Le azioni TIM a Piazza Affari sono esplose dai 35 centesimi di euro di venerdì scorso ai 46 di ieri, ma pur sempre sotto i 50,50 centesimi proposti da Kkr con l’OPA totalitaria “amichevole” finalizzata al delisting. Il fondo americano valorizza così la compagnia telefonica 11 miliardi di euro, molti di più dei 7,55 miliardi a cui capitalizzava fino a un paio di sedute fa. Il governo si è trincerato dietro il silenzio, avendo reagito al lancio dell’offerta con un comunicato ufficiale per esprimere il suo apprezzamento circa l’interesse degli investitori stranieri verso gli asset del Bel Paese.

Ma nella maggioranza, tutti i partiti, con la parziale eccezione di Italia Viva, chiedono che il governo eserciti il “golden power” e nazionalizzi la rete. Stessa soluzione prospettata da Fratelli d’Italia dall’opposizione. Il timore diffuso in Parlamento è che l’offerta di Kkr finisca per creare uno “spezzatino” tra servizio e rete TIM. Sul primo sarebbero scaricati i debiti della controllante, così come avvenne subito dopo l’infausta privatizzazione degli anni Novanta. E il fondo userebbe la rete per attingere ai copiosi finanziamenti europei legati alla digitalizzazione ed erogati tramite il Recovery Fund. In ballo ci sono complessivamente quasi 50 miliardi, di cui 41 europei e 8 complementari del governo italiano nell’arco dei prossimi sei anni.

TIM fa gola, quindi, perché sarebbe un asset imprescindibile per accedere ai tanti miliardi stanziati da Bruxelles a sostegno dell’innovazione. Il problema che si pongono in molti, a questo punto, è il seguente: Kkr digitalizzerebbe realmente il territorio nazionale o opererebbe da fondo mordi e fuggi?

Complessa partita geopolitica

Non è l’unico fattore attrattivo di TIM. La compagnia risulta oggi partecipata da Vivendi, primo azionista con una quota del 23,81%. Il socio francese non controlla il consiglio di amministrazione per effetto di un blitz avvenuto nel 2018 da parte della Cassa depositi e prestiti e in sintonia con fondi stranieri come Elliott.

La famiglia Bolloré non vuole disfarsi della rete, puntando a controllare l’asset che più le interessa. L’OPA di Kkr appare a tutti gli effetti come un’operazione anti-francese (e di fatto Vivendi ha bocciato l’offerta), forse non a caso avanzata alla vigilia della firma del cosiddetto Trattato del Quirinale, un accordo italo-francese ignoto persino al Parlamento e gestito dal presidente Sergio Mattarella.

In tanti temono che esso celi insidie ai danni dell’industria italiana e a favore della finanza transalpina. Che da anni certi poteri industriali, politici e mediatici siano asserviti a Parigi è un dato di fatto. L’America ha deciso di passare al contrattacco, non volendo perdere un alleato geopolitico strategico nel Mediterraneo. E non dimentichiamo che il 35% di CDP Reti, una controllata della CDP che a sua volta controlla infrastrutture come Italgas, Snam e Terna, si trova in mano alla cinese State Grid Corporation of China.

Lo stesso Kkr ha rilevato nel 2020 da TIM il 37,5% di FiberCop, la società che gestisce la rete secondaria, quella che va dall’armadio in strada alle case degli utenti. Infine, la CDP detiene anche il 60% di Open Fiber, società della fibra ottica con cui la rete TIM avrebbe dovuto fondersi, ma sulla cui operazione è arrivato lo stop dell’Unione Europea per ragioni di concorrenza. Il restante 40% sarà detenuto dal fondo australiano Macquarie, il quale lo ha rilevato da ENEL (e CDP è passata dal 50% al 60%).

Scorporo tra rete e servizio TIM

In sostanza, attorno a TIM gravitano poteri finanziari francesi, americani e australiani, oltre che naturalmente italiani. Attenzione anche a un dettaglio niente affatto secondario: la compagnia è a capo di Sparkle, una società che possiede 600.000 km di cavi sottomarini e tra i primi operatori al mondo. Di fatto, essa gestisce le telecomunicazioni tra governi e della difesa tra le due sponde dell’Atlantico, nonché 10 miliardi di transazioni finanziarie ogni giorno.

Un asset fin troppo sensibile per lasciarlo in mani “inopportune”.

La partita è molto seria e complicata. Opporsi all’OPA di Kkr significherebbe consegnarsi ai francesi, i quali hanno dimostrato in questi anni di non volere e sapere fare gli interessi di TIM e del Bel Paese, così come in passato era accaduto sotto il controllo della spagnola Telefonica. Acconsentire senza riserve spalancherebbe d’altra parte le porte a uno “spezzatino” tendenzialmente lesivo degli interessi societari stessi e nazionali. Lo scorporo tra rete e servizio si renderebbe necessario prima dell’OPA, ma i tempi tecnici non ci sarebbero più. E, soprattutto, cosa fare della rete dopo lo spin-off? Aggregarla con Open Fiber? Se sì, quest’ultima, ergo lo stato tramite la CDP, avrebbe la maggioranza? Oppure tendere a una fusione con FiberCop, cioè con lo stesso Kkr? E in questo caso, il controllo sarebbe dello stato?

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