Mentre i governi europei si accapigliano sul “Nutriscore”, il semaforo alimentare per segnalare ai consumatori se il prodotto acquistato sia o meno salutare, un’altra etichettatura sta per sbarcare in tavola. Si chiama “climate labelling” e nasce in perfetto tema con la sostenibilità ambientale di cui tutti i leader politici della Terra, almeno a parole, dicono di condividere. In queste settimane, al G20 di Roma prima e al Cop26 di Glasgow fino a domani, le emissioni di CO2 sono oggetto di analisi e attenzioni di governi, stampa e associazioni ambientaliste come non mai.

Alla base del “climate labelling” relativo al cibo vi è l’idea che il consumatore debba conoscere l’impatto che il prodotto acquistato ha sull’ambiente. Come? Attraverso l’indicazione della quantità di CO2 emessa per farlo arrivare sulla sua tavola. A seconda che tale impatto sia basso, medio o elevato, l’etichettatura sarà accompagnata da un colore diverso: si va dal verde al rosso, ancora una volta come per un semaforo.

Sostenibilità ambientale con l’etichettatura alimentare

Un modo abbastanza semplice di segnalare al consumatore se il suo acquisto stia contribuendo o meno alla sostenibilità ambientale. Eppure, questa etichettatura rischia di mettere in ginocchio la globalizzazione per la mentalità che vi sta dietro. Nel Regno Unito, persino l’authority finanziaria ha lanciato l’idea di introdurre un “climate labelling” per gli investimenti. In sostanza, chi investe deve conoscere quale sia l’impatto ambientale dell’asset acquistato.

A primo acchito, potremmo pensare che non vi sia nulla di male (anzi!) nell’accrescere la consapevolezza del consumatore, ammesso che oggi sia scarsa. Ma vi siete chiesti a cosa porterà questa mentalità da schedatura degli acquisti? Le emissioni di CO2 sono legate in buona parte ai processi di produzione, per cui un prodotto biologico tendenzialmente dovrebbe rivelarsi più amico dell’ambiente di uno che non lo è.

E fin qui ci siamo. Ma contano anche i km percorsi tra il luogo di produzione e quello di vendita. E qui la questione si complica.

Prendete un’azienda agroalimentare italiana, che rispetta tutti gli standard ambientali e di qualità possibili. Dovendo esportare il prodotto in Cina, paradossalmente potrebbe ritrovarsi etichettata come inquinante per via del lungo tragitto percorso. E magari sugli scaffali dei supermercati a Pechino sarà considerato più salutare per il “climate labelling” un prodotto del posto, pur frutto di un processo poco rispettoso dell’ambiente e della stessa salute del consumatore.

Fine della globalizzazione?

Se ancora pensate che sia giusto così, ponetevi un’ulteriore domanda: quanto potrà reggere a lungo la globalizzazione con questa mentalità del km zero? Se tutto deve essere processato sul posto, al fine di limitare le emissioni di CO2, le filiere produttive dovranno necessariamente accorciarsi, ma con la conseguenza che gli scambi commerciali tra stati e regioni della Terra si ridurranno. Gli italiani mangeranno essenzialmente italiano (e potremmo pure essere contenti così), ma gli americani mangeranno americano, i russi russo, i cinesi cinese, per cui alla fine non venderemo più il nostro Made in Italy alimentare a nessuno.

Applicate lo stesso ragionamento a ogni bene e servizio e vi ritroverete con mercati chiusi, con una globalizzazione di fatto morta e con una forte riduzione degli scambi e della ricchezza. Affermare questo non significa ignorare la necessità di porre in atto azioni concrete e quotidiane a favore della sostenibilità ambientale. Semplicemente, pensare che sia un’ennesima forma di etichettatura alimentare a risolvere il problema è ipocrita e, soprattutto, un boomerang per la stessa lotta ai cambiamenti climatici. Perché la globalizzazione da un lato può essere vista negativa per l’impatto che gli interscambi hanno sull’ambiente, dall’altro crea le condizioni per l’avanzamento tecnologico e la crescita della ricchezza, tali da aumentare le soluzioni e la sensibilità al tema.

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