Correva l’anno 1951 quando la macchina da presa di Vittorio De Sica fissava su pellicola la rivisitazione del romanzo dell’amico e collaboratore Cesare Zavattini, “Totò il buono”. Novella che ben fotografava la condizione della popolazione negli ultimi anni di guerra, nel tono leggero di una fiaba ma con riferimenti precisi alle grandi città italiane, Milano in particolare. Ma se Zavattini aveva inquadrato non una città ma “la” città, convogliando nella fittizia Bamba tutte le caratteristiche e le contraddizioni delle metropoli dei primi anni Quaranta, a guerra finita De Sica mantiene solo il tono fiabesco del romanzo, indicando già nel titolo quale fosse il modello di riferimento.

E quel “Miracolo a Milano”, con i poveri meneghini che volano a cavallo di scope magiche verso il paese del vero buongiorno, diventa una lettura a metà tra il realismo (o meglio, il neorealismo) e l’ottimismo anche dei più umili di sperare sempre in una vita migliore. Buoni propositi in grado di far andare lo sguardo anche oltre le baraccopoli o i profili lontani della città industriale. Al di là di quell’ingranaggio sociale che stritola coloro non abbastanza fortunati da collocarsi tra la parte bene della grande città. Eppure solidali fra loro.

Il “nuovo” povero

Milano appare quasi come un centro gravitazionale. Attira il lavoro, l’industria, apparentemente le buone prerogative del sogno di stabilità. Eppure, come tutte le grandi città, riserva un lato oscuro difficilmente soggiogabile dai buoni propositi. E, anche se l’assetto sociale è diverso rispetto al secondo Dopoguerra, quella sensazione di annaspamento non sembra aver abbandonato il reticolo urbano all’ombra del Duomo. Sarà il momento storico o una caratteristica insita nel Dna cittadino, ma il quadro dipinto dalla Camera di Lavoro e dalla Cgil milanese riporta a galla quel concetto di miracolo che, se allora era in senso figurato, oggi sembra una necessità impellente.

C’è chi è senza lavoro persino a Milano, dicono, ma questa non è poi una vera notizia. Il problema reale è che anche coloro che lavorano, nella maggior parte dei casi, avrebbero bisogno di una scopa volante: almeno 340 mila lavoratori, infatti, percepiscono meno di 15 mila euro l’anno. E circa 350 mila hanno un reddito inferiore all’ammontare di un sussidio, si tratti di Naspi o Reddito di Cittadinanza. In pratica, anche i lavoratori sono poveri. E forse non solo per colpa dell’inflazione.

Il paradosso del reddito medio

C’è una contraddizione di fondo. L’Istat ha indicato come il reddito medio in Italia sia pari a 21.570 euro all’anno e come la città di Milano viaggi su un pro capite da circa 34 mila. Quasi il 28% del quale sarebbe nelle mani di poco più del 2% della popolazione. Questo significa che il restante è “gestito” da contribuenti non in grado di reggere il confronto con la classe, per così dire, dirigente. Fra operai e impiegati, il tempo pieno non è sempre garantito. E chi lavora in part-time, difficilmente va oltre i 12 mila euro l’anno. E non manca una discreta fetta di popolazione che percepisce misure di sussidio: il Reddito di Cittadinanza, ad esempio, è ad appannaggio di circa 23 mila nuclei familiari meneghini, circa il 45%. Lavoratori che percepiscono in media 500 euro al mese. Senza contare coloro che, pur disponendo di un impiego ordinario, si trovano costretti a svolgere un secondo lavoro per mantenere la linea di galleggiamento. Il tutto all’ombra di un sistema che, pure, inquadra il reddito percepito come accettabile. Il paradosso del nuovo povero. Altro che scopa magica…