L’inflazione in Italia è salita all’8% a giugno, il dato più alto dal 1986. Le famiglie stanno subendo un vero e proprio collasso della capacità d’acquisto, persino più che negli anni Settanta e Ottanta, quando l’inflazione correva a doppia cifra. In quel periodo, infatti, gli stipendi aumentavano quasi allo stesso ritmo. Invece, in questi mesi stanno rimanendo fermi, complice un mercato del lavoro in pessime condizioni. Nel tentativo di offrire sollievo ai redditi, dentro il governo avanza l’ipotesi di un taglio dell’IVA sul cosiddetto “carrello della spesa”, cioè sui prodotti di largo consumo.

L’idea arriva dal ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta.

Taglio dell’IVA su beni di prima necessità

In cosa consisterebbe? Abbassare l’aliquota IVA perlomeno su generi alimentari e farmaci. La direttiva comunitaria lo consente, prendendo atto della fase straordinaria che l’Europa sta vivendo. La Germania è riuscita per questa via a calmierare un po’ i prezzi. L’inflazione tedesca a giugno è scesa dal 7,9% al 7,6%.

Il taglio dell’IVA riguarderebbe essenzialmente beni e servizi su cui gravano ad oggi le aliquote del 4-5% e del 10%. Secondo Brunetta, le coperture finanziarie arriverebbero dall’extra-gettito IVA, che nei primi cinque mesi dell’anno è stato pari a 10 miliardi di euro. Si tratta di entrate extra per lo stato grazie all’inflazione. Infatti, poiché i prezzi al consumo corrono, le aliquote gravano su una base imponibile sempre più alta.

Tuttavia, il ministro dell’Economia, Daniele Franco, resta titubante. Viale XX Settembre eccepisce che un taglio dell’IVA siffatto andrebbe a vantaggio di tutti i consumatori, anche di coloro che hanno redditi alti. Invece, la linea Draghi-Franco è stata in questi mesi di aiuti selettivi, vale a dire alle sole categorie economicamente svantaggiate. Questa è stata, ad esempio, la logica del caro bollette e del bonus 200 euro. Non lo stesso dicasi per il taglio delle accise, che è stato uguale per tutti.

Possibile costo dell’aiuto per tutti

L’ipotesi del taglio dell’IVA, comunque sia, non andrebbe abbandonata. Sarebbe certamente costosa, ma forse meno di misure alternative e “selettive”. Dimezzare le aliquote IVA del 4-5% e 10% provocherebbe un minore gettito per lo stato sui 25 miliardi di euro. Troppo. Servirebbe selezionare un paniere di prodotti di base per ridurre il costo. Ma l’operazione rischierebbe di essere arbitraria e di seminare malcontento tra i produttori/venditori di altri beni e servizi. Ad esempio, un taglio di capelli sarebbe da considerarsi un servizio “di lusso” o elementare per il cittadino? Pasta e pane andrebbero agevolati alla pari di una pizza al ristorante?

Ad occhio e croce, tra generi alimentari consumati a casa e farmaci, abbiamo una spesa (IVA compresa) prossima ai 110 miliardi di euro. Agire su di essa sarebbe possibile. Il costo di un punto di IVA in meno sarebbe pressappoco intorno a 1 miliardo di euro.

E ridurre l’inflazione agevola gli stessi consumi, contenendo la perdita del potere d’acquisto. E per ogni punto di crescita in meno, i risparmi per lo stato solamente sul fronte pensioni sono stimabili in 3 miliardi. Ricordiamo, infatti, che gli assegni sono indicizzati all’inflazione (al 100% fino a quattro volte il trattamento minimo), per cui più bassa l’inflazione, minore l’esborso extra dello stato a partire dall’anno prossimo.

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