Sono valide le dimissioni rassegnate dopo la minaccia di licenziamento disciplinare (e quindi per evitare di essere mandati via)? Sul punto è intervenuta la Cassazione in una recente sentenza spiegando che sussiste una condizione per riconoscere validità alle dimissioni presentate dopo la minaccia di licenziamento e per paura di quest’ultimo: la motivazione alla base del licenziamento deve essere effettiva e reale. Al contrario, se il datore usa questa minaccia solo allo scopo di intimorire il lavoratore e spingerlo ad andarsene di sua spontanea volontà, le dimissioni sono illegittime per mancanza di volontà.

Le contestazioni, quindi, devono essere concrete e corrispondenti al vero. E’ bene precisare però che, in quest’ultimo caso, è il lavoratore e non l’azienda a dover provare l’invalidità delle motivazioni che avrebbero portato concretamente e veramente al licenziamento.

Ma quale sarebbe la “convenienza” del lavoratore alle dimissioni in caso di minaccia di licenziamento? E’ vero, come abbiamo osservato in altre occasioni di discussioni su questo argomento, che chi si dimette perde il diritto alla disoccupazione (tanto che non di rado assistiamo al fenomeno contrario ovvero farsi licenziare per ottenere la Naspi), tuttavia in alcuni casi le dimissioni possono avere dei, chiamiamoli così, vantaggi, in termini ad esempio di reputazione. Quando si cerca un altro lavoro infatti un conto è aver scelto spontaneamente di lasciare il posto precedente, diverso invece è essere stati mandati via per giusta causa.

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Dimissioni illegittime per minaccia licenziamento infondato: la sentenza

Veniamo dunque in conclusione al dispositivo della sentenza in analisi. I giudici della Suprema Corte hanno stabilito che:

  • la minaccia di licenziamento per giusta causa prospetta lo scenario di un male ingiusto;
  • possono essere accettate le dimissioni rassegnate per evitare un licenziamento giusto a meno che non si tratti di una minaccia ingiusta e quindi manchi la volontà;
  • le dimissioni, pur consistendo in un atto unilaterale, possono essere annullate per vizio della volontà se determinate dal comportamento del datore di lavoro che inganni il lavoratore scatenando una visione deformata della realtà.

Questi dunque per punti i principi cardine della sentenza in analisi.