La vittoria di Donald Trump non era stata prevista quasi da nessuno. Quanti avessero dato conto ai sondaggi e alle analisi quasi totalizzanti di ieri sera, oggi si saranno svegliati quasi attoniti, scoprendo che non solo fossero errati, ma che la sconfitta rimediata da Hillary Clinton e dal suo Partito Democratico ha assunto proporzioni quasi drammatiche. I repubblicani conquistano, infatti, oltre alla presidenza, anche la maggioranza alla Camera e al Senato. Ma cosa ha spinto una maggioranza silente di americani a preferire un perfetto estraneo alla vita politica e istituzionale a una candidata di collaudata esperienza di governo e dai toni e modi più rassicuranti?

La risposta potrebbe essere insita nella domanda, ovvero una delle motivazioni alla base del successo di Trump sarebbe proprio la sua caratura di personaggio ostile all’establishment, profondamente contrario (almeno a parole) alle élites dominanti nel panorama istituzionale e persino economico-finanziario.

(Leggi anche: Donald Trump presidente, cosa accade all’economia USA)

La rappresentanza dei “dimenticati”

Nel suo primo discorso da presidente, Trump ha onorato “le donne e gli uomini dimenticati d’America”, un’espressione che potrebbe sintetizzare l’ingrediente essenziale del suo successo. Già, perché a questo giro qualche milione di voti della “working class”, i cosiddetti “colletti blu” della Cintura Rugginosa, ha preferito i repubblicani ai democratici, segnalando un malcontento verso l’operato di questi ultimi, che dal 2008 posseggono le chiavi della Casa Bianca.

Un filo rosso unirebbe, in questo senso, la vittoria di Trump alla Brexit di giugno, ovvero il rifiuto di fette crescenti della popolazione occidentale delle ricette caldeggiate dagli ambienti economico-finanziari e accettate acriticamente dai governi e i partiti tradizionali. Parliamo, anzitutto, della globalizzazione dei commerci e della libera circolazione delle persone, che escono sconfitti dal voto britannico di giugno e di quello di ieri in America. (Leggi anche: Elezioni USA, lo sconfitto c’è già: il commercio mondiale)

 

 

 

Il rifiuto del commercio mondiale

L’avversione al commercio mondiale, percepito come sfavorevole ai propri interessi, quando intrattenuto con economie emergenti come la Cina, che non giacciono sullo stesso piano delle regole produttive, rientra nel novero delle spiegazioni possibili di questi esiti elettorali sempre più stupefacenti e raccolti in giro per l’opulento Occidente, ma non sarebbe l’unica.

Il voto a Trump è stato contro un sistema politico eccessivamente prono ai desiderata di ricchi finanzieri e banchieri, che a torto o a ragione vengono considerati dal grosso della popolazione americana e di quella europea i responsabili della potente crisi finanziaria del 2008, esplosa proprio negli USA e propagatasi nel resto del pianeta, che ha mandato in recessione le principali economie mondiali, provocando un’ondata di elevata disoccupazione e di crisi fiscale per i bilanci statali di numerosi paesi. (Leggi anche: Crisi finanziaria in arrivo come nel 2008)

La ferita della crisi

Non che Trump sia un reale alfiere dei lavoratori contro Wall Street; non dimentichiamoci che egli stesso è un immobiliarista, ma sarebbe stato premiato per il coraggio con cui ha attaccato a testa bassa il “Deep State”, quelli che in Italia sarebbero definiti i “poteri forti”.

La Clinton, che proprio sui lavoratori aveva inizialmente subito la concorrenza interna del “socialista” Bernie Sanders, ha cercato di recuperare con la proposta di innalzare il salario minimo, ma il suo programma per assecondare le classi più deboli è stato imbastito di tasse sui ricchi e promesse di spesa assistenziale, che probabilmente hanno proiettato più l’immagine di una candidata di sinistra old style, non realmente in grado di rappresentare i nuovi interessi di chi è rimasto indietro con la crisi. (Leggi anche: Bernie Sanders può davvero insidiare Hillary Clinton?)

 

 

 

Immigrazione e lavoro due ragioni del successo di Trump

Altri due elementi possono essere individuati nella vittoria di Trump.

Il primo riguarda l’insofferenza, spesso silente, di grossa parte della popolazione ai flussi migratori crescenti, che minacciano proprio i redditi e l’occupazione dei lavoratori più deboli, quelli maggiormente esposti alla concorrenza della manodopera a basso costo e spesso persino illegale.

Infine, la nostra breve analisi potrebbe concludersi con la presa d’atto della distanza tra cifre ufficiali sull’economia e il suo stato reale. Barack Obama non sta lasciando certamente un’America in crisi, anzi i suoi fondamentali appaiono invidiabili per qualsivoglia economia europea. Tuttavia, la piena occupazione raggiunta in questi mesi potrebbe essere semplicemente il riflesso di un’occupazione calante da anni e poco ci direbbe dei bassi salari pagati ai lavoratori, che in molti casi non sarebbero in grado di pagarsi un mutuo, se il costo del denaro fosse normalizzato ai livelli pre-crisi.

Resta da vedere se Trump fornirà risposte efficaci a queste inquietudini trasversali alle varie fasce sociali, che coinvolgono anche una “middle class” sempre più risucchiata dal timore di impoverimento, ma almeno ha toccato proprio i nervi scoperti di un sistema economico-sociale, a cui le istituzioni tendono a sfuggire da tempo, consapevoli che soluzioni facili e indolori non ve ne sarebbero. (Leggi anche: Economia americana, l’eredità di Obama)