I buoni pasto nascono teoricamente per rimborsare al lavoratore le spese per il pranzo fuori casa (i ticket sono di norma accettati sia nei supermercati che presso bar e ristoranti). Ma la nuova frontiera del precariato ha raccolto segnalazioni di lavoratori pagati solo mezzo voucher per generi alimentari. A denunciare questa pratica è la Cgil Toscana.

[tweet_box design=”box_02″ float=”none”]Siamo alla ciotola di riso[/tweet_box

Stipendio? No cibo: buoni pasto invece della busta paga

Da alcune recenti vertenze sindacali emerge la pratica di retribuire i lavoratori tramite buoni pasto.

Statisticamente i più coinvolti da questo sistema sono i giovani e gli over 50  disoccupati da lungo periodo e che hanno già esaurito il ricorso agli ammortizzatori sociali. Per quanto riguarda invece il settore professionale, il più colpito sembra essere quello del commercio/pubblici esercizi, con attività stagionali.

La spiegazione la fornisce proprio la Cgil: “ai datori di lavoro di sicuro conviene: spendono poco, meno perfino che con i voucher (i buoni lavoro), visto che il taglio minimo dei buoni pasto cartacei è di 5,29 euro, mentre il voucher vale 10 euro l’ora e garantisce un salario netto di 7,50 euro al lavoratore. Inoltre, con questo sistema i datori pagano solo a nero e possono perfino scaricare dalle tasse quello che spendono per comprare i buoni pasto che esistono di vario taglio: fino a 12 euro”. Dall’altra parte ci sono giovani e over 50 anni senza lavoro e pronti ad accettare anche cibo al posto dello stipendio. Una sorta di odioso ricatto sociale che fa leva sulla disperazione indotta dalla crisi economica e occupazionale.