Sono diverse le tutele che la legge riconosce alle lavoratrici in maternità. Tra queste, il divieto di licenziamento dopo il rientro al lavoro, per evitare casi di abusi. Il discussissimo caso di Lissone (Monza e Brianza), dove una dipendente di OEB Brugola non è più tornata a lavoro a seguito della nascita del figlio (prima è stata messa in cassa integrazione Covid e poi licenziata) ha riacceso i riflettori sulla questione.

Ma quali sono le garanzie offerte in questi casi?

Congedo di maternità: a chi spetta e quando

Il congedo di maternità è il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro riconosciuto alla lavoratrice durante il periodo di gravidanza e puerperio.

Nel periodo di assenza obbligatoria dal lavoro, la dipendente continua comunque a percepire un’indennità economica in sostituzione della retribuzione e conserva il proprio posto. Questo vuol dire, in pratica, che terminata la maternità la lavoratrice ha diritto a rientrare in azienda e a ricoprire le stesse funzioni di prima.

Il congedo di maternità spetta a:

  • le dipendenti assicurate all’Inps;
  • le addette ai servizi domestici e familiari (colf e badanti);
  • le lavoratrici a domicilio (art. 61 T.U.) e quelle LSU o APU (attività socialmente utili o di pubblica utilità di cui all’art. 65 del T.U.).

Lo stesso non viene riconosciuto invece alle lavoratrici dipendenti da Amministrazioni Pubbliche (incluse le lavoratrici dipendenti dai soppressi enti Inpdap ed Enpals), le quali sono tenute agli adempimenti previsti dalla legge in caso di maternità verso l’amministrazione pubblica dalla quale dipendono (artt. 2 e 57 del T.U.).

Maternità obbligatoria: il periodo di congedo prima e dopo il parto

Il congedo di maternità prevede un periodo di astensione dal lavoro facoltativo e uno obbligatorio. Nel primo caso, quindi, il congedo è opzionale, nel secondo invece è la legge a imporlo (a tutela delle condizioni psico-fisiche della lavoratrice).

Nello specifico, il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro comprende:

  • prima del parto, 2 mesi precedenti la data presunta del parto (salvo flessibilità ) e il giorno del parto, nonché i periodi di interdizione anticipata disposti dall’azienda sanitaria locale (per gravidanza a rischio) oppure dalla direzione territoriale del lavoro (per mansioni incompatibili);
  • dopo il parto, i 3 mesi successivi al parto (salvo flessibilità ) e, in caso di parto avvenuto dopo la data presunta, i giorni compresi tra la data presunta e la data effettiva.

Per i parti anticipati rispetto alla data presunta (parto prematuro o precoce), ai tre mesi dopo il parto si aggiungono i giorni non goduti prima, anche qualora la somma dei 3 mesi di post partum e dei giorni compresi tra la data effettiva e la data presunta della nascita superi il limite complessivo di cinque mesi.

I casi particolari

In caso di parto gemellare la durata del congedo di maternità non varia. Tuttavia, la legge disciplina anche casi particolari come:

  • l’interruzione di gravidanza, che se si verifica dopo i 180 giorni dall’inizio della gestazione (180simo giorno incluso), nonché in caso di decesso del bambino alla nascita o durante il congedo di maternità, da diritto all’astensione dal lavoro per l’intero periodo di congedo di maternità, a meno che la lavoratrice stessa non si avvalga della facoltà di riprendere l’attività lavorativa;
  • adozione o affidamento nazionale di minore, che riconosce il congedo per i 5 mesi successivi all’effettivo ingresso in famiglia del minore adottato o affidato preadottivamente nonché per il giorno dell’ingresso stesso.
  • le adozioni o gli affidamenti preadottivi internazionali, per cui il congedo spetta per i 5 mesi successivi all’ingresso in Italia del minore adottato o affidato nonché per il giorno dell’ingresso in Italia;
  • l’affidamento non preadottivo, per cui si può richiedere un congedo di 3 mesi da fruire, anche in modo frazionato, entro l’arco temporale di 5 mesi dalla data di affidamento del minore.

Come per il congedo in caso di gravidanza, per adozione o affidamento è possibile sospendere il periodo di congedo di maternità se si verifica il ricovero del minore adottato o affidato, subordinatamente alla ripresa dell’attività lavorativa.

Maternità e tutela lavoratrici

A dettare legge in materia di tutele per le lavoratrici-madri è il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151) che disciplina i congedi, i riposi, i permessi e la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori connessi alla maternità e paternità.

Come stabilito dal legislatore, il datore di lavoro ha il diritto di sostituire la lavoratrici in maternità durante la sua assenza (ma non a licenziarla). In sostituzione delle lavoratrici, infatti, l’azienda può assumere personale con contratto a tempo determinato o utilizzare personale con contratto temporaneo. Il tutto può avvenire anche con anticipo fino ad un mese rispetto al periodo di inizio del congedo (salvo periodi superiori previsti dalla contrattazione collettiva).

Divieto di licenziamento dopo la maternità: qual è il periodo coperto?

Il legislatore, intervenendo con delle modifiche al decreto legislativo 151/2001, si è poi espresso di nuovo sulle tutele riconosciute alle lavoratrici in maternità. In merito alla conservazione del posto, in particolare, è stato stabilito che “il divieto di licenziamento si
applica fino ad un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare”. Inoltre, in caso di adozione internazionale, il divieto opera dal
momento della comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando o della comunicazione dell’invito a recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento.

Le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro dal Regolamento, ovvero:

  • durante i due mesi precedenti la data presunta del parto, salvo quanto previsto all’articolo 20;
  • ove il parto avvenga oltre tale data, per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto;
  • nei tre mesi dopo il parto, salvo quanto previsto all’articolo 204;
  • nel periodo che comprende ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta (tali giorni sono aggiunti al periodo di congedo di maternità dopo il parto).

I casi di interdizione anticipata

L’interdizione è anticipata a tre mesi dalla data presunta del parto quando le lavoratrici sono occupate in lavori che, in relazione all’avanzato stato di gravidanza, siano da ritenersi gravosi o pregiudizievoli.

Per esempio, il servizio ispettivo del Ministero del lavoro può disporre, sulla base di accertamento medico – e avvalendosi dei competenti organi del Servizio sanitario nazionale – l’interdizione dal lavoro delle lavoratrici in stato di gravidanza per i seguenti motivi:

  • nel caso di gravi complicanze della gravidanza o di preesistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza;
  • quando le condizioni di lavoro o ambientali siano ritenute pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino;
  • quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni.

Ferma restando la durata complessiva del congedo di maternità, le lavoratrici hanno comunque la facoltà di astenersi dal lavoro a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi al parto, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro. Anche in questi casi, mantengono il diritto a conservare il posto.

Licenziamento dopo il periodo di maternità: cosa fare e come tutelarsi

Il divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, e la lavoratrice, licenziata nel corso del periodo in cui opera il divieto, ha diritto ad agire per tutelarsi, presentando al datore di lavoro idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza – all’epoca
del licenziamento – delle condizioni che lo vietavano.

Il divieto di licenziamento non si applica nel caso di:

  • colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
  • cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;
  • ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine;
  • esito negativo del periodo di prova.

Il licenziamento intimato alla lavoratrice in violazione delle disposizioni previste dalla legge è nullo e punito con una sanzione amministrativa (cui ammontare può variare dai 1.032 euro ai 2.582 euro).