La sanatoria dei migranti è stato un buco nell’acqua. E non solo nell’acqua, anche nelle casse dello Stato dove mancano all’appello circa 2 miliardi di euro.

La sanatoria migranti, fortemente voluta dalla ministra alle Politiche Agricole Teresa Bellanova, varata con il decreto Rilancio, non ha riscosso il successo tanto atteso. Sia per quanto riguarda la regolarizzazione di migliaia di colf e badanti con permessi scaduti. Sia per quanto riguarda l’assunzione regolare di migliaia di braccianti in nero. Secondo le stime della Bellanova, l’operazione doveva raccogliere circa 3 miliardi di euro, ma al 15 agosto è stata incassata meno di un terzo della cifra preventivata.

Il disastro sanatoria sui migranti

Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio nazionale Domina che si occupa delle statistiche del lavoro domestico, più di un milione tra colf e badanti continua a lavorare in nero in Italia. Fino al 15 agosto le domande di sanatoria migranti presentate erano poco più di 207 mila, contro le 600 mila previste dal governo. Di queste, circa 177 mila riguardano il lavoro domestico, mentre solo 30 mila i braccianti agricoli, quelli che la ministra per l’Agricoltura voleva a tutti i costi mettere in regola. Con la clausola del versamento di 500 euro a titolo di sanzione (più contributi da versare all’Inps) da parte del datore di lavoro con annessa autodenuncia.

Importi economici importanti che non solo porterebbero benefici al nostro sistema fiscale, ma che consentirebbero anche alle famiglie datori di lavoro domestico ed ai lavoratori stessi di vivere il rapporto di lavoro con maggiori tutele e garanzie“,

spiega Lorenzo Gasparrini, segretario generale Domina, a commento dei dati raccolti dalla relazione. Numeri, quindi, ben lontani dai 600 mila stranieri irregolarmente presenti in Italia e che il Ministero delle Politiche Agricole pensava di regolarizzare con la sanatoria.

Cosa non ha funzionato

Ma cosa non ha funzionato nella sanatoria migranti? In primo luogo a intralciare la procedura di regolarizzazione è stata la burocrazia derivante dal decreto Rilancio.

La legge ha infatti fissato alcuni requisiti tassativi da possedere per fare domanda di regolarizzazione, come quello di dimostrare che si stava già in Italia prima dell’8 marzo 2020. Non solo, la norma prevedeva anche che non bisognava aver lasciato l’Italia dopo l’8 marzo 2020. Le domande andavano quindi presentate in uffici diversi a seconda se si trattava di cittadini comunitari (presso l’Inps) o extracomunitari (presso le Questure). E come se non bastasse, il datore di lavoro si sarebbe autodenunciato stipulando un regolare contratto retroattivo di lavoro subordinato. Con tanto di retribuzione convenuta non inferiore a quella prevista dal contratto collettivo di lavoro di riferimento.

Il costo della procedura

Ma al di là dell’aspetto burocratico, quello che ha frenato di più è stato il costo della procedura. Ben 500 euro a carico del datore di lavoro. Oltre a un forfait per i contributi pregressi nel caso il datore di lavoro avesse voluto regolarizzare una posizione finora in nero. Soldi che avrebbe dovuto versare direttamente il lavoratore qualora non ci fosse stato un datore di lavoro o ce ne fossero stati più di uno. In questo caso il migrante avrebbe dovuto presentare la domanda da solo presso la Questura chiedendo un permesso di lavoro temporaneo della durata di 6 mesi finalizzato alla ricerca di un lavoro. In difetto, il permesso temporaneo sarebbe scaduto, il migrante sarebbe tornato nella clandestinità e i soldi non sarebbero stati restituiti. Oltretutto sarebbe stato identificato e schedato in maniera tale da essere più facilmente raggiungibile da provvedimenti di espulsione.