Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la numero 42336 del 6 ottobre 2016, ha stabilito che il datore di lavoro che minaccia il dipendente di licenziamento per imporgli l’accettazione di una retribuzione più bassa rispetto a quella indicata nella busta paga può essere denunciato.

La minaccia da parte del datore di lavoro è individuabile in qualsiasi atto intimidatorio cui viene sottoposto il dipendente volto a creare una sudditanza psicologica che porta il lavoratore ad accettare tutto quello che gli viene chiesto dall’alto.

Quando il datore di lavoro può essere denunciato?

Se si minaccia un dipendente di licenziamento si commette un abuso. Non importa se possa risultare licenziamento illegittimo e portare al reintegro del dipendente, il percorso giudiziale per il lavoratore, intrapreso per combattere una illecita riduzione della bista paga o per rifiutare una prestazione lavorativa extra, è comunque un calvario che deve essere risarcito da chi commette l’abuso.

Secondo la Corte di Cassazione la minaccia è “l’atto intimidatorio è fine a se stesso e per la sussistenza del reato si richiede solo che l’agente ponga in essere la condotta minatoria in senso generico (…)” ed è sufficiente ad essere considerato un atto intimidatorio che incide in modo negativo sulle condizioni lavorative del dipendente.

La condotta del datore di lavoro, secondo la Suprema Corte, può essere ricondotta anche al reato di estorsione poichè approfittando della debolezza di un sottoposto impone al lavoratore di accettare condizioni di lavoro non convenienti di fronte alla minaccia del licenziamento, o se a ridosso della scadenza del contratto, della non assunzione. Il datore di lavoro, approfittando della crisi occupazionale in cui versa il nostro Paese, costringendo i lavoratori ad accettare corresponsioni di retribuzioni minori e non adeguate alle prestazioni lavorative, dietro minaccia di licenziamento, e chiedendo la sottoscrizione di buste paga con somme maggiori di quelle corrisposte, integra il reato di estorsione.