Non sono arrivate le buone notizie che i mercati speravano per il dato sull’inflazione negli Stati Uniti a settembre. L’indice dei prezzi è cresciuto dello 0,4% su agosto e dell’8,2% su base annua. Il dato “core” è salito dello 0,6% mensile del 6,6% annuo, il livello maggiore da 40 anni. Questi numeri segnalano la persistenza dell’inflazione americana, nonostante la Federal Reserve abbia alzato i tassi d’interesse fino al 3,25% a settembre. A questo punto, le aspettative sono tassi FED in rialzo di ulteriori 75 punti base anche al board di inizio novembre e di altrettanto sarebbe la stretta di dicembre.

Alla fine dell’anno, quindi, il costo del denaro salirebbe al 4,75%. Ed entro la prima metà dell’anno prossimo, arriverebbe al 5%.

Recessione USA non in vista

Dunque, i mercati stanno intravedendo livelli per i tassi FED neppure presi in considerazione fino a qualche mese fa. Ciò alimenta pessimismo in borsa, dove i prezzi delle azioni scendono. Non va meglio alle obbligazioni, con il T-bond a 10 anni che superava il rendimento del 4% dopo la pubblicazione del dato di settembre. Non accadeva dal 2008.

Sempre monitorando i contratti derivati, scopriamo che il mercato si aspetta solo un mini-taglio dei tassi FED dello 0,25% entro la fine del prossimo anno. E ciò da un lato confermerebbe le aspettative di un ripiegamento per l’economia americana, dall’altro le condizioni di salute di questa non peggiorerebbero al punto tale da richiedere una decisa inversione di tendenza al governatore Jerome Powell. Almeno non nel medio termine.

Da tassi FED a super dollaro e spread

Fatto sta che il rialzo dei tassi FED, per quanto drastico, non stia esitando ancora gli effetti sperati. E non fa che rafforzare il dollaro contro le altre valute, attirando capitali negli Stati Uniti dal resto del mondo. Inoltre, crea pressioni sui rendimenti sovrani europei, a causa della crescente concorrenza dei T-bond.

Il BTp a 10 anni è di fatto a un passo dal 5%, mentre il Bund decennale sembra dirigersi verso il 2,50%.

Quanto accade dall’altra parte dell’Atlantico suggerisce anche che la lotta all’inflazione non sarà affatto breve. Nell’Eurozona, l’indice dei prezzi è salito mediamente del 10% a settembre, cioè più in alto degli Stati Uniti. C’è la crisi dell’energia a fare esplodere i costi di produzioni e il peggio non sarebbe alle spalle, come segnalano i prezzi alla produzione, in crescita del 40-45% su base annua in economie come Italia e Germania.

Inflazione alta a lungo

Del resto, le stesse stime ufficiali iniziano a incorporare tassi d’inflazione elevati anche per il prossimo anno. In Italia, ad esempio, il governo Draghi ha stimato un +4,3% per i prezzi al consumo. Sarebbe sì un rallentamento dall’8,9% a cui è sinora arrivata l’inflazione, ma pur sempre a livelli più che doppi del target BCE al 2%. E questo non può che significare una cosa: i tassi d’interesse continueranno a salire anche nell’Eurozona e saranno presto a quel livello “neutrale” prospettato da Francoforte in area 2,50%. A quel punto, saranno tagliati anche i reinvestimenti dei bond posseduti in portafoglio con il “quantitative easing” e il PEPP. E a sua volta, questa misura terrà elevati i rendimenti sovrani, facendo pressione sui prezzi dei bond.

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