Una differenza minima ma per certi versi sostanziale. Anche a fronte di una finalità praticamente speculare. Il Trattamento di Fine servizio (noto anche come Tfs), si differenzia infatti dal Trattamento di fine rapporto (Tfr) unicamente per il fatto che il primo si caratterizza di un aspetto previdenziale, con contributi scissi fra datore di lavoro e lavoratori. Quel che combacia, molto spesso, sono le tempistiche di erogazione. I dipendenti pubblici, infatti, potrebbero ricevere quanto spettante anche in un periodo di cinque anni dal termine effettivo del loro rapporto di lavoro.

In realtà, un provvedimento in questo senso era già stato varato, con la firma di un accordo relativo alla percezione del Tfs in tempi più ristretti. Nello specifico, si era cercato di incentivare un pagamento più rapido attraverso un tasso agevolato da versare direttamente alle banche. Tasso peraltro crescente in caso ci si fosse rivolti a banche non convenzionate, arrivando a pagare anche un 4% rispetto allo 0,4% previsto per le procedure ordinarie. Qualche altra proposta è stata avanzata più di recente, ad esempio quella di inserire il Tfs direttamente in busta paga. Per quel che riguarda tale diritto, però, tale percentuale non è l’unico fattore da tenere in considerazione. E nemmeno il più preoccupante.

Buonuscita, come funziona col Tfs

Un problema piuttosto serio, infatti, riguarda la buonuscita stessa, a rischio diminuzione in nome di una tassa, per così dire, “occulta”. Il 30 giugno scorso è stata una data decisiva. Proprio quel giorno, la convenzione che consentiva l’erogazione in anticipo di parte del Tfs agli statali (la convenzione Abi). Alla quale, peraltro, non è seguita nell’immediato una procedura di rinnovo per le domande di anticipo. Una situazione che ha creato un’impasse piuttosto marcata, riguardante sia le domande già inoltrate che quelle da inoltrare. Non certo un dettaglio. L’anticipo del Tfs, infatti, consente ai lavoratori di accedere in modo più celere a ciò che spetterebbe al termine del rapporto lavorativo, nella misura di 45 mila euro (non oltre) e con un tasso agevolato dello 0,4%, ma solo se la richiesta avviene tramite banche convenzionate inserite nell’ambito dell’Accordo quadro.

Una possibilità confermata, peraltro agli stessi tassi già previsti (incluso quello relativo alle banche non convenzionate, pari al 4%). Un altro aspetto per nulla cambiato, però, riguarda la catalogazione della buonuscita.

Il problema dei tassi (e delle tasse)

Richiedere un anticipo del Tfs a tasso agevolato, significa di fatto richiedere un prestito. Tanto è vero che, per l’appunto, è previsto il pagamento di un interesse. L’alternativa è di quelle da aut aut: procedere con il “prestito” oppure mettersi l’anima in pace e aspettare gli anni che ci vogliono. Il che riduce di molto la possibilità di scelta per coloro che necessitano delle risorse in tempi brevi, magari per delle spese già programmate o per altre impellenze. Senza contare che, anche per i più pazienti, c’è il rischio di un beffardo colpo di boomerang. Il tasso di inflazione gioca infatti un ruolo rilevante nel determinare l’importo della buonuscita, incidendo con un peso specifico sul pagamento delle tasse, anche per chi deve ricevere il suo Tfs. Finora, coi tassi della Bce a zero, era stato possibile restare a galla. Ora, con l’inflazione in marcia all’8%, il colpo di martello delle tasse colpisce anche quanto maturato con i propri anni lavorativi. E questo vale sia per chi affretta l’incasso che per coloro che decidono di aspettare stoicamente i tempi della burocrazia. Anche la pazienza potrebbe essere premiata con una scorciata quasi del 10%. Altro che virtù dei forti…