Commissione e Parlamento europei hanno trovato un accordo sulla direttiva per introdurre il salario minimo in tutti i 27 stati dell’Unione Europea, inclusi i sei che ad oggi non lo adottano, tra cui figura l’Italia. Non sarà, tuttavia, imposta alcuna soglia di riferimento, se non la generica formula relativa alla garanzia di “una vita dignitosa per i lavoratori europei”. In Italia, l’ex premier Giuseppe Conte ha preso la palla al balzo per chiedere che il salario minimo sia introdotto per il mercato del lavoro italiano.

Confindustria ha reagito negativamente, ribadendo la sua proposta di tagliare il cuneo fiscale.

Tasse alte, stipendi bassi

Il cuneo fiscale è la differenza tra il costo del lavoro sostenuto dall’impresa e il salario netto percepito dal dipendente in busta paga. Tale differenza è data dai contributi previdenziali e dall’imposta sui redditi o IRPEF. Secondo i dati OCSE, nel 2021 ammontava al 46,5% in Italia, nettamente sopra la media dell’area del 34,6%. Certo, i dati risultano ancora superiori in paesi come Germania (48,1%) e Francia (47%).

Il grosso del cuneo fiscale è dato dalle elevate aliquote INPS. Sappiamo che il datore di lavoro versa all’ente di previdenza il 23,81% del salario lordo del dipendente, mentre su quest’ultimo ricade l’onere dell’8,89%. In totale, 32,7%, cioè un terzo della retribuzione. In altre parole, a fronte di una paga lorda mensile di 3.000 euro, l’impresa deva versare all’INPS quasi 715 euro e il lavoratore più di 265 euro.

Un cuneo fiscale troppo alto ha l’effetto sia di deprimere le retribuzioni nette e, quindi, i consumi interni, sia di disincentivare al lavoro. Confindustria ha proposto di abbatterlo di 16 miliardi di euro all’anno, per due terzi a carico del lavoratore e per il restante terzo a favore dell’impresa. Stando ai suo calcoli, le retribuzioni fino a 35.000 euro lordi crescerebbero di 1.223 euro, una mensilità in più all’anno.

D’accordo su questa posizione si è espressa sinora Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, secondo cui gli 8 miliardi di euro destinati al taglio dell’IRPEF sarebbero stati resi più efficienti impiegandoli per questa iniziativa.

Taglio del cuneo fiscale per i dipendenti under 30

Si potrebbero prendere in considerazione altre strade: concentrare il taglio del cuneo fiscale su una fascia dei lavoratori molto indietro rispetto al resto d’Europa. Parliamo dei giovani tra 15 e 29 anni, i cui tassi di occupazione in Italia si attestano di poco sopra il 32% contro un quasi 50% della media UE. In tutto, appena 2,9 milioni di occupati. Se volessimo tende alle percentuali europee, dovremmo creare almeno altri 1,5 milioni di posti di lavoro in questa fascia di età.

Lo stato potrebbe abbattere i contributi previdenziali anche del 50-60%, così da incentivare le assunzioni e spronare al lavoro. I cosiddetti NEET – coloro che non lavorano, non studiano, non frequentano alcun corso di formazione e non cercano attivamente un’occupazione – nel 2021 erano stimati in oltre 3 milioni. In grossa parte, trattasi proprio di giovani e, soprattutto, donne. Il taglio del cuneo fiscale sarebbe uno shock capace di generare occupazione e alzare gli stipendi, frenando quel flusso migratorio verso l’estero che ormai è diventato un fenomeno strutturale del nostro mercato del lavoro.

Il taglio del cuneo fiscale, tuttavia, impone un minore gettito fiscale e contributivo. E l’INPS già oggi spende per le pensioni più dei contributi che incassa. Per questo sarebbe preferibile proprio concentrare le risorse su una platea particolare di lavoratori, così da generare quello shock necessario per invertire la tendenza e coprire negli anni il costo attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro con annesso extra-gettito. Nell’immediato, si potrebbero recuperare risorse dal reddito di cittadinanza per finanziare la misura: fissare un’età (30-40 anni?) sotto la quale il sussidio sarebbe o negato del tutto o almeno fortemente limitato.

Meno assistenza e più lavoro, solo così l’Italia può svoltare.

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