Settimana scorsa, il Senato ha approvato in terza lettura il taglio dei parlamentari, secondo il testo presentato alle Camere dalla maggioranza giallo-verde. A Montecitorio siederanno 400 deputati anziché 630, a Palazzo Madama 200 senatori al posto di 315. In tutto, la “sforbiciata” sarà di 345 parlamentari. Unico gruppo ad opporsi è il PD, mentre Forza Italia, pur favorevole alla riforma costituzionale, ha lasciato l’Aula al momento del voto, contrariata dagli effetti potenzialmente negativi che il taglio avrebbe sulla democrazia. Aldilà della bontà del testo, esistono almeno 2-3 punti che sarebbe bene che Movimento 5 Stelle e Lega valutassero meglio prima di accorgersi a posteriori che la frittata è stata fatta.

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Anzitutto, restano i senatori a vita. Attualmente, sono sei, di cui 5 di nomina presidenziale e 1 (Giorgio Napolitano) di diritto, in quanto ex capo dello stato. Qual è il problema? I senatori a vita formalmente hanno il diritto di partecipare anche al voto di fiducia per il governo. E sappiamo quante polemiche vi furono tra il 2006 e il 2008, quando l’allora esecutivo di Romano Prodi si resse proprio con i loro voti determinanti. Ora, 6 su 315 (gli attuali membri del Senato) sono un cosa, 6 su 200 un’altra. In pratica, paradossalmente i due partiti più critici verso la stessa esistenza dei senatori a vita finirebbero per assegnare loro un maggiore potere di incisività nelle prossime legislature, qualora la maggioranza fosse in bilico al Senato. Non sarebbe stato opportuno modificare con legge costituzionale anche questo istituto, sopprimendoli o limitandone il potere di voto?

Secondo aspetto non meno importante: l’elezione del presidente della Repubblica. Votano tutti i deputati e i senatori riuniti in seduta comune, a cui si aggiungono i 58 rappresentanti delle regioni (3 per regione, 1 solo per la Valle d’Aosta). Diminuendo il numero dei parlamentari, ma rimanendo fermo quello dei componenti regionali nominati, l’elezione del prossimo capo dello stato sarebbe maggiormente influenzata dalle regioni.

Nulla di male in sé, ma ciò risulterebbe non già da una volontà politica espressa, quanto per una sottovalutazione degli effetti del taglio.

I rischi per i partiti medio-piccoli

Infine, qualche preoccupazione serpeggia tra i partiti anche di medie dimensioni. La nuova legge elettorale applicata per la prima volta il 4 marzo 2018 prevede che circa un terzo dei parlamentari venga eletto in collegi uninominali e poco meno dei due terzi attraverso il sistema proporzionale. Riducendosi il numero complessivo, i seggi assegnati da ciascuna regione con il proporzionale scendono, ma così il potere di rappresentanza dei partiti minori si riduce. Facciamo un esempio: le Marche nel 2018 hanno inviato alla Camera 16 deputati, di cui 10 con il proporzionale e 6 con l’uninominale. Con il taglio, eleggerebbero 10 deputati, di cui 6 con il proporzionale e 4 con l’uninominale. Nei fatti, qui un partito per accedere alla Camera con il proporzionale dovrebbe ottenere almeno il 10-15% dei consensi. Un po’ troppo alta come soglia di sbarramento implicita, sebbene non sarebbe affatto male che finalmente in Italia una legge elettorale iniziasse a ridurre il numero dei partiti, concentrando l’elezione di deputati e senatori tra poche liste realmente rappresentative.

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Il taglio dei parlamentari, in definitiva, è certamente buona cosa, anche se sarebbe stato meglio potenziare la scure sul Senato e magari lasciando intatto il numero dei deputati, considerando che la Germania ne manda al Bundestag oltre 600, il Regno Unito ben 650 e la Francia 576. Insomma, 400 sono pochi, pur essendo impopolare dirlo pubblicamente. La questione vera è un’altra, cioè se non sia preferibile accompagnare la riduzione con altri correttivi per non sminuire il Parlamento nei due momenti apicali a cui è chiamato: concedere la fiducia al governo ed eleggere il capo dello stato.

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