Andare in pensione prima del previsto, sfruttando uno dei tanti canali di uscita anticipata previsti è senza dubbio il sogno o l’aspirazione di ogni lavoratore. Ma siamo sicuri che conviene? Infatti analisi e calcoli dimostrano come alcune volte non converrebbe anticipare l’uscita dal lavoro. Pensione anticipata che diventerebbe l’unica strada da percorrere solo per chi non ha alternative.

“Buonasera, sono un lavoratore dipendente che ha appena completato i 41 anni di contributi versati. Avendo 63 anni di età compiuti, potrei avere accesso alla quota 103.

Ma ho paura delle penalizzazioni e dei tagli di assegno rispetto ai 67 anni. Se non mi conviene potrei restare al lavoro. Mi riferisco a tagli di assegno e al fatto che perdo il TFR che ho maturato nei 30 anni di lavoro consecutivi con la mia attuale azienda.”

Andare in pensione prima ma conviene o no?

Andare in pensione prima del previsto, o per lo meno, anticipare la quiescenza prima di arrivare a 67 anni di età non può dare la stessa pensione. Una ovvietà questa, perché ci sono motivi oggettivi da considerare.  Il trattamento previdenziale è sicuramente più basso, e questo prescinde dalla misura utilizzata per anticipare il pensionamento. Può essere la quota 103 piuttosto che la pensione anticipata contributiva a 64 anni. Ma lo stesso ragionamento può essere per opzione donna, la quota 41 precoci e l’Ape sociale. Eppure, statistiche alla mano, su quasi 800mila nuovi assegni pensionistici erogati dall’INPS nel 2022 appena passato, una pensione su tre è stata liquidata tramite misure di pensionamento anticipate e differenti da quella di vecchiaia. Naturalmente molto cambia a livello di convenienza ad andare in pensione prima, in base al profilo del lavoratore. C’è chi per esempio perde il lavoro e non ha altro per arrivare a fine mese. E poi c’è chi svolge un lavoro talmente logorante che ad una certa età la permanenza in servizio diventa un rischio per la salute.

Variabili a livello di convenienza però ce ne sono anche in base alla misura utilizzata per andare in pensione prima.

La nuova quota 103, le sue limitazioni e perché a molti non conviene

Accedere a quota 103 è una facoltà aperta fino al 31 dicembre 2023 per chi completa i 41 anni di contributi versati e raggiunge almeno i 62 anni di età. Senza considerare il fatto che la misura, come le precedenti quota 100 e quota 102, prevede il divieto di cumulo dei redditi da lavoro con quelli di pensione (escluso il lavoro autonomo occasionale fino a 5.000 euro annui), le penalizzazioni di quota 103 sono tante. Innanzi tutto rispetto alla pensione anticipata ordinaria, la carriera verrebbe interrotta per gli uomini circa 3 anni prima. Uscire a 41 anni di contributi e non a 42,10 una differenza la deve per forza produrre. Parliamo pur sempre di circa 3 anni in meno di contributi. E ogni contributo in più che finisce nel montante contributivo, genera un trattamento più elevato. Inoltre, uscire a 62 anni e non a 63, 64 o addirittura a 67 anni, penalizza l’assegno per un altro motivo. Parliamo dei coefficienti di trasformazione. Sono i parametri con cui il montante contributivo (l’insieme dei versamenti del lavoratore), viene trasformato in pensione. Più alta l’età di pensionamento, più alto il coefficiente e di conseguenza, più alta la pensione percepita.

Cos’è il limite delle 5 volte il trattamento minimo INPS

Per capire la differenza sul calcolo della pensione rispetto all’età di uscita i coefficienti 2023 sono un esempio pratico. Partendo dall’età minima di quota 103, cioè dai 62 anni di età, i coefficienti validi nel 2023 sono:

  • 62 anni 4,88%;
  • 63 5,03%;
  • 64 5,18%;
  • 65 5,35%;
  • 66 5,53%;
  • 67 5,72%.

Per la quota 103 alle evidenti penalizzazioni di assegno se ne aggiungono altre due molto importanti e poco note. Non sarà quello che subiscono le donne con l’opzione donna che taglia l’assegno anche del 30% per via del ricalcolo contributivo obbligatorio della pensione.

Ma non vanno sottovalutate le limitazioni di quota 103. La misura infatti non può arrivare ad un assegno superiore a 2.800 euro lordi al mese. Infatti per la nuova quota 103 vige il limite delle 5 volte il trattamento minimo INPS. Inoltre è stato confermato dall’INPS con una recente circolare, che il lavoratore che esce con la quota 103, non potrà ricevere il TFR spettante se non arriva a 67 anni di età. In pratica il TFR viene posticipato all’età pensionabile della pensione di vecchiaia ordinaria.

Ape sociale poco conveniente, perché più assistenziale che previdenziale

Ancora peggio è ciò che offre l’Ape sociale. La misura, anche se rientra nel novero delle misure previdenziali, avendo una soglia di contributi da versare per l’accesso, ha una spiccata caratteristica assistenziale. Anzi, ne ha diverse. In primo luogo per le categorie a cui la misura si applica. Infatti l’Ape sociale riguarda chi ha problemi di salute (invalidità minima 74%). Oppure chi ha problemi di famiglia (caregivers con un parente invalido convivente da assistere). O ancora, chi ha problemi di lavoro perché lo ha perso (i disoccupati) o perché ne svolge uno particolarmente pesante (lavori gravosi). Possono uscire, in base alla categoria di appartenenza i soggetti con non meno di 63 anni di età compiuti, ed una carriera tra i 30 ed i 36 anni di versamenti. Ma la misura ha diversi limiti. Non può superare i 1.500 euro al mese. Inoltre non è reversibile a causa di prematuro decesso del beneficiario. E poi, non prevede maggiorazioni sociali, assegni per il nucleo familiare, tredicesima e non si adegua al tasso di inflazione annualmente.