Se i provvedimenti non cambiano il lavoro allora è il lavoro a cambiare sé stesso. Non è un proverbio e nemmeno una realtà consolidata. Ma un fenomeno interessante sì, se non altro per la progressiva diffusione fra le masse. A voler semplificare, il momento attuale del piano occupazionale non parla una lingua diversa dal passato. Accesso ristretto per i più giovani, soprattutto ai posti pubblici, e difficoltà nel lanciare un’attività propria. Con la differenza, rispetto ai tempi recenti, di una nuova tendenza che, a conti fatti, convoglia in sé tre fenomeni distinti.

L’obiettivo sembra quello della creazione di nuove tendenze ma, al contempo, le aziende sembrano tutt’altro che tranquille rispetto al trend in corso. Lo scopo di fondo è quello di rivoluzionare in modo silenzioso ma inesorabile il mondo del lavoro, rimpiazzando stress e sovraccarico con orari e stipendi più adeguati. Una parola, si potrebbe pensare. Eppure, fra il fenomeno delle “grandi dimissioni” e quelli cosiddetti quitfluencer e quiet quitting, i lavoratori spingono forte sull’acceleratore, in direzione di una maggiore stabilità e, soprattutto, di una migliore combinazione fra lavoro e welfare.

Grandi dimissioni: le ragioni del fenomeno

Il primo punto a cui fare attenzione è proprio quello delle dimissioni. I lavoratori hanno iniziato a mettere fine ai propri rapporti lavorativi, richiedendo un supporto finanziario a tutela della propria vita quotidiana. Un tema emerso in modo chiaro nella terza edizione della ricerca “Global Workforce of the Future” di Adecco Group, che opera proprio nell’ambito dei servizi di gestione delle risorse umane. Per il momento, a livello globale, il fenomeno riguarda circa il 27% dei lavoratori. I quali hanno già cambiato lavoro o lo cambieranno entro i prossimi 12 mesi. Nel report si evidenzia, come motivazione di base, il compenso percepito, ritenuto troppo basso. In Italia, ad esempio, più della metà dei lavoratori (addirittura il 61% dei dipendenti) non ritiene il salario all’altezza né dei propri sforzi sul lavoro né dell’ondata dei rincari dettata dall’inflazione.

E visto che il carovita è un problema globale, anche il fenomeno delle “grandi dimissioni” si sta allargando a macchia d’olio. Lentamente ma in modo sempre più netto. Il punto è che non sempre l’auspicata rivoluzione riesce. Anzi, la forbice fra chi riesce a ricorre a un nuovo lavoro (49%) e chi invece cade nei pagamenti in nero (35%) è assai sottile.

Compensi e orari

A ogni modo, almeno per quanto emerso dal report, i soldi sono solo uno dei punti del dibattito. Anche il regime di lavoro è sempre più spesso messo in discussione e i lavoratori hanno alzato il pressing affinché tra lavoro e vita privata ci sia un equilibrio maggiore. Basta ai turni massacranti a fronte di stipendi irrisori. E basta anche alla scarsa flessibilità dell’orario lavorativo. Anche perché, secondo lo studio, il lavoratore è più propenso a mantenere il posto quando fra stabilità e welfare domestico riscontra un buon equilibrio. Aumentando, di rimando, anche la produttività e le proprie performance. Questo non significa una scarsa volontà di prodigarsi sul lavoro ma di avere un riscontro assicurato fra i propri sforzi e il riconoscimento da parte del datore, sia questo in termini di retribuzione o di flessibilità oraria.

Quitfluencer e quiet quitting

Accanto alle dimissioni dettate da ragioni ponderate, però, si affiancano altri aspetti paralleli. In primis il fenomeno del quitfluencer, ossia prendere in considerazione il licenziamento dopo averlo visto fare ad altri. Fra chi lo pensa e basta e chi effettivamente arriva a farlo, corre una percentuale risicata: i primi sono il 70%, i secondi il 50%. Per quanto riguarda il quiet quitting, invece, si ragiona sui comportamenti piuttosto che su un passo effettivo come le dimissioni. Niente licenziamento ma un approccio più lassista, limitandosi a svolgere l’essenziale, senza distinguersi né impegnarsi in modo particolare.

Uno status forse ancora più avvilente, sia per chi lavora che per chi dirige. Segno evidente di un’aspirazione non appagata e di un quadro lavorativo che non soddisfa il dipendente né sul piano della retribuzione né della gratificazione personale. In sostanza, lo spegnimento dell’ambizione aziendale a favore del grigiore di un impiego standardizzato e ripetitivo, col lavoratore che non ritiene utili né tantomeno premiati i propri sforzi. Una situazione quasi fantozziana ma sempre più diffusa. Fra le righe emerge un assunto: un ragionamento nell’ottica del lavoratore, specie dopo anni durissimi come quelli vissuti, forse vale la pena di farlo. Se non altro per determinare quali siano le nuove tendenze e quale lo stato mentale dei lavoratori (non per forza con un risvolto psicologico). Scongiurando così l’ombra delle dimissioni.