Sui mercati finanziari la tensione è palpabile. Nel giro di poco più di un mese e mezzo, il rendimento del Treasury a 10 anni è salito di 40 punti base o 0,40% sopra l’1,30%. Il trentennale americano ha ormai toccato il 2,10%. E’ bastato un minimo accenno di reflazione nel pianeta, che subito gli investitori hanno iniziato a vendere gli assets a reddito fisso per il timore di restare con in portafoglio titoli che producano perdite.

Una situazione simile si verificò nel 2013 e venne definita “taper tantrum” o “collera da frenata (degli stimoli monetari)”.

L’allora governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, annunciò che entro la fine dell’anno avrebbe iniziato a tagliare gli stimoli. La reazione del mercato fu brusca, oltre le stesse aspettative dell’istituto: in sei mesi, il rendimento decennale USA passò dall’1,30% al 3%.

Rispetto al 2013, se vogliamo, stiamo messi peggio. Secondo i dati dell’Institute for International Finance, il debito totale mondiale è passato dai 210 mila miliardi di dollari di 8 anni fa ai 281 mila miliardi del 2020, salendo dal 273% al 330% del PIL. Stati, aziende e famiglie sono complessivamente molto più indebitate, per cui un aumento del costo del denaro porterebbe a un salasso maggiore di quanto non sarebbe stato nel 2013.

Bond in calo, cos’è la ‘collera dei mercati’ e perché (forse) sta tornando

E non va meglio in borsa. In media, oggi le azioni quotano a circa 20 volte gli utili, nel 2013 il rapporto era di 12,5. Significa che le società quotate sono molto più apprezzate, cioè molte di queste sarebbero “iper-comprate” o sopravvalutate. Quanto ai bond, la “duration” media risulta passata nel frattempo da 6,5 a 8,5 anni, vale a dire che un aumento dei rendimenti determinerebbe oggi cali più marcati. Per non parlare del fatto che nel 2013 il fenomeno dei rendimenti negativi fosse ancora sconosciuto, mentre oggi riguarda fino a circa 18 mila miliardi di dollari di titoli, concentrati quasi esclusivamente in Europa e Giappone.

Le differenze con il 2013

Praticamente, viviamo in un mondo molto indebitato a tassi molto bassi, ma che rischiano di salire a causa della reflazione, rischiando in molti casi di rendere insostenibili molte esposizioni sovrane e corporate. Messa così, la situazione si mostrerebbe alquanto preoccupante. E in buona parte lo è. Ma rispetto al 2013, il “taper tantrum” dovrà fare i conti con banche centrali restie ad alzare il costo del denaro o anche solo a ritirare gradualmente gli stimoli monetari nei prossimi mesi, se non anni. La FED dovrebbe alzare i tassi USA non prima del 2024, mentre la BCE continuerà ad acquistare bond in misura massiccia almeno fino ai prossimi 13 mesi, di fatto monetizzando le nuove emissioni sotto la pandemia.

Nel 2013 si respirava ancora un “mood” semi-normale tra i governatori, mentre oggi tutti si mostrano fortemente intenti a sostenere le politiche fiscali espansive dei governi per non scatenare crisi economiche e rabbia sociale. Questo significa anche che c’è maggiore tolleranza verso i tassi d’inflazione, anche perché proprio dai primi mesi del 2013 in poi l’Europa, tanto per fare un esempio, non è stata più in grado di centrare il suo target “vicino, ma di poco inferiore al 2%”. Cosa significherebbe nel concreto una politica monetaria globale espansiva, a fronte di un’inflazione in piena ripresa? Da un canto, perdite a carico dei detentori di obbligazioni, i cui rendimenti reali risulterebbero ancora più bassi. Dall’altro, maggiore sostenibilità dei debiti. Tra crescita economica e un po’ d’inflazione, il loro peso si sgonfierebbe nell’arco degli anni.

Facciamo un esempio concreto per capirci. Supponiamo che l’Italia cresca nei prossimi 10 anni al ritmo medio dell’1% all’anno e che registri un’inflazione annua del 2%. Il suo PIL nominale in 10 anni salirà di oltre il 34%. Immaginando per semplicità di calcolo che dopo il 2020 chiudessimo sempre i bilanci in pareggio, il rapporto tra debito e PIL nel 2030 scenderebbe sotto il 120%.

Se, invece, l’economia italiana crescesse sempre dell’1%, ma l’inflazione si fermasse anch’essa all’1%, il rapporto debito/PIL a fine decennio resterebbe sopra il 130%. Nel primo caso, dunque, la maggiore inflazione lo avrà reso più sostenibile. Ma chiaramente, questo ha un costo: i contribuenti pagherebbero minori interessi sui debiti accumulati, ma il conto ricadrebbe su coloro che compreranno i bond, siano essi risparmiatori o investitori istituzionali. E poiché questi ultimi impiegano liquidità per conto e a favore dei clienti, una simile prospettiva implicherebbe una minore remunerazione del risparmio nelle sue varie forme, comprese future pensioni integrative più basse. E la repressione finanziaria, bellezza!

La repressione finanziaria spinge già a guardare ai paesi emergenti, fate attenzione

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