I rendimenti dei fondi pensione non sono garanzia di una previdenza complementare in grado di tutelare i lavoratori. Con lo slogan ripetuto che le pensioni future saranno sempre più magre, il sistema della finanza mondiale ha spinto milioni di lavoratori a dirottare il Tfr verso gestori e sciacalli della finanza.

Lo scorso anno, con il ritorno dell’inflazione, i fondi pensione britannici hanno brucitao tanti di quei soldi che nemmeno in 10 anni riusciranno a recuperare. Con ripercussioni evidenti sui rendimenti dei portafogli e, quindi, sulle pensioni integrative dei lavoratori.

Contributori, spesso ignari di come i gestori dei fondi pensione investono i loro quattrini sui mercati. E quindi dei rischi che fanno correre a tutti.

I fondi non battono il Tfr

Ma tant’è, l’industria dei fondi spinge con forza e più di prima verso la previdenza complementare facendo leva sulla incapacità dello Stato di garantire una pensione dignitosa ai lavoratori. E il caso dell’Italia è più evidente, dato che siamo nel bel mezzo di una transizione iniziata 30 anni fa. Cioè il passaggio dal sistema di calcolo della pensione da retributivo a contributivo che porterà nelle tasche degli italiani meno soldi di pensione rispetto al passato.

Grazie a questo slogan e agli incentivi fiscali, milioni di lavoratori si affidano ai fondi pensione nel tentativo di garantirsi una rendita supplementare a fine carriera. Per il compiacimento dei gestori, dei politici, di banche e assicurazioni che promettono interessi e guadagni superiori a quelli del Tfr. Tutto palesemente falso, come confermano i dati statisti più recenti.

Sul lungo periodo il Tfr ha battuto il rendimento dei fondi pensione: rispetto al 2017 (dati Covip), i fondi negoziali hanno guadagnato lo 0,4% e i fondi aperti lo 0,2%, mentre i PIP variano dal +1,4% delle gestioni separate al +0,6% degli unit linked. Il Tfr, invece, ha guadagnato il 3,3%. A dieci anni i fondi aperti sono saliti del 2,5%, i negoziali del 2,2% e il Tfr del 2,4%.

Solo la performance media dei fondi pensione azionari è superiore al rendimento del Tfr.

Le menzogne sulla pensione pubblica

E veniamo al punto su cui i gestori fanno leva per convincere i lavoratori a destinare il Tfr ai fondi pensione. Si dice che la rendita dei giovani lavoratori sarà bassa, che ci saranno pensioni da fame, che è indispensabile farsi una rendita integrativa. Tutte balle. Le pensioni future non saranno da fame. Saranno forse più basse rispetto al passato quando il calcolo era fatto sulla media delle retribuzioni e non dei contributi. Ma non certo da fame.

Facciamo un esempio pratico per chiarire meglio il concetto. Un lavoratore con una retribuzione media annua di 25 mila euro potrà contare su un montante contributivo di 330 mila euro dopo 40 anni di lavoro. A 67 anni di età andrà in pensione con 18.900 euro per un tasso di sostituzione pari al 75% con le regole di adesso.

Ovviamente chi non potrà vantare una carriera piena e un montante contributivo sufficiente prenderà una pensione più bassa. Ma questo non dipende dallo Stato, dalle leggi o da chissà cosa. Dipende dalla stabilità del lavoro, dal livello dei salari e dalla continuità lavorativa. Chiaramente la precarietà incide e determina l’importo finale della pensione. Ma non è con la previdenza integrativa che si risolve il problema. Anzi, senza soldi da destinare ai fondi pensione, non ci sarà manco quella.

Il governo spinge verso i fondi pensione

Eppure questo concetto sembra che lo abbiano capito in pochi. E a maggior ragione si fa leva sui giovani lavoratori, più ignari dei meccanismi del sistema pensionistico e del funzionamento dei fondi pensione.

Come noto e come risulta dai dati economici, i giovani non ne vogliono sapere, a differenza dei lavoratori più anziani che percepiscono maggiormente le preoccupazioni della vecchiaia.

Per cui è allo studio un incentivo per convincerli ad aderire ai fondi pensione. Così, per spingere i giovani lavoratori a sottoscrivere la previdenza complementare, il governo punta ad abbassare la soglia di tassazione dei fondi destinati al Tfr.

Il governo, su pressione delle industrie dei fondi pensione, sta pensando di introdurre nuovi incentivi fiscali per promuovere la previdenza complementare. Una misura che dovrebbe essere inserita nel più ampio progetto di riforma fiscale al vaglio dell’esecutivo. Non solo. Allo studio ci sarebbe anche un rafforzamento dell’istituto del “silenzio assenso” che riguarderebbe tutti i lavoratori, non solo i nuovi assunti.