Due anni fa, c’era una lira a preoccupare i mercati, anche se sulla stampa internazionale se n’è discusso molto poco, date le scarse dimensioni dell’economia di cui parliamo. Era quella egiziana, che la banca centrale dovette far fluttuare liberamente verso la fine del 2016, quando nel paese iniziavano a manifestarsi quei sintomi preoccupanti tipici del Venezuela, ossia carenza di beni (la famosa crisi dello zucchero) e prezzi in ascesa. La reazione de Il Cairo fu pronta: il cambio fu disancorato dal “peg” contro il dollaro, mentre l’istituto iniziava ad alzare i tassi.

La politica monetaria, però, non è stata lasciata da sola, perché nel frattempo anche il governo ha fatto la sua parte, mentre richiedeva un prestito di 12 miliardi di dollari al Fondo Monetario Internazionale. Il deficit veniva tagliato con azioni volte a contenere la spesa pubblica da un lato e a migliorare il sistema di riscossione delle imposte dall’altro. Il governo punta, ad esempio, ad aumentare le entrate del 131% entro il 2021. Se nel 2016 il disavanzo fiscale era stato dell’11,2% del pil, lo scorso anno scendeva già al 9,5%.

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La principale riforma del presidente Abdel Fatah Al-Sisi è stata, però, un’altra: la riduzione graduale dei sussidi elargiti alla popolazione tramite prezzi alla vendita imposti più bassi di quelli di mercato. Tali sussidi pesavano e continuano a pesare sui conti pubblici e se da un lato la loro soppressione colpisce le famiglie più povere, dall’altro permette allo stato di perseguire gli obiettivi fiscali, combattendo proprio le cause della crisi.

I risultati delle riforme

I risultati non sono arrivati a tardare: nell’anno fiscale 2017-2018, il pil egiziano è cresciuto del 5,3%, in accelerazione dal 4,2% del 2016-2017. L’obiettivo del governo sarebbe di elevare il tasso di crescita al 7% entro il 2022 e secondo l’FMI, non sarebbe affatto velleitario, anzi per quell’anno dovrebbero diminuire rispetto ad oggi sia l’inflazione del 7% che la disoccupazione.

Proprio questi dati continuano ad essere i mali dell’economia egiziana: la popolazione da 94 milioni di abitanti cresce al ritmo del 2,4% all’anno, qualcosa come 2 milioni di persone in più all’anno da sfamare, con i nuovi posti di lavoro creati ad essere insufficienti allo scopo. Un giovane su quattro non trova occupazione, a fronte di un tasso generale di disoccupazione intorno al 10%. E i prezzi sono esplosi proprio in conseguenza dell’aumento dei prezzi sussidiati e del crollo del cambio, arrivando al 33% nell’autunno scorso. Tuttavia, già l’inflazione ha ripiegato in area 10-12%, consentendo alla banca centrale di tagliare i tassi due volte per complessivi 200 punti base nell’ultimo anno al 16,75%.

E la lira? Contrariamente al collasso quasi incessabile delle altre valute emergenti, quest’anno si è rafforzata del 5%, scambiando contro il dollaro quasi a 21, anche se rispetto al periodo pre-svalutazione ha perso fino a un massimo del 55%. Tuttavia, il cambio lasciato al libero mercato ha rinvigorito il settore privato, che ha trovato la valuta estera necessaria per le importazioni. Le riserve valutarie sono di fatto aumentate di quasi una ventina di miliardi, passando dai 25 ai 44,3 miliardi di dollari in meno di due anni, balzando di oltre 8 miliardi solo nell’ultimo anno. Una mano in tal senso la sta dando anche il miglioramento del settore turistico: nella prima metà del 2018, il numero degli stranieri in ingresso in Egitto è balzato del 41% a 5 milioni e per maggiori entrate del 77% a quota 4,8 miliardi. Entro l’anno, si attendono 9 miliardi di dollari, anche se bisogna fare i conti con i 14,7 milioni di turisti del 2010, dato ad oggi lontano.

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Le riforme di Al-Sisi

La crisi del settore è iniziata con i tumulti precedenti e seguenti alla caduta del regime di Hosni Mubarak.

La breve presidenza dell’islamista Mohammed Morsi si è caratterizzata per proteste, scontri e una crisi dilagante, fino al colpo di stato di Al Sisi, che ha ripristinato l’ordine, tutelando le minoranze cristiane (di queste ore la notizia della nomina di una donna cristiana come governatore di Giza, un fatto storico per lo stato a maggioranza mussulmana) e varato alcune riforme economiche impopolari nel breve termine, ma che starebbero già mostrando i loro frutti.

Il pil pro-capite resta relativamente molto basso, pari a poco più di 2.600 dollari l’anno, nettamente inferiore a quanto si stimi essere il livello minimo di sussistenza, specie dopo la fine di molti prezzi sussidiati. Bisogna considerare, però, che l’economia informale qui ammonterebbe al 40% del totale, per cui il dato reale sarebbe più alto. Dei 12 miliardi di prestiti ricevuti dall’FMI, 8 sono stati già incassati e stando ad alcune indiscrezioni, il rimborso avverrebbe dal maggio 2021 con una prima tranche da 2,75 miliardi e durerà fino al 2026. Tra le misure che starebbero stimolando la crescita, il taglio delle tasse sui nuovi investimenti e il miglioramento delle relazioni commerciali. Dallo scorso anno, è in vigore un accordo tra Egitto e Mercosur, l’area di libero scambio dell’America Latina. Il Cairo fa parte anche del COMESA, l’unione commerciale dell’Africa orientale e del sud e dell’African Continentale Free Trade Agreement, il maggiore accordo di libero scambio mai siglato al mondo, raccogliendo ben 43 stati.

Lungi dall’avere risolto i propri problemi, l’Egitto sembra dirigersi sulla strada giusta, con correzioni della sua politica fiscale nel senso di una maggiore responsabilità, una politica monetaria volta a contrastare l’inflazione e un cambio non più tenuto artificiosamente alto contro il dollaro. In più, sono stati liberalizzati gli scambi e incentivati gli investimenti esteri, tutti passi che dovrebbero negli anni consentire all’economia nordafricana di raggiungere quei tassi di crescita necessari per tenere il passo con le esigenze di una popolazione in costante aumento.

Per tendere all’obiettivo sono servite riforme impopolari e altre ne verranno. Ma dalla realtà l’Egitto era sfuggita per decenni, adesso sta scontrandosi con essa.

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