Il presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, ha annunciato giovedì la ristrutturazione del debito pubblico, pur sborsando gli 1,1 miliardi di dollari per il pagamento di un bond in scadenza. Entro la fine dell’anno, il governo e la compagnia petrolifera statale PDVSA dovranno adempiere a obbligazioni per 1,6 miliardi di euro, tra cui gli oltre 700 milioni di interessi saltati a ottobre e che per i quali è previsto il periodo di grazia di 30 giorni. Il Venezuela e le sue controllate statali detengono debiti per 143 miliardi, di cui 65 in forma di bond, gran parte dei quali emessi in dollari e per 49 miliardi sotto la legge USA.

La ristrutturazione si è resa necessaria, anche perché nel 2018 arriveranno in scadenza 9 miliardi di ulteriore debito e in cassa la banca centrale detiene appena 9,8 miliardi. L’Institute of International Finance (IIF) ha già convocato una riunione dei creditori per studiare una reazione unitaria. Non è chiaro, infatti, come Maduro intenderà procedere, ovvero se punta solamente ad allungare le scadenze o anche a tagliare il valore nominale dei bond (“haircut”) e gli interessi. (Leggi anche: Venezuela prepara ristrutturazione debito)

Resta il rischio default

Rinegoziare il debito sovrano appare un’operazione disperata, ma ormai tardiva e insufficiente. Senza una netta ripresa delle quotazioni del petrolio, infatti, Caracas non potrà sperare nemmeno di alleviare le sofferenze patite dalla popolazione. Gli analisti stimano che servirebbero quotazioni a 75 dollari al barile per allontanare lo spettro del default. Naturalmente, molto dipenderà anche dai termini della ristrutturazione concordati con i creditori.

Ad oggi, nonostante il crollo dei prezzi petroliferi, il Venezuela è stata in grado di onorare scadenze per complessivi 71 miliardi, anche se a costi enormi: tagliando le importazioni di beni e servizi e provocando così una carenza generalizzata persino di generi alimentari, alla base della rabbia popolare di questi ultimi mesi. Il petrolio è diventato, infatti, l’unica materia prima esportata dal paese andino, rappresentando il 95% dei dollari in ingresso.

Le riserve valutarie subiranno probabilmente un deterioramento meno veloce con la ristrutturazione del debito, ma non per questo i venezuelani potranno tornare a importare dall’estero. A mordere sono adesso anche le sanzioni finanziarie imposte dall’amministrazione Trump, che vietano alle banche e società con sede negli USA di rinnovare i prestiti al Venezuela. In sostanza, l’economia sudamericana è stata tagliata fuori dal mercato finanziario più importante del mondo, per cui da quel versante non potrà sperare più in un sostegno, magari da una qualche grande banca d’affari, com’è avvenuto anche di recente. (Leggi anche: Venezuela stremato vende oro)

Gli attacchi di Maduro alla Colombia

Il petrolio, per quanto in ripresa ai massimi da oltre due anni, non sembra destinato a salire a livelli tali da consentire a Maduro di accedere a una quantità di dollari sufficiente per tenere a galla l’economia nazionale. Peraltro, la produzione giornaliera di PDVSA è persino in calo, data l’insufficienza degli investimenti effettuati dalla compagnia, utilizzata come bancomat per la spesa assistenziale del governo. Il sistema dei cambi resta disfunzionale, con il tasso ufficiale tra bolivar e dollaro 4.300 volte più forte di quello vigente sul mercato nero. Ciò impedisce sia adeguate esportazioni di beni non petroliferi (ammesso che la produzione nazionale fosse sufficiente), sia un accesso sufficiente di valuta pesante straniera.

Tecnicamente, il default sarà astutamente evitato da Maduro, che teme altrimenti di non essere più in grado di reperire nuovi prestiti sul mercato dei capitali e forse nemmeno dai partners russi e cinesi. Rosneft, in particolare, ha già concesso dilazioni di pagamento per centinaia di milioni di dollari da qui al 2020 e detiene il 49,9% di Citgo, la controllata venezuelana con sede nel Texas, il cui controllo passerebbe in mani russe, nel caso di inadempimento da parte di PDVSA, ipotesi che sta allarmando lo stesso Congresso americano, che guarda con diffidenza al fatto che un importante asset petrolifero sul suolo USA possa essere gestito da Mosca.

La mossa di questi giorni non servirà al Venezuela, dunque, a ripartire, bensì solamente a prendere una boccata di ossigeno sul piano finanziario, con effetti possibilmente impercettibili per i 30 milioni di abitanti, che continueranno a fare lunghe file dinnanzi ai negozi e a trovare gli scaffali vuoti di pressoché ogni bene. Segno della degenerazione della crisi sono le accuse rivolte da Maduro contro il presidente colombiano Juan Manuel Santos di attaccare l’economia venezuelana attraverso “le mafie”, consentendo che i trafficanti trasportino camion carichi di banconote da 50 e 100 bolivares oltre confine. La tensione tra i due paesi è alta da mesi, essendo in atto un fitto contrabbando di merci e di valuta al loro confine, frutto delle enormi distorsioni alimentate dal governo di Caracas sul mercato dei cambi e dei beni nel Venezuela. Siamo ben lungi dalla fine di una crisi, che ha nella ristrutturazione del debito sovrano solo l’ennesima conferma della disperazione in cui il paese è andato a sbattere da qualche anno. (Leggi anche: Venezuela, da medici a prostitute in fuga verso la Colombia)