Sono successe tante cose alle banche americane negli ultimi giorni. Due di loro sono fallite – SVB e Signature – e una terza è sull’orlo del collasso, tanto che giovedì scorso undici istituti hanno iniettato 30 miliardi di dollari di liquidità sui conti di First Republic Bank dopo la corsa agli sportelli di cui è rimasta vittima. I suoi bond sono stati declassati a “spazzatura” dall’agenzia di rating S&P. Ma sotto sotto sta succedendo molto di più. Lo svelano i dati della Federal Reserve, il cui bilancio al 15 marzo scorso era aumentato di ben 297 miliardi di dollari in appena una settimana, portandosi ai massimi dagli inizi di novembre.

In pochi giorni, sono stati cancellati quattro mesi di Quantitative Tightening, la stretta monetaria che la banca centrale americana stava perseguendo attraverso la riduzione degli asset in portafoglio.

Bilancio FED

Cos’è successo di preciso? Nella settimana al 15 marzo scorso, le banche americane hanno richiesto alla FED liquidità per 164,8 miliardi di dollari, di cui 152,85 miliardi attraverso il “discount window”. Quest’ultima cifra è risultata in fortissima crescita dai 4,58 miliardi della settimana precedente e ha segnato un nuovo record assoluto nella storia americana. Il precedente fu di 111 miliardi e risaliva ai giorni del crac di Lehman Brothers nel settembre 2008. Altri 11,9 miliardi sono stati richiesti sotto il nuovo programma di emergenza Bank Term Funding Program (BTFP). Esso consente alle banche americane di accedere alla liquidità, ottenendo la valutazione alla pari del collaterale di garanzia più solido. In parole povere, le banche possono ricevere dollari cedendo alla FED il proprio portafoglio di titoli di stato valutato alla pari e non ai prezzi di mercato molto più bassi.

Banche pongono fine a normalizzazione monetaria

Questo stratagemma consente il trasferimento di perdite private in capo alla banca centrale americana. Nulla di nuovo sotto il sole. Le banche sono per il libero mercato finché il libero mercato fa i loro interessi.

Nel momento in cui ciò non accade, diventano fautrici dell’intervento dello stato in economia. Alias, i contribuenti devono ripianare i loro debiti. E i guai che hanno provocato il crac di SVB derivano proprio dal crollo dei prezzi delle obbligazioni a bilancio.

Peraltro, il “discount window” stesso sta consentendo alle banche di cedere gli asset più sicuri con valutazioni alla pari. Ed è anche per questo che la richiesta di liquidità sta interessando questa finestra e non il nuovo programma. A parità (o quasi) di condizioni offerte, meglio non rischiare l’effetto stigma. Il BTFP non è anonimo e chi dovesse farvi ricorso rischierebbe di essere additato sui mercati come sull’orlo del crac.

A questo punto, la stretta non esiste più. Questa settimana, probabilmente la FED alzerà i tassi d’interesse per l’ultima volta e per lo 0,25%. Sarà un bluff per non mandare i mercati nel panico e segnalare che tutto stia procedendo come da tabella di marcia. In realtà, la lotta all’inflazione non figura più in cima ai pensieri del governatore Jerome Powell. Grosso modo vale lo stesso per l’Eurozona. Le banche hanno sete di liquidità e i governatori temono di inasprire le condizioni monetarie al punto da provocare il collasso del sistema finanziario. Neanche il tempo di immaginare la riduzione dei mega-bilanci accumulati in questi anni, che subito questi tornano a lievitare. Con buona pace della normalizzazione monetaria.

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