche De Benedetti, 8 milioni In ballo. Il PD che dice?


La procura di Roma accende i fari sul ruolo dell’Authority. Tra le “sofferenze” che hanno fatto collassare l’istituto anche 8 milioni della controllata dell’Ingegnere.
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Non solo Arezzo. Mentre nella città toscana il procuratore capo Roberto Rossi prosegue con il pool di pm il lavoro sui numerosi filoni di indagine su Banca Etruria (compresa l’inchiesta per truffa ai danni dei risparmiatori), la procura di Roma accende le luci sull’operato della Consob.




Assecondando di fatto i desiderata degli «esodati del risparmio», rimasti fregati dal decreto salva banche del governo, e le associazioni di cittadini. Adusbef e Federconsumatori ieri hanno presentato esposti contro la Consob in nove diverse procure – Roma, Firenze, Ancona, Arezzo, Chieti, Macerata, Ferrara, Pesaro e Milano – sostenendo che Vegas e i suoi siano responsabili almeno in parte del fragoroso crac delle quattro banche popolari a causa dei mancati controlli.
Se a Roma si valuta dunque l’omessa vigilanza di chi avrebbe dovuto evitare il patatrac, cominciando a fare le pulci ai controllori (ma secondo il Tempo allo stato attuale nel fascicolo, affidato al pubblico ministero Stefano Pesci, non vi sarebbero né indagati né ipotesi di reato), scavando tra i debiti che hanno fatto collassare Banca Etruria, tra yacht e finanziamenti azzardati o fidi in conflitto di interesse a società legate agli stessi amministratori, saltano fuori altre sorprese.
Una delle quali porta il nome eccellente della Cir di Carlo De Benedetti. La questione riguarda Sorgenia, l’operatore del mercato dell’energia che fino a marzo scorso era controllato dal gruppo Cir (65%) e dalla società austriaca Verbund.
In pochi anni Sorgenia aveva accumulato una montagna di debiti che sfiorava i due miliardi di euro. Nonostante i risultati niente affatto lusinghieri, la società controllata dalla holding di De Benedetti e dal socio austriaco aveva però continuato a godere di generosi finanziamenti dal mondo creditizio. Tanto che, alla fine, il debito monstre di Sorgenia se lo divideva un pool di banche. Che dopo un accordo con Cir e Verbund ha offerto all’ingegner De Benedetti una sospirata exit strategy, anche grazie a un «aiutino da parte del governo, che aumentando il fondo destinato a finanziare gli incentivi per gli operatori dell’energia disposti ad aumentare la produzione quando necessario, aveva reso il «Salva-Cir» più appetibile per gli istituti di credito coinvolti. Morale, alle banche è rimasta Sorgenia (con tutti i suoi debiti), mentre l’editore del Gruppo Espresso/Repubblica, oltre a liberarsi di una rogna (che gli ha permesso di ridurre il rosso nei conti Cir a fine bilancio 2014), spetta anche una quota del 10 per cento della eventuale plusvalenza che le banche dovessero ricavare da una cessione della società. Tra le 21 banche che sostenevano il debito Sorgenia molte erano nei guai. Dalla capofila Mps fino alla Popolare di Vicenza. E a banca Etruria, esposta per 8 milioni di euro. Una delle «sofferenze» che hanno affossato la banca dell’oro di Arezzo. Il prezzo del crac è finito sulle spalle di azionisti e obbligazionisti subordinati. Che pagano anche per gli errori dei soliti noti che sono stati salvati. Il tutto, tra l’altro, era ampiamente previsto. A dicembre 2013 Bankomat, anonima «firma» di Dagospia, proprio riguardo all’esposizione in Sorgenia delle popolari (tra cui Etruria) scriveva: «Si preparano nuove perdite e sofferenze per le banche, che in realtà pagheranno altri (…) Ma le popolari non erano banche del territorio, vicine a Pmi e alle famiglie? Alla famiglia De Benedetti, verrebbe da dire guardando Sorgenia».
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Il sovranismo energetico e la corsa privilegiata di F2i per accaparrarsi Sorgenia
Il fondo infrastrutturale ha fatto un passo indietro, ma in realtà è una mossa da poker. Anzi, ha anche presentato una richiesta di esclusiva, poi rifiutata. Ma tra gli operatori nasce il sospetto che sia le banche sia la società potrebbero favorirlo, anche per lasciare le centrali in mani pubbliche


Il sovranismo energetico e la corsa privilegiata di F2i per accaparrarsi Sorgenia - Linkiesta.it

È ormai cominciato il countdown nella corsa per l’acquisizione di Sorgenia, la società energetica fondata dalla Cir del gruppo De Benedetti e poi finita in mano alle banche, con un debito che ancora oggi tocca quota 800 milioni di euro. Entro il 16 dicembre sono attese le offerte vincolanti per la spa guidata dall’ad Gianfilippo Mancini e dal presidente Chicco Testa.
In lizza ci sono A2A, che concorre insieme al gruppo energetico Eph, Iren, Acea, i tedeschi di Rwe ed E.on, e il fondo F2i. E negli ultimi metri della corsa, si gioca di tattica. E a farlo è soprattutto F2i, il fondo di proprietà – tra gli altri – di Cdp, Unicredit e Intesa, della cui partecipazione alla gara si è venuti a conoscenza in ritardo, ma che da subito è sembrato il concorrente favorito per acquisire la società. Salvo poi, a meno di un mese dalla scadenza, far trapelare ai giornali – il Messaggero – di volersi ritirare dalla corsa. Un passo indietro che, secondo gli addetti del settore, sarebbe in realtà un bluff giocato dal fondo per far rilassare gli altri compratori, rendere la gara meno competitiva, e poi tagliare a sorpresa il nastro al fotofinish.

E in effetti nei mesi scorsi F2i è sembrata tutt’altro che disinteressata all’acquisizione di Sorgenia. Anzi, per il fondo infrastrutturale assistito da Mediobanca, in alcuni ambienti si parlava già di «deal fatto» con l’obiettivo di far rimanere la società in mani pubbliche, forse anche per scoraggiare gli altri compratori e portarli a gettare la spugna.
Su Sorgenia, oggi controllata dai principali gruppi bancari italiani – Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps, Ubi e Banco Popolare – si gioca in effetti una partita più complessa. I quattro impianti a gas del gruppo sono tra i più moderni in Europa e saranno tra gli asset chiave nella transizione energetica italiana, tanto da non volerli farli finire in mani private, preferendo così la longa manus statale (che tanto va di moda in questo periodo) rispetto a un possibile investitore, italiano o straniero.

Senza dimenticare che le stesse banche azioniste di Sorgenia finanziano anche il fondo F2i, partecipato per il 14% da Cdp, per il 20% da Intesa e Unicredit e per il 25% dalle fondazioni bancarie (il resto è diviso tra fondi sovrani e casse di previdenza). Tanto da far sorgere il sospetto di una possibile asimmetria nell’operazione, considerato che le stesse banche proprietarie di F2i potrebbero offrire condizioni di finanziamento migliori al fondo infrastrutturale, mantenendo così di fatto il controllo su Sorgenia.

F2i, dicevano i più informati, sarebbe anche il compratore privilegiato per la stessa Sorgenia perché – essendo un fondo – lascerebbe al management piena autonomia decisionale. Al contrario delle altre società private in lizza, che potrebbero non avere bisogno del management di Sorgenia per gestirla.
 

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