L’ondata di arresti di centinaia di principi, ministri in carica ed ex, alti funzionari e di uomini d’affari in Arabia Saudita puzzava sin dall’inizio di soldi e, in effetti, sembra proprio che avrebbe a che fare con la sete di liquidità di Riad. Il regno ha chiuso gli ultimi due bilanci statali in profondo rosso, a causa del crollo delle quotazioni di petrolio, dalle cui esportazioni dipendeva nel 2014 l’85% delle entrate. Nel 2016, il disavanzo fiscale è stato di 79 miliardi, pur in netto calo dai circa 95 dell’anno precedente.

Per ovviare alla crisi fiscale, Riad ha utilizzato le riserve valutarie, intaccandole per circa 150 miliardi negli ultimi 3 anni, è tornata ad emettere bond a medio-lunga scadenza per la prima volta da oltre un decennio e sta varando riforme economiche per sganciare progressivamente l’Arabia Saudita dalla dipendenza verso il petrolio. Tra queste misure, vi rientra anche il sostegno all’occupazione privata, in un paese dove la stragrande maggioranza dei pochi attivi lavora alle dipendenze dello stato e dove gli immigrati pesano per un terzo dell’intera popolazione del regno, producendo beni ed erogando servizi per i sauditi. (Leggi anche: Gli arresti sauditi puntano a espropri per $800 miliardi?)

Da qui al prossimo decennio, 5 milioni di persone entreranno sul mercato del lavoro e se per allora non si saranno rialzate le quotazioni petrolifere in maniera sostanziosa, il rischio per la monarchia dei Saud, di fatto ormai retta dal Principe Mohammed bin Salman, sarebbe di non potere loro offrire alcun tipo di sostentamento o di lavoro pubblico. Ecco, quindi, che mentre si attende l’implementazione delle riforme, Riad starebbe trovando una scorciatoia per fare cassa: arrestare gli uomini più facoltosi del regno con l’accusa di corruzione (il più delle volte è più che giustificata da decenni di malefatte), costringendoli a scegliere tra libertà e gran parte delle ricchezze possedute.

La tassa patrimoniale per riottenere la libertà

Le vittime dell’ultima ondata di arresti di qualche settimana fa sono tenute presso l’Hotel Ritz-Carlton della capitale. Persone vicine all’operazione hanno riportato alla stampa straniera che sarebbe stata loro proposta un’offerta: tornare subito in libertà, ma rinunciando al 70% dei loro patrimoni. In sostanza, è come se il principe stesse imponendo una tassa patrimoniale salatissima sulle grandi ricchezze dei sauditi più facoltosi, in modo da trovare la liquidità sufficiente per tamponare le casse statali per i prossimi mesi e anni. L’obiettivo, secondo tali fonti, sarebbe di racimolare non meno di 100 miliardi, ma le previsioni punterebbero già a 300 miliardi. Stando ad alcune calcoli effettuati dallo stesso procuratore saudita che si occupa ufficialmente dei casi, gli assets congelabili arriverebbero a 800 miliardi, il 120% del pil saudita. (Leggi anche: Una mega-città quotata in borsa per superare il petrolio)

Tra i nomi illustri compaiono personalità di spicco e potentissime, come Alwaleed bin Talal, che detiene un patrimonio stimato fino a un massimo di 32 miliardi di dollari, con investimenti in Twitter, Citigroup e News Corp, quest’ultimo il colosso mediatico di Rupert Murdoch. Se l’operazione andasse in porto, decine o centinaia di miliardi di dollari fluirebbero nelle casse statali, tagliando il deficit e facendo guadagnare al regno tempo prezioso per l’attuazione della “Saudi Vision 2030”. In più, le purghe fungerebbero anche da catalizzatore del consenso tra i sudditi, costretti da qualche tempo a fare sacrifici, rinunciando a parte dei lauti sussidi energetici a cui erano stati abituati e non essendo loro più garantito un posto di lavoro pubblico. Se austerità deve essere, che sia per tutti, anche per i ricchi, percepiti in molti casi da sempre come approfittatori delle loro posizioni ricoperte sul piano istituzionale e dei rapporti di vicinanza con la monarchia.

In un colpo solo, il principe guadagnerebbe consensi e soldi.