La leva obbligatoria non esiste più da tempo, nonostante di recente sia tornata in auge l’ipotesi della sua reintroduzione. Più un pourparler che una proposta vera e propria, arrivata da chi, in realtà, l’aveva già tirata in ballo in passato. Ossia il leader della Lega, Matteo Salvini. Oggi come oggi, con la guerra in Ucraina ancora in atto e la minaccia nucleare che torna ad aleggiare, in modo più o meno consistente, sulla testa dell’Europa, difficile che la prospettiva di una nuova leva possa far presa sugli elettori.

Men che meno sui più giovani. Non che il fascino dell’esercito sia estinto. E non solo per questioni di divisa o di onor di patria, ma anche per la possibilità di essere inquadrati a tutti gli effetti all’interno di un contesto lavorativo statale. Punto non secondario ai fini della pensione.

A patto però di prolungare la ferma volontaria di un anno o di tentare la strada della carriera da ufficiale. Il che, alla lunga, consente ai militari di accumulare un periodo contributivo di riferimento, da far valere nel momento in cui si accede alla pensione di vecchiaia. Un concetto che vale anche per chi non ha trascorso tutta la propria vita nei ranghi o non ha ottenuto gradi nelle Forze armate. Il periodo passato nell’esercito o in qualsiasi altro corpo varrà come periodo contributivo a fini pensionistici.

Pensione e servizio militare, come funziona

Questo vale tanto per i dipendenti quanto per gli autonomi. Il periodo in questione potrà essere utile sia per determinare il diritto alla pensione che per comprendere la misura, peraltro potendo contare su un accredito diretto sul proprio trattamento assicurativo. In questo modo, gli assicurati godranno di un vantaggio preciso, traducibile nell’incremento dell’importo della pensione. Inoltre, con tale sistema si potrebbe persino accelerare la data di uscita dal lavoro.

Questo, almeno, nella maggior parte dei casi. Una fetta del grafico a torta, per quanto esigua, parla anche di una percentuale di lavoratori toccata dagli effetti nefasti portati dall’accredito del periodo in questione.

Nello specifico, si parla dei lavoratori che hanno iniziato la loro carriera in data successiva al 31 dicembre 1995, inquadrati quindi nel sistema contributivo puro, in base alla legge 335/1995. Un dilemma che, in realtà, riguarda una parte non esattamente esigua di lavoratori. Il problema è piuttosto marcato, visto che sorgerebbe nel caso in cui l’assicurato avesse svolto il proprio periodo militare in data antecedente all’1 gennaio 1996.

Gli svantaggi del sistema misto

Il sistema interamente contributivo potrebbe riservare qualche vantaggio, vista la possibilità di uscita a 64 anni e 20 di contributi effettivi. O a 71 anni con almeno 5 di versamenti. Canali pensione che si affiancano ai dettami della Legge Fornero (42 + 10), in procinto di essere ripristinata, ma anche alle regole della pensione di vecchiaia. Il punto è che, nel caso in cui l’assicurato richiedesse l’accredito sulla pensione del periodo militare svolto prima del 1996, il sistema preso in considerazione diventerebbe quello misto. Un passaggio che, a grandi linee, potrebbe sembrare vantaggioso. In realtà, i criteri favorevoli del sistema contributivo verrebbero meno, in luogo di una cancellazione della logica dei massimali contributivi, concesso solo a chi ha svolto le proprie prestazioni dal 1996 in avanti. In questo modo, i costi andrebbero ad alzarsi. Senza contare che persino la rinuncia all’accredito sarebbe rimossa dal novero delle possibilità. Questo perché, in base alle regole dell’Inps, il servizio militare figurerebbe come fattore di determinazione sul calcolo della pensione e, di rimando, come motivo ostativo per la rimozione.