Fra gli obiettivi della riforma del mercato del lavoro c’è il salario minimo. Oggi più che mai estremamente necessario per recuperare potere di acquisto nei confronti del resto d’Europa. O quanto meno per spronare a rivedere la politica salariale.

Gli stipendi degli italiani sono, infatti, fra i più bassi d’Europa. Negli ultimi 30 anni le retribuzioni reali sono calate del 2,9%. Mentre sono cresciute del 31% in Francia e del 33% in Germania (dati Ocse). Cosa succede, è il salario minimo che manca?

In Italia gli stipendi più bassi d’Europa

Come noto, l’Italia è uno dei pochi Paesi fra i 27 dell’Ue a non avere un salario minimo.

Il che espone i lavoratori spesso al rischio di venire sfruttati per ciò che fanno. Una tendenza che è andata acuendosi col la precarizzazione del lavoro e l’introduzione di migliaia di forme contrattuali tutte diverse. Che conducono spesso a forme di sfruttamento.

Il che porta a radicate diseguaglianze dei redditi e a ingiustizie ormai diventate palpabili. Al punto che si può essere poveri pur lavorando. Diseguaglianze che – come sottolinea l’Inps – originano dal moltiplicarsi delle forme contrattuali (non solo dalla mancanza di un salario minimo), oggi pari a ben 1.011. Troppe e spesso non rappresentative. Spiega il presidente Pasquale Tridico:

“se si considerano i valori soglia del primo e dell’ultimo decile nella distribuzione delle retribuzioni dei dipendenti, per operai e impiegati, emerge che il 10% dei dipendenti a tempo pieno guadagna meno di 1.495 euro, il 50% meno di 2.058 euro e solo il 10% ha livelli retributivi superiori a 3.399 euro lordi”.

Salario minimo, la soluzione?

Ne consegue, al limite, che la distribuzione dei redditi all’interno del lavoro dipendente si è ulteriormente polarizzata. Con una quota crescente di lavoratori che percepisce un reddito da lavoro inferiore al reddito di cittadinanza.

Ci si chiede quindi se il salario minimo, per il quale c’è già l’accordo, sia veramente la soluzione al problema.

Oppure serve un riordinamento della contrattualistica per renderla più uniforme e meno dispersiva. Magari accompagnata da una diminuzione della pressione fiscale sulle fasce di reddito più basse.

Basterebbero pochi contratti nazionali ben strutturati. Lasciando poi alla contrattazione territoriale o aziendale la crescita dei redditi da lavoro correlata alla produttività dell’azienda. Oltretutto molti contratti sono scaduti e non recepiscono da troppo tempo le variazioni del costo della vita lasciando pieno arbitrio ai datori di lavoro di sfruttare la manodopera.

Questa modalità di gestione della contrattazione collettiva non ha riscontri simili in Europa ed è una delle cause, se non la principale, che penalizza l’evoluzione dei salari e riduce il potere di acquisto dei lavoratori.