In questi giorni è andata in porto la prima voluntary disclosure (collaborazione volontaria) riguardante i bitcoin. Si tratta di un istituto grazie al quale è possibile regolarizzare delle somme di denaro detenute illecitamente all’estero o, come in questo caso, in wallet per criptovalute. Con questo strumento, le parti hanno raggiunto un duplice vantaggio. In primo luogo, il soggetto che ha ottenuto questa collaborazione può adesso utilizzare tale liquidità come meglio crede. L’amministrazione finanziaria, invece, è riuscita a prelevare un importante e immediato gettito fiscale.

Voluntary disclosure per rendere legale la detenzione di bitcoin non dichiarati in precedenza

La voluntary disclosure (collaborazione volontaria) è un istituto con il quale i contribuenti che detengono illecitamente patrimoni all’estero possono regolarizzare la propria posizione fiscale, denunciando spontaneamente all’Amministrazione finanziaria la violazione degli obblighi di monitoraggio.
Come rivelato in questi giorni da ItaliaOggi.it, è da poco andata in porto la prima voluntary disclosure riguardante i bitcoin. Grazie ad essa, un soggetto che possiede criptovalute, mai dichiarate al fisco italiano, ha chiesto all’amministrazione finanziaria di essere sottoposto ad accertamento volontario in modo da rendere legali le criptovalute, ovviamente pagando le dovute imposte, sanzioni e interessi. In questo modo, si è giunti a un duplice vantaggio. In primo luogo, il soggetto che ha ottenuto questa collaborazione può adesso utilizzare tale liquidità come meglio crede. Oltre a questo, l’amministrazione finanziaria è riuscita a prelevare un importante e immediato gettito fiscale.

Quali tasse si pagano su bitcoin e criptovalute?

Il nostro ordinamento, sostanzialmente, equipara i bitcoin e le altre criptovalute alle tradizionali valute estere.
Per quanto riguarda la tassazione ai fini delle imposte sul reddito delle persone fisiche che detengono i bitcoin al di fuori dell’attività d’impresa, le operazioni di compravendita non generano redditi imponibili, mancando la finalità speculativa.
Il trattamento fiscale di questi strumenti, dunque, viene regolato dalla normativa relativa alle valute tradizionali, articolo 67 del Tuir.


In sostanza, in base a quest’ultima norma, il profitto generato dalla compravendita di bitcoin o altre criptovalute, diventa rilevante ai fini dell’imposta sul reddito solamente se la giacenza media dell’insieme dei cosiddetti “wallet” ossia i portafogli elettronici, detenuti dal contribuente, ha superato il controvalore di 51.645,69 euro per almeno 7 giorni lavorativi.
Soltanto in questo caso, la plusvalenza generata deve essere dichiarata nel quadro RT del modello redditi, ad essa bisogna applicare l’imposta sostitutiva del 26%.

Con la voluntary disclosure, il contribuente ha così pagato questa tassa, più, ovviamente, sanzioni e interessi.

Ricordiamo che chi detiene criptovalute, a prescindere dalla somma, è obbligato a compilare del rigo RW1 nella colonna 3 il codice 14 («Altre attività estere di natura finanziaria e valute virtuali»), riferibile al possesso di valute virtuali. In particolare, deve essere indicato il controvalore in euro della valuta virtuale detenuta al 31 dicembre.