L’altro ieri, l’agenzia Reuters ha confermato l’indiscrezione sull’interesse di Unicredit per Commerzbank, pubblicando la notizia che la banca italiana avrebbe affidato a JP Morgan e Lazard il mandato di advisor per scrutare la possibile rilevazione. Già dall’avvio delle trattative, poi fallite, tra Deutsche Bank e Commerzbank si era diffusa la voce che Piazza Gae Aulenti avrebbe potuto presentare un’offerta. I potenti sindacati di Ver-Di, che in Germania riuniscono i lavoratori del settore terziario, si sono opposti già alla possibile integrazione con l’italiana, memori della chiusura di numerosi sportelli di HVB, la controllata Unicredit rilevata ai tempi per 15 miliardi di euro, che è stata ridotta a concentrare le sue attività in due soli Laender, la Baviera e il Baden-Wuerttemberg, le regioni tedesche più ricche.

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E un secondo grande ostacolo per Jean-Pierre Mustier verrà dal governo di Berlino, ancora detentore di oltre il 15% di Commerzbank, a seguito della nazionalizzazione di inizio 2009. Se Unicredit volesse comprarsi la banca tedesca, dovrebbe spendere fino a un massimo di 10 miliardi. In borsa, al momento questa ne vale 9,4 e va da sé che un premio agli aderenti all’eventuale OPA dovrebbe essere concesso. Ma non è detto che l’operazione avverrà in denaro; potrebbe esservi anche solo uno scambio azionario o un mix tra denaro e azioni. Ai valori attuali, oggi Unicredit capitalizza a Piazza Affari più di 24 miliardi, oltre 2,5 volte Commerzbank.

L’ipotesi dello swap azionario

Supponiamo che l’integrazione avvenisse solo tramite uno “swap” azionario, per cui gli azionisti Commerzbank aderenti all’offerta otterrebbero 1 azione Unicredit per ogni 2,5 azioni detenute. Al termine dell’integrazione, tutta la banca tedesca peserebbe nel capitale combinato per il 28%. Se così fosse, i tedeschi diverrebbero di gran lunga i primi soci dell’italiana, che vedono oggi il fondo Aabar di Abu Dhabi primeggiare con appena il 5,04%, seguito da Dodge & Cox al 5,002% e da Norges Bank al 3,0021%.

Già oggi, quella che consideriamo una banca “italiana”, lo è poco, se si tiene conto che gli istituzionali tricolori posseggono appena il 2,6% del capitale, mentre solamente quelli americani ben il 33,2%.

Con l’eventuale ingresso di Commerzbank, la quota degli istituzionali italiani scenderebbero ulteriormente sotto il 2%, mentre indirettamente il governo tedesco da solo peserebbe per oltre il doppio, fatta la proporzione tra il suo pacchetto in Commerzbank e il suo valore percentuale nel capitale combinato. A quel punto, a chi risponderebbe Unicredit? Non sono domande secondarie, anzi diventano nodi da sciogliere ancor prima di un’eventuale integrazione, non attesa comunque per quest’anno, data la complessità della situazione. Milano sarebbe una sede solo formale e a comandare sarebbe nei fatti Berlino? E se sì, a quale stato risponderebbe la banca nel caso di problemi finanziari?

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Unicredit risucchiata dai tedeschi?

La questione è dirimente, perché sappiamo con certezza che i tedeschi avallerebbero l’operazione, a patto almeno che Unicredit si liberasse di grossa parte dei BTp in portafoglio. Parliamo di circa 58 miliardi di euro di titoli, che non a caso nelle scorse settimane Mustier ha annunciato voler tagliare, portandoli alla media europea, in relazione agli assets totali. Dunque, Unicredit dovrebbe vendere titoli di stato italiani per avere nel suo capitale il governo tedesco, che quasi certamente non farebbe da spettatore passivo delle decisioni di Milano e avrebbe, anzi, il peso per spostarne la governance a favore della Germania?

Essendo un azionista pubblico, che risponde non solo e non tanto a criteri strettamente di mercato, Berlino potrebbe dare l’ok alla fusione per la ragione opposta a quella che crediamo: non per avallare il controllo della tedesca da parte dell’italiana, bensì per mettere le mani in oltre 450 miliardi di depositi complessivamente detenuti da quest’ultima, indirizzandoli verso la Germania e impiegarli a sostegno della sua economia.

In buona sostanza, i risparmi degli italiani finirebbero per finanziare le imprese e le famiglie tedesche su presupposti “politici” e non tanto di mercato. E magari, se mai un giorno ci fosse da mettere mano al portafogli nel caso di criticità finanziarie, i tedeschi si girerebbero dall’altra parte, sostenendo che il soccorso spetti all’Italia, essendo la banca “italiana”, pur solo formalmente.

Attenzione a entusiasmarci per quella che troppo facilmente rischiamo di confondere per una conquista, mentre avrebbe tutti i presupposti per trasformarsi in una cooptazione all’incontrario. La Germania è un’economia “banco-centrica” e se agli inizi del millennio ha avallato la cessione di HVB a Unicredit fu solo perché trattavasi di un istituto secondario e nemmeno con filiali su tutto il territorio nazionale. Commerzbank è diversa, essendo rimasta l’unica banca tedesca di medio-grandi dimensioni a prestare denaro all’economia reale, per il resto ci pensano quasi esclusivamente le Landesbanken, mentre a Deutsche Bank è stato concesso di fare finanza speculativa all’estero e di non rompere più di tanto in patria.

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