Il trattamento di fine servizio (TFS) pagato a rate è illegittimo. Lo sostiene il Tar del Lazio che chiede alla Corte Costituzionale di intervenire per modificare la legge che ne statuisce la rateizzazione.

Come noto, dal 2014 la liquidazione della buonuscita dei dipendenti pubblici, oltre che avvenire dopo 12 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, è anche dilazionata. In alcuni casi anche in tre rate annuali.

Pagamento TFS a rate

Secondo quando disposto dalla legge di bilancio del 2014, il TFS è pagato in unica soluzione solo fino a un certo importo.

La soglia limite è 50.000 euro lordi (prima era di 90.000). Qualora la somma spettante eccedesse tale importo, l’ente di previdenza liquiderà il trattamento di fine servizio in due o più rate annuali.

Così, ad esempio, se il TFS a calcolo è pari a 130.000 euro, la prima rata da 50.000 euro è corrisposta entro 12 mesi. Mentre la seconda rata, sempre di pari importo, a distanza di un anno. E la terza e ultima rata da 30.000 euro a distanza di altri 12 mesi.

Aspetto questo che non ha mancato di sollevare polemiche a tutti i livelli della pubblica amministrazione. In quanto nel settore privato il pagamento del TFR avviene subito e in unica soluzione.

Cosa dice il Tar del Lazio

Secondo l’ordinanza n. 6223 del 17 maggio 2022, il TAR del Lazio ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale del pagamento rateale del TFS ai dipendenti pubblici. Secondo i giudici amministrativi le indennità di fine rapporto

costituiscono parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, la cui corresponsione viene differita – appunto in funzione previdenziale – onde agevolare il superamento delle difficoltà economiche che possono insorgere nel momento in cui viene meno la retribuzione

In questo senso la legge che impone la dilazione del pagamento del TFS, oltre che l’attesa di almeno 12 mesi, si scontra con il dettato dell’art.

36 della Costituzione. Esso statuisce che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del suo lavoro. E in ogni caso sufficiente ad assicurare e a sé ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa.

Ne deriva l’illegittimità della disposizione con la quale dal 2014 si costringe il lavoratore che cessa il rapporto di lavoro nella pubblica amministrazione ad attendere 12 mesi prima di ottenere quanto  gli spetta. Ma anche a dover attendere ulteriori anni per ricevere integralmente la somma calcolata se supera i 50 mila euro.