Le pensioni future subiranno un taglio. A stabilirlo non è il governo ma una vecchia legge dello Stato, quella varata nel 1995 dall’allora presidente del Consiglio Lamberto Dini.

In buona sostanza chi andrà in pensione nei prossimi anni si vedrà l’assegno decurtato rispetto a chi la pensione già la percepisce. La grave recessione economica causata dalla pandemia metterà infatti alle strette chi si appresta ad andare in pensione nel 2022-2023 e oltre, poiché la decrescita economica influirà sul calcolo delle rendite.

La rivalutazione del montante contributivo

La rivalutazione del montante contributivo di ciascun lavoratore, cioè di tutti i versamenti effettuati durante la carriera lavorativa, è legata all’andamento del Pil nazionale. In parole semplici, più questo sale, maggiore sarà l’assegno pensionistico, ma se scende anche il valore della pensione si adeguerà. Stando alla riforma Dini, infatti, il montante contributivo accumulato dal 1996 in poi è soggetto a rivalutazione media quinquennale legata all’andamento del Pil. In fase di liquidazione della pensione, l’Inps o altro ente di previdenza, applica un coefficiente al montante, detto anche coefficiente di trasformazione, calcolato appunto sulla variazione media della crescita economica del Paese. Per il 2019-2020 questo coefficiente è pari al 5,60% per chi decide di lasciare il lavoro a 67 anni, cioè al raggiungimento dei requisiti di vecchiaia (il valore scende al decrescere dell’età di pensionamento). Dal 2012, viene aggiornato ogni tre anni e il prossimo aggiornamento è previsto a partire dal prossimo anno quando verrà recepita anche la variazione del Pil negativo.

Il sistema di calcolo contributivo

Ma, al di là degli aspetti tecnici, quello che è bene sapere è che l’assegno pensionistico che verrà liquidato nei prossimi anni sarà inferiore per due motivi. Il primo,come detto, è legato appunto alla crescita del Pil che vedrà il montante contributivo crescere meno rispetto alle attese (l’incremento non potrà comunque essere inferiore al 1% su base annua, ma le variazioni negative dovranno essere spalmate e recuperate sugli anni a venire).

Il secondo è determinato dal sistema di calcolo che ormai vede quasi tutte le pensioni future liquidabili col sistema contributivo puro o misto. In pratica, la parte di pensione calcolata sui i contributi versati dal 1996 in poi sarà inferiore rispetto allo stesso periodo calcolato prima del 1996, cioè nel sistema retributivo. Il risultato finale è che l’assegno sarà eroso, non solo da un sistema di calcolo più penalizzante, ma anche dalla rivalutazione decrescente del montante per la parte contributiva dei versamenti. In pratica è come se un libretto di risparmio non fruttasse più interessi e, anzi, il capitale rischiasse di svalutarsi. E più passa il tempo, maggiori saranno i lavoratori coinvolti con assegni sempre più bassi.

Il taglio delle pensioni

Ma torniamo alla rivalutazione del montante e ai coefficienti di trasformazione. Posto che la crescita dei Pil italiano sarà negativa o nelle migliori delle ipotesi anemica per i prossimi anni, a quanto potrebbe ammontare la riduzione dell’assegno nel giro di un anno? Secondo le simulazioni degli esperti, la perdita di rivalutazione del montante nella parte contributiva potrebbe sfiorare il 2,5%, con una perdita potenziale del 1,6% rispetto a quest’anno su una pensione di vecchiaia con 15 anni di contributi versati prima del 1996. Fatto 1.000 l’importo dell’assegno, si tratterebbe di 16 euro al mese. Ma è evidente che, per effetto di quanto spiegato sopra, il passare del tempo non gioca a favore dei futuri pensionati che potranno solo sognare gli assegni percepiti dai loro genitori. A meno che il legislatore non intervenga per salvaguardare gli interessi dei lavoratori. Ma con un debito pubblico alle stesse, quanto spazio di manovra ci sarebbe?