Cyril Ramaphosa è il nuovo presidente del Sudafrica, sostituendo il predecessore Jacob Zuma con un anno di anticipo su pressione dell’African National Congress, che ha intimato a quest’ultimo di lasciare la carica, onde evitare di essere destituito con un voto di sfiducia praticamente pronto. La nomina ad interim del Parlamento fino alle elezioni presidenziali della primavera 2019 consente già al nuovo leader di muove i primi passi in fase di redazione del bilancio per il nuovo anno 2018/2019. E i segnali che sono arrivati da Ramaphosa, considerato business-friendly e per questo acclamato dai mercati con un rafforzamento del cambio ai massimi da tre anni e un tracollo dei rendimenti sovrani, appaiono tutt’altro che improntati a una svolta riformatrice.

Nel suo discorso dinnanzi al Parlamento, il neo-presidente si è detto intenzionato a “sanare le divisioni” interne alla società sudafricana. E sin qui, tanto di cappello, specie dopo 9 anni burrascosi di presidenza Zuma. E’ quando chiarisce cosa intenda per sanare le divisioni, che qualche brivido lo ha fatto venire alla schiena di più di un investitore. Egli ha definito “peccato originale” la conquista delle terre da parte della minoranza bianca nel 17-esimo secolo, sostenendo che la legislazione nazionale già oggi preveda la possibilità di superare tale ingiustizia, espropriando le terre ai bianchi senza indennizzo e redistribuendole alla maggioranza nera.

Riforme economiche possibili dopo Zuma, ma per ora che succede?

Terre ai neri e IVA, un esordio non brillante

Lo scorso anno, lo stesso Zuma aveva avanzato una simile ipotesi, archiviata come boutade dai più e percepita quale tentativo estremo di risollevare i propri consensi, in declino da tempo. Ci sta che Ramaphosa, ex sindacalista e oggi tra gli uomini più ricchi dell’economia emergente, si prepari alle prossime elezioni con qualche tono sopra le righe, volto a serrare i ranghi dentro il suo partito.

Spaventa che abbia approfittato del suo discorso d’insediamento per sferrare un attacco alla minoranza bianca, paventando le stesse politiche dagli esiti tragici del vicino Zimbabwe di Robert Mugabe, ex presidente ultranovantenne, deposto tre mesi fa dopo 37 anni di potere e che ha distrutto l’economia del suo paese, facendola sprofondare nell’iperinflazione e fermando le lancette dell’orologio della crescita dal suo arrivo al potere alla sua estromissione del novembre scorso.

Difficile che Ramaphosa metta in pratica la minaccia ventilata nel suo primo discorso ufficiale da presidente. Invece, è certo che l’IVA nel Sudafrica salirà dal 14% al 15% per la prima volta dal 1993. Obiettivo: tagliare il deficit dal 4,3% dello scorso anno al 3,5% del 2020/21. Al contempo, il governo ha rivisto al rialzo la crescita del 2017 dallo 0,7% precedentemente atteso all’1%. Positivo che il governo cerchi di stabilizzare il rapporto debito/pil fino a un massimo del 56% da qui a 4 anni, ma certo che esordire alzando le tasse, per quanto colpendo i consumi e non i redditi, non sembra un ottimo biglietto di presentazione per un leader, che sin dalla sua elezione a successore di Zuma dentro l’ANC a novembre aveva suscitato grosse aspettative.

Il rand si è rafforzato di quasi il 20% contro il dollaro in poco più di tre mesi, mentre la borsa ha perso nel frattempo oltre il 5%, colpita proprio dall’apprezzamento del cambio. Crollati anche i rendimenti sovrani, che per la scadenza decennali sono scivolati a poco più dell’8% dal 9,3% di fine novembre. Insomma, i capitali sono tornati ad affluire nel Sudafrica, in attesa di una svolta politica, che dovrebbe porre fine alla stagnazione del pil ereditata dall’era Zuma, conseguente a una cattiva gestione dell’economia. Certo, da Ramaphosa ci si aspettava un cambio di rotta all’insegna di toni più distesi verso il mondo del business, non certo la minaccia di copiare il modello fallimentare di Mugabe.

Boom rand sudafricano, Zuma sfiduciato

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