Il cashback ha fatto flop. Dopo un breve impulso iniziale, il programma che prevede il rimborso del 10% delle spese effettuate con bancomat o carte di credito nei negozi ha perso slancio. Cosa è successo?

Le ragioni sono sostanzialmente diverse e tutte valide. Ma una su tutte è dominante: gli acquisti effettuati nei negozi, al netto del rimborso del 10%, sono sempre più cari di quelli effettuati nei negozi online. In buona sostanza, la merce acquistata nei negozi fisici è in media molto più cara rispetto ai negozi virtuali.

Cashback non ha funzionato

C’è poi da dire che la campagna cashback, lanciata dal governo Conte lo scorso inverno, fu fatta principalmente per rilanciare i consumi nei negozi. Esercenti che erano rimasti chiusi a causa dei lockdown, ma che in occasione della campagna cashback e delle feste natalizie non avevano perso occasione per rifarsi alzando i prezzi.

Il risultato fu una grande presa in giro e una disaffezione verso gli esercenti fisici che per recuperare quanto non guadagnato nei mesi precedenti avevano alzato i prezzi nei negozi. Con la scusa del cashback si è quindi cercato di recuperare quanto perso durante i lockdown. Ma i prezzi erano lievitati al punto che, passate le feste natalizie, si è ripiombati al livello di partenza.

Non tutti gli esercenti avevano poi installato i Pos e quindi tanti consumatori sono tornati a fare shopping online. Così, dalle scarpe agli elettrodomestici, passando per i beni di largo consumo, i cittadini hanno preferito spendere meno e subito online piuttosto che attendere il 10% di rimborso dallo Stato.

L’evasione fiscale

E che dire della campagna antievasione? Uno specchietto per le allodole, per far passare l’incentivo di Stato come un mezzo per giustificare un’azione che non avrebbe scaturito effetti significativi contro l’evasione fiscale.

Il cashback, in altre parole, non può risolvere con il 10% di sconto il malcostume radicato della mancanza di rilascio degli scontrini.

Anzi, nonostante la tracciatura dei pagamenti da bancomat e carte di credito, molti esercenti non hanno rilasciato lo scontrino fiscale di vendita lasciando sempre agli organi di controllo l’incombenza delle verifiche fiscali.

A conti fatti, a trarne vantaggio sono state solo le banche che hanno emesso a tutto spiano tessere bancomat e carte di credito. Strumenti di pagamento per i quali il consumatore paga delle commissioni ogni anno. Come pure l’esercente che si deve dotare di Pos obbligatoriamente.

Stop il 1 luglio?

Così, il prossimo 1 luglio il cashback potrebbe vedere la fine. Il finanziamento del programma di rimborsi rientrava nelle bozze del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) del governo Conte, ma non in quello di Mario Draghi.

Il programma cashback, come previsto, scadrà a fine giugno 2022, ma se non finanziato, potrebbe terminare prima. Al momento non rientra tra le soluzioni finanziabili con i 221 miliardi della Ue. Potrebbe però trovare adeguata copertura con risorse nazionali, magari con qualche accorgimento in maniera tale da far risparmiare soldi allo Stato e invogliare i commercianti a installare i Pos.

A differenza del precedente governo, infine, Draghi non è mai stato del tutto convinto del nesso tra l’adozione del cashback e il contenimento delle operazioni a rischio sommerso. In sostanza, il costo pagato dallo Stato per sostenere il cashback a scopo lotta evasione fiscale potrebbe rivelarsi un buco nell’acqua. Tanto vale impiegare le risorse economiche per potenziare le attività di controllo della Guardia di Finanza e della amministrazioni.