Il taglio del numero dei parlamentari è stato approvato in via definitiva, anche se servirà un referendum confermativo per trasformarlo in legge, qualora lo richiedessero almeno 126 deputati o 64 senatori o 5 Consigli regionali o 500.000 elettori. Ad ogni modo, salvo imprevisti, la Camera avrà dalla prossima legislatura 230 deputati in meno, il Senato 115 senatori in meno. Scenderanno rispettivamente a 400 e 200, sfoltiti di oltre un terzo. Si starà più comodi sulle poltrone di Montecitorio e Palazzo Madama e i contribuenti italiani spenderanno di meno per mantenere l’apparato politico nazionale.

Quanto? Girano conti molto differenti da fonte a fonte, ma vi proponiamo il seguente calcolo effettuato sulle spese sostenute nel 2018 dai due rami del Parlamento per emolumenti e rimborsi: 144,9 milioni alla Camera, quasi 80 milioni al Senato, rispettivamente pari a 230.000 euro per deputato e quasi 250.000 per senatore.

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Moltiplicando i risparmi unitari attesi per il numero dei deputati e dei senatori “tagliati” con la riforma, otteniamo che alla Camera spenderemmo 52,9 milioni in meno e al Senato 28,7 milioni in meno, per un risparmio complessivo di 81,6 milioni. Buttali via, diremmo. Farebbero 1,35 euro all’anno in meno per ciascun residente sul territorio nazionale, qualcosa come un cappuccino in più, sempre che questi risparmi non prendano, almeno in parte come vedremo, altre vie. Dunque, la riforma è da intendersi positivamente o negativamente, a seconda del punto di vista, ma non di certo sulla base della minore incidenza sulla spesa pubblica, che sarebbe pari a meno di un decimillesimo all’anno.

Una premessa doverosa: la democrazia costa. Essa non deve essere pletorica, né giustificare privilegi e agi che non avrebbero ragione di esistere, come diversi se ne sono scoperti in questi anni e che hanno giustamente fatto infuriare la stragrande maggioranza degli italiani. La rappresentanza popolare dovrebbe essere improntata a una sobria dignità, mai allo sfoggio cafonesco a cui abbiamo assistito, in particolare, nel corso della Seconda Repubblica.

Tuttavia, l’equivalenza tra parlamentare e costo in sé porta alla facile conclusione che la stessa democrazia sia un peso economico inaccettabile. Se è così, allora meno ipocrita sarebbe un dibattito sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sulla costruzione di un’alternativa condivisa, almeno come sentore comune. Perché alla lunga, costeranno “troppo” anche 400 deputati e 200 senatori.

L’attacco alla democrazia parte da lontano

C’è qualcosa di pericoloso che si cela dietro ad argomentazioni come quelle portate avanti senza convinzione dalla stragrande maggioranza degli stessi parlamentari, costretti a inseguire le piazze urlanti per non finire oggetto di gogne mediatiche: l’idea che gli eletti non debbano meritare alcun riconoscimento per la funzione svolta, né che essi possano ritagliarsi uno spazio di riflessione autonomo rispetto a verità calate dall’alto come tali e spesso sulla base di campagne prive di giudizio, acritiche e semplicemente miranti a travolgere l’esistente senza mediazioni. Da quando nel 2007 uscì “La Casta”, a firma di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, l’indebolimento della già molto cagionevole politica non ha avuto fine, mentre a rafforzarsi sono stati i poteri “tecnocratici” interni ed esteri, che hanno nei fatti ormai trasformati governi e Parlamento in forze eterodirette e senza alcuna autonomia decisionale, commissariandone l’operato.

E se vogliamo dircela tutta, in una realtà come l’Italia, dove gli eletti non si sono certo distinti per onestà e coerenza, la corruzione avrà vita ancora più facile con i numeri più ristretti di deputati e senatori. Basterà “avvicinare” un gruppetto di parlamentari numericamente inferiore per ottenere il favore richiesto e finanche affossare un governo. Pensate che all’estero le maggioranze spesso si reggono per l’intera legislatura e senza inceppamenti su un vantaggio anche esiguo di deputati rispetto alle opposizioni, mentre in altri casi non sono nemmeno assolute, bensì relative.

In Italia, quando al Senato si vantano 5-6 o anche 10 senatori di vantaggio, si parla di governi traballanti, perché è – ahi noi – nella natura della nostra politica il tradimento del mandato popolare ricevuto. E i senatori a vita peseranno ancora di più nel nuovo Senato a 200 membri: i 5 membri esistenti incideranno per il 2,5%, ad oggi per quasi l’1,6%. Meritevoli di nomina, certo, ma non risultano eletti da nessuno, eppure potrebbero determinare ancora di più gli equilibri politici.

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Più burocrati al posto dei politici

Infine, spogliamoci dell’ipocrisia sui risparmi, che non riguardano tanto e solo la sfera politica propriamente detta, bensì il sottobosco di nomine e burocrati contiguo alla politica medesima, come nel caso delle migliaia di partecipate a ogni livello. Mentre stiamo mandando a casa 345 tra deputati e senatori, vengono assunti 300 assistenti parlamentari. Avremo minore rappresentanza popolare e maggiore burocrazia, l’esatto opposto di quanto servirebbe all’Italia. Del resto, siamo diventati da decenni la Repubblica dei tecnici, che ha preso il sopravvento sulla politica, dettandone le scelte e facendo divorziare eletti ed elettori, come dimostra il giubilo nazionale di queste ore per il taglio dei parlamentari.

Gli assistenti verranno assunti con stipendio lordo annuo di base di quasi 35.000 euro, per cui incideranno sulle casse statali per oltre 10 milioni all’anno. Ma se l’esperienza ci insegna qualcosa, fra 10 anni percepiranno già sui 70.000 euro e peseranno su tutti noi contribuenti per oltre 20 milioni all’anno, riducendo di un quarto i risparmi attesi con il taglio dei parlamentari. E non potremmo più permetterci nemmeno quel cappuccino in più ogni anno, che ieri maggioranza e opposizioni ci hanno gentilmente offerto nella speranza di intenerire i nostri cuori induriti da anni di attacchi indiscriminati contro ogni obiettivo mobile del campo politico.

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