Male interpretare un’informazione sui termini di prescrizione delle cartelle erariali, e in particolare sui debiti IVA e Irpef, può costare caro ai contribuenti sprovveduti. E’ bene quindi sapere dopo quanti anni Iva e Irpef insoluti perdono validità. 10 o 5 anni? Da dove nasce l’equivoco?

Prescrizione IVA e Irpef: dopo quanti anni la cartella non è valida?

Più che di una bufala vera e propria dunque quella sulla prescrizione delle cartelle IVA e Irpef è un male interpretazione di una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione risalente allo scorso novembre da parte degli stessi commentatori.

Una lettura superficiale del dispositivo infatti porterebbe a pensare che la prescrizione a 5 e non 10 anni si estende a tutti i debiti erariali (ivi inclusi quindi anche Irpef, Iva e Irap). A tal proposito si è parlato di sentenza dalla portata rivoluzionaria e destinata a fare scuola in ambito fiscale. Ma è proprio così?

Prescrizione breve: l’interpretazione corretta della sentenza

A ben vedere in realtà i termini di prescrizione delle cartelle di pagamento di queste tasse restano fermi a 10 anni.

Il fatto che i giudici delle Sezioni Unite, nella sentenza richiamata, abbiano bocciato l’interpretazione di Equitalia secondo la quale le differenze di termini nella prescrizione (3 anni bollo auto, 5 contributi Inps, 10 canone Rai etc) varrebbero solamente entro i 60 giorni dalla notifica della cartella, non significa infatti che, automaticamente, oltre questa soglia possa intervenire un’equiparazione ad una sentenza che estenderebbe la prescrizione sempre a 10 anni, indipendentemente dal tributo in oggetto. E’ vero che i giudici hanno specificato che la cartella di pagamento resta un atto amministrativo e non si trasforma in un atto giudiziale, ma questo non significa dimezzare i termini di prescrizione. Semplicemente la fattispecie in analisi riguardava contributi previdenziali Inps e Inail, per i quali la prescrizione è appunto di 5 anni. Estendere questo termine anche a Irpef, Iva e Irap appare una decisione arbitraria e azzardata, non fondata su presupposti fiscali e di diritto.

Per maggiore chiarezza riportiamo direttamente la fonte da interpretare, ovvero il passaggio del dispositivo della sentenza che ha dato adito a confusione: “è di applicazione generale il principio secondo il quale la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito ma non determina anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell’art. 2953 c.c. Tale principio, pertanto, si applica con riguardo a tutti gli atti – comunque denominati – di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extra-tributarie, nonché di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali nonché delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via. Con la conseguenza che, qualora per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l’opposizione, non consente di fare applicazione dell’art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo”.

Tasse e cartelle e termini di prescrizione, restano invariati: eccoli

Riassumiamo, alla luce di quanto esposto sopra, i principali termini di prescrizione per i tributi più ricorrenti nelle cartelle di pagamento:

  • per Irpef, Iva, Irap, canone Rai, contributi alla camera di commercio 10 anni;
  • per Imu, Tasi, Tari, multe stradali, contributi previdenziali Inps e Inailsanzioni 5 anni;
  • per bollo auto, 3 anni (che decorrono dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello in cui era dovuto il versamento)

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