Bastano 20 anni di contributi per poter andare in pensione? La risposta non può che essere affermativa, anche se per completezza di informazione va detto che serve avere anche la giusta età in base alla misura che può essere centrata. Infatti non esiste una sola prestazione pensionistica che consente di uscire dal lavoro già con 20 anni di contributi, ma anche nel 2023 ne contiamo almeno 3. E sono misure che prevedono delle età variabili oltre che requisiti pensionistici profondamente differenti.

“Buonasera mi chiamo Luca e sono un lavoratore che ormai va dritto verso i 20 anni di contribuzione versata.

Ho 64 anni di età e mi chiedevo quando potrò lasciare il lavoro dal momento che ho una carriera e dei contributi non certo lunghi. Mi chiedo se davvero non riuscirò in nessun caso ad accedere alle pensioni anticipate di cui tanto si sente parlare. Volevo sapere se è l’unica via di uscita sarà quella a 67 anni di età o se potrò accedere alla pensione con qualche anno di anticipo sempre che la legge lo consenta.”

 

La pensione a 64 anni di età con 20 anni di contributi nel 2023, ma come funziona?

Pensioni con 20 anni di contributi, ecco 3 misure valide nel 2023 dai 56 ai 67 anni

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A primo impatto per rispondere al nostro lettore non poteva che balzarci agli occhi la sua età anagrafica. Dice di avere 64 anni di età e quindi potrebbe benissimo entrare di diritto tra quanti possono accedere alla pensione anticipata contributiva. Naturalmente non basta l’età, perché servono altri requisiti. Ma il requisito contributivo è piuttosto basso, pari a 20 anni di versamenti. Va detto al nostro lettore come a qualsiasi altro che si trova in quelle condizioni, che se il primo contributo versato è successivo alla data del 31 dicembre 1995, non si è sicuri di andare in pensione nemmeno a 67 anni.

Infatti la pensione di vecchiaia per chi è un contributivo puro (soggetto privo di accrediti previdenziali prima del 1996), si centra a 67 anni di età e con almeno 20 anni di contributi, ma con un assegno pari ad almeno 1,5 volte l’assegno sociale.

La data del 31 dicembre 1995 è importante perché segna la parola fine al metodo retributivo, o forse è meglio dire inizio del sistema contributivo. Entrò in vigore infatti la famosa riforma Dini.

Perché a volte non bastano 64 anni di età e 20 anni di contributi

La pensione anticipata contributiva, come si evince dal suo nome è una misura che riguarda proprio i contributivi puri. Ma non basta aver iniziato la carriera dopo il 1995 e non basta avere 64 anni di età già compiuti e 20 anni di contribuzione già versata. Serve anche che la pensione sia liquidata alla data di uscita in misura non inferiore a 2,8 volte l’assegno sociale. Senza il completamento di tutti questi requisiti, niente pensione a 64 anni di età quindi.

Con 20 anni di contributi la pensione di vecchiaia canonica

Sempre nel 2023 e sempre con 20 anni di contribuzione versata la via più semplice resta quella della pensione di vecchiaia ordinaria. Naturalmente al netto di quanto detto prima per la pensione dei contributivi puri, che a 67 anni non sarebbero sicuri di uscire se non con una pensione di un determinato importo. Per gli altri lavoratori la pensione di vecchiaia si centra con 67 anni di età e con 20 anni di contributi minimi da completare. E questo varrà anche nel 2023, perché la misura è rimasta inalterata. Senza adeguamenti alle aspettative di vita della popolazione e senza finestre di attesa per la decorrenza del primo rateo.

Invalidità specifica e pensione a 56 o 61 anni

Finestre di attesa che invece sono importanti per la terza misura che permette il pensionamento già con 20 anni di contribuzione versata. Parliamo della pensione con invalidità pensionabile.

Una misura che consente di anticipare l’uscita già a partire dai 56 anni di età per le donne e a partire dai 61 anni di età per i lavoratori maschi. Per via della finestra la pensione parte da 57 e 62 anni, sempre rispettivamente per donne e uomini. L’invalidità pensionabile deve essere pari ad almeno l’80%. Ma che significa precisamente invalidità pensionabile? In gergo tecnico si chiama anche invalidità specifica, ed è quella disabilità che finisce con la riduzione della capacità lavorativa del diretto interessato, in misura non inferiore ai 4/5.

Ma la riduzione della capacità di lavorare del diretto interessato deve essere specifica per il lavoro che lui stesso svolge. In pratica non serve l’invalidità civile classica. Tanto è vero che non basta essere riconosciuti invalidi almeno all’80% dalla solita Commissione Medica per le Invalidità Civili delle ASL. Serve il riconoscimento delle commissioni accertatrici dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale italiano.