A pochi giorni dall’insediamento del nuovo esecutivo, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha reso dichiarazioni un po’ scontate, ma neppure troppo sulla moneta unica. Ha espresso la convinzione che l’euro avrà un futuro solo se l’unione monetaria saprà tendere verso “un unico stato”. E ha fatto presente che la pandemia avrebbe accelerato un processo in tale direzione. Intervenendo al Senato in occasione del voto di fiducia, il premier Mario Draghi aveva sottolineato il carattere “irreversibile” dell’euro e la necessità per gli stati che ne fanno parte di cedere ulteriori quote di sovranità.

Non è la prima volta che Draghi parla di irreversibilità della moneta unica. Lo aveva già fatto quando era governatore della BCE. In sé, ciò dà l’idea di quanto affatto certo sia il futuro dell’unione monetaria. Nessuno alla Federal Reserve o al governo di Washington si sognerebbe mai di affermare che il dollaro sia irreversibile, essendo scontato che lo sia. Per dirla con le parole di Margaret Thatcher, “se hai bisogno di dire che sei una signora, vuol dire che non lo sei”.

In effetti, ha ragione Visco quando afferma che l’euro un futuro lo avrà solo se i paesi che lo adottano come moneta sapranno tendere verso un unico stato. Perché? Negli ultimi anni, le varie crisi nazionali dello spread sono state anestetizzate dall’allentamento monetario della BCE, vale a dire dall’azzeramento dei tassi e dal “quantitative easing”. L’acquisto massiccio di titoli di stato consente anche ai governi peggio messi con i rispettivi conti pubblici di indebitarsi a costi mediamente bassissimi e sostenibili. E’ così per Spagna e Portogallo e, in misura minore, per Italia e Grecia.

La BCE sa già “cancellando” i debiti, ma non può ammetterlo

I nodi prima o poi arriveranno al pettine

Ma questa politica ultra-espansiva non potrà durare in eterno.

Dovrà essere gradualmente ritirata man mano che l’inflazione nell’area salirà e tenderà al target “vicino, ma di poco inferiore al 2%”. La buona notizia è che la BCE non riesce a centrare l’obiettivo sin da inizio 2013 e prevede che non ci riuscirà neppure nei prossimi due anni. Quella cattiva è che se e quando dovesse farcela, finirà la lunga era dei tassi a zero e dei rendimenti reali negativi o poco positivi. A quel punto, i debiti verranno valutati dagli investitori sulla base dei fondamentali e non di puri ragionamenti speculativi.

Gli stati con alti deficit e bassi tassi di crescita verranno puniti, quelli con bassi deficit e alti tassi di crescita verranno premiati. Gli spread torneranno ad allargarsi e le tensioni finanziarie nel Sud Europa si ripresenteranno. L’euro nasce con un difetto: è la moneta unica di 19 stati con altrettante politiche fiscali. Il Trattato di Maastricht prima e il Patto di Stabilità dopo hanno cercato di far convergere queste ultime, con risultati soddisfacenti fino alla crisi del 2008. Da allora, i mercati sono tornati a discriminare tra virtuosi e “spendaccioni”, chiedendo ai secondi rendimenti nettamente più elevati per prestare loro denaro.

La frammentazione dei mercati porta inevitabilmente alla rottura dell’euro, se non controllata. La struttura dei costi più alta in un paese ne rende l’economia meno competitiva e, in assenza di variazioni nei tassi di cambio, le differenze tra gli stati dell’area si accentuano, anziché ridursi. Con un bilancio comune, cioè con un’unica politica fiscale e con un Tesoro unico che emette debito per tutti gli stati membri (i famosi Eurobond), la questione verrebbe affrontata e risolta definitivamente. Tuttavia, questo scenario si scontra con la realtà. Fissare un unico costo per tutti richiederebbe agli stati più virtuosi di spendere di più per interessi, così da consentire a quelli più indebitati di spendere di meno.

Il Fiscal Compact è stato spazzato via una volta per tutte?

Le resistenze del nord

Il Nord Europa si gratta al solo pensiero. Tedeschi e olandesi guidano il fronte dei contrari a un’ipotesi del genere. Solo quando e se tutti gli stati convergessero verso gli stessi parametri fiscali, la prenderebbero in considerazione. In fondo, a questo sarebbe servito il Fiscal Compact, a creare le condizioni affinché in un futuro non vicino la politica fiscale potesse essere gestita unitariamente. Ma la pandemia ha reso impraticabile questa strada, almeno da qui al medio-lungo termine. In realtà, già da prima non si aveva l’impressione che si stesse andando in quella direzione. Basti leggere i titoli dei giornali degli ultimi anni per capire lo stato di estrema tensione tra le diverse capitali sui conti pubblici. Persino la Francia era arrivata a finire nel mirino di Berlino per la sua scarsa sostenibilità fiscale.

Del resto, i timori del Nord Europa non sono infondati: se nemmeno con tassi azzerati il Sud Europa è riuscito a risanare i suoi conti, lo farebbe mai con un Tesoro unico? E’ evidente che l’azzardo morale si farebbe ancora più elevato tra i governi, venendo meno l’impulso a comportarsi responsabilmente. Ma se il debito pubblico del “super stato” dell’euro lievitasse, a rimetterci sarebbero tutti, compresi i paesi più virtuosi, i quali finirebbero per pagare il conto sui titoli di loro emissione. La stessa BCE disporrebbe di minori margini di azione, diventando la banca di uno stato complessivamente poco credibile sul piano fiscale.

Eurobond, quella proposta “indecente” legata al Fiscal Compact

Manca il vincolo di solidarietà

Dunque, lo stato unico teorizzato da Visco non sarebbe così prossimo come auspicato dallo stesso e dal premier Draghi. E se mai vi si tenderà, sarà solo dopo una lunga fase di aggiustamenti fiscali richiesti ai singoli paesi per ridurre il costo a carico del nord.

E una volta entrati, state certi che verrebbero ugualmente fissate regole restrittive per impedire che qualcuno sgarri a discapito degli altri. Ciò che ci differenzia da uno stato vero, infatti, è l’assenza di un popolo unico europeo, che al suo interno sarebbe capace di accettare dosi di solidarietà a favore delle aree economicamente più arretrate. E’ quello che succede da secoli negli USA. Oggi, la California sarebbe una grande Grecia d’America, eppure il vincolo di solidarietà che unisce gli States evita che le succeda il peggio.

Un tedesco non accetterebbe mai di pagare le pensioni a un italiano o a un greco, e viceversa. Eppure, gli stessi tedeschi dell’ovest, pur non così a cuor leggero, da 30 anni si sobbarcano il costo della riunificazione per consentire ai fratelli dell’est di vivere in una Germania dalle condizioni socio-economiche abbastanza omogenee. Non è un fatto di avidità o di altruismo, ma di assenza di vincolo nazionale. Come dire che appioppi un disoccupato a un padre di famiglia estraneo, pretendendo che lo mantenga. Non lo farebbe probabilmente mai, ma magari non avrebbe alcuna remora nel sostentare il figlio che si trovasse in difficoltà per responsabilità proprie. Perché in famiglia ci si aiuta, ma l’Eurozona non è una famiglia, non è un popolo. E’ un insieme di stati culturalmente, linguisticamente e socio-economicamente differenti.

Il fallimento dell’euro sembra certo facendo nuovi debiti

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