Il licenziamento per lunga malattia è nullo. A stabilirlo è la Corte di Cassazione in una recente sentenza facendo chiarezza su un episodio che aveva interessato un lavoratore che si era assentato 7 mesi dal lavoro per malattia. Il datore lo aveva, infatti, licenziato al suo rientro con una discutibile motivazione dalla quale però si evinceva un atto ritorsivo nei suoi confronti.

Accade sovente che i datori di lavoro s’inventino motivazioni particolari per giustificare il licenziamento di un dipendente che si assenta spesso o per lunghi periodi a causa di malattia.

Si tratta di episodi che spesso portano alla risoluzione del contratto per giusta causa, ma che in realtà non attengono per niente alla causa in sé configurandosi più che altro atti discriminatori o di ritorsione. Il datore di lavoro, infatti, si vede danneggiato dall’assenza per lunghi periodi del lavoratore e ne può derivare, a tutti gli effetti, un danno economico difficilmente arginabile senza un’adeguata organizzazione aziendale.

Licenziamento nullo se l’atto è ritorsivo

D’altro canto, però, il lavoro è un diritto così come è un diritto sacrosanto quello di assentarsi per curarsi da malattia o infortunio. Tanto più che lo stato di malattia e la prognosi non è discrezionale o a scelta del lavoratore, ma stabilita dal medico curante che si assume la responsabilità delle cure del paziente. Anche a tutela degli interessi del datore di lavoro che deve avvalersi di personale di sana e robusta costituzione, così come certificato dal medico del lavoro all’atto dell’assunzione. Ne andrebbe, d’altro canto, della resa e della produttività dell’azienda.

Cosa dice la Corte di Cassazione

Ma torniamo alla decisione della Corte di Cassazione. I supremi giudici con sentenza n. 23583/2019 hanno stabilito che  se viene ravvisato l’intento ritorsivo del datore di lavoro nei confronti del dipendente al rientro dopo lunga malattia, il licenziamento è da ritenersi nullo.

L’onere della prova in questi casi spetta al lavoratore che dovrà dimostrare l’iniziativa datoriale non trova alcuna logica e sufficiente motivazione e per la quale non sussiste la giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro. Ciò può trovare conferma anche dalle testimonianze, dallo stato di servizio o dall’anzianità del lavoratore in azienda, dall’assenza di procedimenti disciplinari e da tutti quegli elementi atti a configurare un quadro favorevole al lavoratore in una eventuale causa di lavoro.

Il mobbing e le dimissioni

Ciò vale anche in caso di dimissioni a causa di peggioramento delle condizioni lavorative. Spesso l’atto ritorsivo del datore di lavoro non sfocia in un vero e proprio licenziamento al rientro dalla malattia, ma in prese di posizioni atte a spingere il lavoratore ad abbandonare il posto di lavoro tramite dimissioni. Si pensi ad esempio al mobbing le cui sfaccettature all’interno di un ambiente di lavoro sono svariate e molto efficaci per indurre una persona a lasciare il lavoro perché le condizioni sono diventate fisicamente e psicologicamente insopportabili. Il caso classico è il trasferimento del dipendente ad altre mansioni o in altre sedi lontane se l’azienda ne dispone. Il risultato, però, alla fine non cambia, perché se viene dimostrato che il lavoratore è stato indotto a dimettersi anziché subire il licenziamento, sarà comunque condannato – secondo l’orientamento dei Giudici – a risarcire il danno patito e a ottenere la reintegra sul posto di lavoro con le mansioni antecedenti l’assenza per malattia.