E’ ancora troppo presto per parlare di riforma pensioni. Anzi, è probabile che per il 2024 non se ne farà nulla, salvo trovare qualche piccolo aggiustamento qua e là come già avvenuto lo scorso anno. Aggiustamenti che equivalgono più che altro a ulteriori tagli alle uscite anticipate.

Quota 103 terminerà il 31 dicembre e Quota 41, che la Lega spinge con insistenza potrebbe non vedere la luce né nel 2024 né più avanti. Ha un costo troppo elevato e non risolverebbe, in concreto, molto perché già con le regole ordinarie si può andare in pensione con 41-42 anni e 10 mesi di contributi.

Cosa succederà quindi?

Pensioni: dal 2024 si torna alla Fornero

Se le previsioni non cambiano, dal 2024 si tornerà integralmente alla regole Fornero per tutti. Resteranno in piedi solo alcune deroghe riservate ai lavoratori in difficoltà, ma niente di più. Il settore privato potrà comunque beneficiare ancora per due anni, in molti casi, degli scivoli previsti dai contratti di espansione e dell’isopensione. Per gli statali, invece, non ci saranno altre scappatoie.

Sul punto il Ministro dell’Economia Giancarlo Girogetti è stato chiaro:

Nella prossima Manovra il governo non potrà contare su risorse infinite e le priorità sono già state individuate: rendere strutturale il taglio del cuneo, avviare la riforma fiscale e adottare misure in ottica natalità”.

Il che lascia intendere che le pensioni (anticipate) non sono e non possono essere una priorità. Alla luce, soprattutto, dell’impegno di spesa che lo Stato dovrà sostenere per rivalutare gli assegni colpiti da una inflazione che non accenna a scendere. Si parla di altri 20 miliardi di euro da stanziare con la legge di bilancio.

Per Quota 41 poco spazio di manovra

Immaginare, quindi, che si possa attuare Quota 41 liberamente senza tener conto dei vincoli di spesa è impossibile. Anche se Pil italiano dovesse improvvisamente salire del 5%. Lo dimostra l’attuazione di Quota 103 per quest’anno che prevede l’uscita con 41 anni di contributi a patto che si abbiano almeno 62 anni di età e un importo di pensione che non sia superiore a 5 volte il trattamento minimo.

Paletti che la dicono tutta sulle difficoltà di attuare una simile riforma. Sicché, al limite si potrebbe concedere la pensione con 41 anni di contributi a patto che si opti per il regime di calcolo contributivo dell’assegno. Un po’ come avviene per Opzione Donna. Ma già i sindacati si sono espressi contrari.

Più precisamente, il ricalcolo contributivo della pensione per chi avrà 41 anni di lavoro alle spalle senza interruzione avrà una ricaduta minimale sull’importo della pensione, benché penalizzante. Sarebbero infatti solo 12 gli anni di contribuzione su 41 da migrare, circa il 30%. Percentuale che tenderà a diminuire col passare degli anni fino ad azzerarsi nel 2036.

Un altro anno con Quota 103?

Tuttavia, anche se è presto per dirlo, trapelano indiscrezioni sulla possibilità di proroga di Quota 103 di un anno. In assenza di interventi si potrebbe anche puntare a rinnovare l’uscita dei lavoratori a 62 anni di età con 41 anni di contributi. Anche perché il bacino di utenza è relativamente basso, circa 44 mila beneficiari per quest’anno, quindi peserebbe poco sui conti dell’Inps.

Ma anche perché da questa deroga pensionistica lo Stato sembra riuscire a trarre numerosi vantaggi economici. In primo luogo perché c’è il divieto di cumulo con altri redditi da lavoro il che fa desistere molti lavoratori autonomi. E poi, perché c’è un tetto all’importo della pensione.

La legge prevede, infatti, una soglia limite dell’assegno fino 2.840 euro al mese (cinque volte il trattamento minimo). Cifra che al netto delle imposte è di circa 2.000 euro al mese. Se si considera che tale limite è valido fino al raggiungimento dei requisiti per la vecchiaia a 67 anni, la penalizzazione può durare anche 5 anni.

E’ questa una delle ragioni che fa desistere i lavoratori a rinunciare a Quota 103 o, in alternativa, ad accettarla con sacrificio più o meno consistente.