La pausa caffè durante l’orario di lavoro è diventata ormai una abitudine consolidata tutta italiana. E’ quasi un rito che, in certi momenti della giornata, aiuta a rigenerare mente e corpo. Giusto concederla, sbagliato approfittarsene.

E’ opportuno, però, distinguere fra datore di lavoro privato e pubblico. Il primo, può essere più tollerante, ma anche più cinico nei confronti dei propri dipendenti. Il secondo deve rispondere a regole ben precise e a volte gli scandali balzano agli onori della cronaca.

Quando è tollerata la pausa caffè

Come noto, nella pubblica amministrazione, se ci si allontana dal posto di lavoro senza giustificato motivo o senza timbrare il badge, si incorre in un reato.

Quello di truffa ai danni dello Stato, punibile anche con il licenziamento.

Orbene, se l’assenza ingiustificata deriva da una pausa caffè di pochi minuti o per acquistare delle sigarette dal tabaccaio più vicino, è tollerata dalla prassi comune. Molti dirigenti pubblici chiudono un occhio sul comportamento dei dipendenti, non senza averli giustamente richiamati verbalmente.

Diverso è il caso in cui un dipendente statale si allontana con la scusa della pausa caffè, senza timbrare il cartellino e senza rientrare immediatamente sul posto di lavoro. Sono frequenti i casi in cui le forze dell’ordine individuano lavoratori atti a fare commissioni di ogni tipo o seconde attività durante il lavoro.

In questo caso, la tolleranza non può essere contemplata dalla prassi e la pausa caffè si trasforma in un escamotage per truffare il datore di lavoro. In questi casi sono gli stessi dirigenti pubblici a dover segnalare il caso alla Procura della Repubblica.

La posizione della Cassazione

Esaminando il caso di due dipendenti comunali che si erano allontanati dal posto di lavoro per andare al bar e per acquistare un pacchetto di sigarette, la Corte di Cassazione ha fatto chiarezza sulla pausa caffè.

In primo e secondo grado i due dipendenti erano stati condannati. I supremi giudici, però, hanno ammorbidito la sentenza trattandosi di bisogni della vita necessari. I lavoratori hanno agito, sì contravvenendo alle regole, ma per motivi abietti o futili.

L’errore non nasce da un istinto criminale, ma da una sorta di affidamento nella prassi o nella tolleranza dei superiori.

I giudici di legittimità hanno quindi confermato il reato, così come previsto dalla legge, ritenendo però lo stesso non punibile penalmente. Resta ovviamente a carico dei trasgressori l’obbligo di risarcire in solido il datore di lavoro per l’assenza ingiustificata sul posto di lavoro. Così come, da parte della pubblica amministrazione, deve attivarsi il procedimento disciplinare.