Torniamo a intervistare con molto piacere Paolo Cardenà, Private Banker, consulente finanziario e uno dei più popolari blogger di economia e finanza in Italia, a cui fa capo il sito vincitorievinti.com, il cui successo si deve sia all’accuratezza delle analisi, sia anche a un linguaggio e contenuti schietti. Stavolta, le domande vertono sul rischio Italia in vista delle elezioni politiche e sulla nuova geo-politica mondiale.

Le elezioni politiche si avvicinano, anticipate o meno. Non siamo più certi, come nelle settimane scorse, che si voti con un proporzionale alla tedesca in salsa italiana, ma intanto i mercati hanno iniziato a innervosirsi sul possibile rischio di instabilità o anche di una maggioranza euro-scettica. Secondo Lei, cosa dovremmo temere sul piano finanziario?

In realtà per capire cosa potrebbe accadere sui mercati, sarebbe opportuno partire proprio dal modello di legge elettorale che stava nascendo.

Come sappiamo, nei giorni scorsi la legge è stata affondata alla camera, ma ciò non toglie che nelle prossime settimane, proprio dalle ceneri della riforma elettorale, possa rinascere qualcosa di molto simile. Magari con un accordo più ristretto, circoscritto al Partito Democratico e a Forza Italia. La legge elettorale in gestazione rispondeva all’esigenza di raggiungere un duplice obiettivo: il primo evitare che il Movimento 5 Stelle avesse avuto la possibilità di diventare forza di governo; il secondo evitare che il Pd (in caso di vittoria) assumesse a sé tutta la responsabilità delle scelte di governo impopolari nei prossimi anni.

Da queste esigenze sarebbe dovuta nascere una legge elettorale idonea ad arginare, quanto più possibile, il movimento di Grillo e quindi una legge che alla fine non avrebbe consegnato una maggioranza assoluta. In altre parole, qualsiasi partito avesse ottenuto al maggioranza relativa, avrebbe dovuto comunque fare accordi con altre forze politiche. In questo senso, data la peculiare connotazione del Movimento 5 Stelle (non incline a fare accordi), nel caso avesse ottenuto la maggioranza relativa, non avrebbe potuto governare in mancanza di accordi.

Dall’altra parte, nel caso in cui la maggioranza relativa fosse stata ottenuta dal Pd, avrebbe implicato comunque degli accordi di governo con altre forze politiche (Forza Italia) al fine di dar vita ad un esecutivo in grado di governare. Anche se negli ultimi anni si è assistito ad una deriva verso destra delle politiche del Pd, ritengo che un’alleanza di governo con Forza Italia sarebbe frutto di una serie di compromessi stringenti potenzialmente in grado di depotenziare l’azione dell’esecutivo nascente.

Da qui la preoccupazione dei mercati, timorosi di un governo con deboli capacità riformatrici, nonostante la fragilità dei conti pubblici, l’alto indebitamento e le deboli prospettive di crescita. Infatti, tali timori, negli ultimi giorni, si sono tradotti in un allargamento dello spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi, proprio a riflettere la nascente preoccupazione derivante dal quadro politico appena descritto. (Leggi anche: Mercati euforici per elezioni meno vicine, ma ecco perché sbagliano)

E’ ormai assodato che il PD voglia andare alle urne prima del varo della legge di Stabilità, la quale dovrà affrontare il nodo delle clausole di salvaguardia. A Suo avviso, come finirà? L’Europa ci farà uno sconto? E chi concretamente metterà mano alla manovra?

Le clausole di salvaguardia valgono circa 20 miliardi di euro. Il Pd non può permettersi di presentarsi davanti agli elettori a solo 3 mesi di distanza dall’approvazione di un’altra manovra di bilancio che rischia di essere un vero e proprio salasso (c’è il rischio che venga aumentata l’Iva e non solo). Anche perché ciò amplificherebbe la possibilità di affidare al Movimento 5 Stelle il governo del paese (con i limiti di cui al punto precedente). Quanto appena affermato spiega ampiamente l’intenzione di Renzi di voler tornare alle urne in autunno (quindi prima della manovra di bilancio 2018), e la rapidità con la quale il Pd si è diretto verso le primarie e poi verso l’assemblea nazionale che lo ha nominato segretario del partito, conferma questa ipotesi.

Se tutto il ragionamento dovesse risultare corretto (non lo so, lo vedremo) il nuovo governo (verosimilmente Pd con qualche alleanza), che a quel punto avrebbe davanti a sé 5 anni di legislatura, dovrebbe varare la manovra robusta di cui ho detto sopra.

Per dirla in altri termini: prima si va al voto e dopo si tassa. Ma credo che se non fosse possibile andare al voto in autunno, l’evoluzione del quadro politico in Italia dipenderà anche dalla “clemenza” della Ue che, al fine di evitare di contribuire al deterioramento del consenso politico che potrebbe favorire l’avanzata di composizioni politiche “ostili”, potrebbe differire in avanti parte della manovra necessaria a disinnescare le clausole di salvaguardia, alleggerendo l’aggiustamento fiscale nell’anno in corso. Non è un caso che il Ministro Padoan, nei giorni scorsi, si sia attivato per chiedere di differire 9 miliardi di euro. (Leggi anche: Clausole di salvaguardia un cappio al collo dei contribuenti italiani)

In scia alla ripresa dell’Eurozona, l’Italia potrebbe quest’anno vedere aumentare il suo pil ai massimi dal 2010, anche se intorno all’1%. Vero è anche che il peso del debito pubblico non accenna a diminuire e che i rendimenti dei BTp dovrebbero salire per effetto del “tapering” della BCE. Pensa che una stretta monetaria possa prima o poi fare saltare il tappo o che l’economia italiana si mostrerà resiliente ad eventuali shock sul fronte spread?

L’Italia è il paese che più degli altri ha subito gli effetti prodotti della grande recessione, che poi si è evoluta e integrata con la crisi del 2011 e degli anni successivi. Negli ultimi anni, nonostante le condizioni esterne eccellenti  (bassi tassi di interesse, robusta crescita economica nel contesto globale, bassi prezzi del petrolio, euro debole, politiche ferocemente espansive dal parte della Bce) l’Italia ha ottenuto  delle performance deludenti sul fronte economico e del debito pubblico.

Anzi, eccetto la Grecia, l’Italia è il Paese che negli ultimi anni è cresciuto meno, confermando l’ormai consolidata tradizione e il triste primato. Il mix di elementi di pericolo e di fragilità rende il quadro assai preoccupante, sopratutto in ottica futura, quando si potrebbe assistere al deterioramento o al rallentamento della crescita globale.

Il debito pubblico è aumentato esponenzialmente fino a due anni fa.  A inizio della crisi era 1600 miliardi, circa il 100% del Pil. Da quell’epoca è cresciuto di oltre 600 miliardi (quasi un terzo dello stock di allora) raggiungendo il 133% del Pil, che invece è rimasto stagnante. Negli ultimi anni, nonostante i fattori eccellenti, il debito si è appena stabilizzato e un’inversione di tendenza appare poco credibile. Tanto più se si considera lo scenario di aumento dei rendimenti dovuto a una politica monetaria meno accomodante.

Sul fronte della gestione del debito pubblico, gli esperti del tesoro, approfittando dei bassi tassi, hanno allungato la duration. Il che depone a favore di una maggiore resilienza nel caso di shock sui rendimenti. Ma l’evidente difficoltà dell’Italia ad esprimere tassi di crescita maggiori, rende il nostro paese assai vulnerabile. C’è poi da aggiungere la fragilità di ampi strati del sistema bancario, che è arrivato allo stato in cui si trova grazie all’omertà dei governi che si sono alternati alla guida del paese negli ultimi anni. (Leggi anche: Crescita Italia nelle mani di Draghi, ecco il grafico)

Se dovesse suggerire 2-3 azioni di governo, in grado di risollevare le sorti della nostra economia, quali indicherebbe? E le ritiene possibili a quali condizioni?

Mi fa una domanda la cui risposta implica un trattato di economia, soprattutto per spiegare le motivazioni alla base di quello che io definisco il minimo sindacabile per cercare di raddrizzare le sorti dell’Italia. E non è detto che ci si riesca. Cerco di rispondere. Partiamo dal fatto che, dopo dieci anni di crisi, ho la sensazione che siano saltati molti equilibri. Mi riferisco soprattutto agli equilibri in base ai quali si fondava (dovrebbe fondarsi) il rapporto tra fisco e contribuente.

La crisi ha prodotto un numero elevatissimo di soggetti insolventi, non solo nei confronti del sistema bancario, ma anche del fisco. Sia ben chiaro, non sto parlando di evasori fiscali ma semplicemente di soggetti che, pur avendo adempiuto correttamente agli obblighi imposti dal fisco, sono risultati inadempienti nel pagamento dell’obbligazione tributaria. E questo per diverse ragioni che non sto qui ad elencare. Questi soggetti oggi vivono in condizioni di “clandestinità fiscale” proprio per sfuggire alla morsa del fisco che cerca di recuperare il gettito della pretesa tributaria. Una condizione che, oltre ad essere espressione del dramma sociale di molte persone, non consente al fisco di intercettare nuova materia imponibile. Ma questo ha degli effetti devastanti anche sul piano economico, dato che a questi soggetti è preclusa la possibilità di spendere in beni che, altrimenti, potrebbero essere intercettati dal fisco e quindi pignorati.

Infatti, proprio per correre ai ripari, come saprà, il governo ha messo in campo una sorta di sanatoria per i debiti pendenti nei confronti dell’agente della riscossione, oggi assorbito dall’Agenzia delle Entrate. Il problema è che, a parer mio (ma ne sapremo qualcosa in più quando si conosceranno i dati ufficiali), dato che la sanatoria è molto poco attraente, questo istituto viene per lo più utilizzato dai contribuenti morosi per interrompere l’azione esecutiva di Equitalia, differendo il problema di qualche trimestre in avanti. Quindi la questione si riproporrà tra qualche tempo, ma nel frattempo si sarà perso del tempo prezioso. Che poi, gli stessi vertici dell’amministrazione finanziaria hanno ammesso che sui circa 700 miliardi che Equitalia deve incassare, risultano  esigibili appena una cinquantina di miliardi, che rappresentano appena il 7% del totale. Se questi sono i numeri, tanto vale cercare di incassare qualcosa in più, in maniera dilazionata nel tempo, ma rendendo più appetibile la sanatoria. Questo dovrebbe essere propedeutico a un nuovo patto tra fisco e contribuente, che ponga da un lato il contribuente in una condizione di maggior tutela, e dall’altro  il fisco con le evidenti necessità di fare cassa.

Per rispondere alla sua domanda, quindi direi:
1) Una riforma fiscale degna di un paese civile, in cui vengano elevati a rango costituzionale i principi espressi nello Statuto dei Contribuenti e che, una volta per tutte, impedisca al legislatore la possibilità di legiferare in modo schizofrenico in materia fiscale. Questo avrebbe degli effetti positivi nel mondo delle imprese, consentendo una più che necessaria pianificazione fiscale, ad oggi impossibile nel contesto italiano. Insomma, innescherebbe un percorso virtuoso con ovvi riflessi anche sugli investimenti.

2) Quindi, è indispensabile una versa sanatoria fiscale dei crediti vantati da Equitalia, eccettuati quelli derivanti da fenomeni evasivi conclamati compiuti da soggetti recidivi. In questo modo verrebbero riabilitati i soggetti inadempienti (e quindi non evasori) nei confronti del fisco, altrimenti costretti a vivere in condizioni di clandestinità fiscale, con effetti devastanti sia sul piano sociale che economico.

3) La crisi ha prodotto qualche milioni di soggetti insolventi nei confronti del sistema bancario. Si tratta di soggetti che vedono  preclusa qualsiasi possibilità di accesso al credito. Quindi, è indispensabile  un meccanismo di esdebitazione di tutti quei soggetti risultati insolventi per effetto della crisi. Dato che la fiducia verso il sistema bancario è condizione indispensabile per il buon funzionamento dell’ambiente economico, è indispensabile rafforzare il capitale del sistema bancario italiano attraverso l’intervento dello stato, seppur in contrasto con le norme sul bail-in. Magari a qualcuno  non piacerà la soluzione temporanea dello Stato nel capitale delle banche in difficoltà e si potrebbe anche obiettare che i livelli del debito pubblico sono già troppo elevati. Sicuramente c’è del vero, ma posto il fatto che soluzioni private sono di difficile applicazione date le dimensioni di capitali necessari (lo abbiamo visto con la nascita di Atlante), sarebbe preferibile un debito elevato con un sistema bancario in difficoltà (solo per usare un eufemismo) pronto a scricchiolare in occasione di una prossima crisi, o un debito eventualmente un po’ più alto ma con un sistema bancario sanificato, più solido e in grado di affrontare con maggior serenità un’eventuale prossima crisi? (Leggi anche: Cardenà: con bail-in rischiamo controlli sui capitali)

Se da un lato l’intervento pubblico determinerebbe l’aumento del debito, dall’altro l’intero sistema Italia ne riuscirebbe rafforzato: verrebbe ristabilita la fiducia nel sistema bancario che a qual punto potrebbe guardare con più favore il cotesto economico, e quindi aumentare il credito all’economia. Questo, unitamente alle riforme di cui l’Italia ha bisogno, contribuirebbe ad innescare un meccanismo virtuoso che avrebbe riflessi positivi sia sull’economia e sui conti pubblici.

4) Occorre creare  veicoli finanziari idonei a favorire la capitalizzazione delle piccole e medie imprese (che comunque presuppone un contesto più favorevole. Vedi primo punto), aumentando l’incidenza dei mezzi propri in modo da migliorare i requisiti patrimoniali di accesso al credito e quindi il merito creditizio, poiché deteriorato per effetto della crisi.

Crede che dopo le elezioni torneremo a un’agenda economica riformatrice o che il triennio renziano sia stato ormai sprecato e non possa più essere riesumato per varare riforme finalmente credibili e di stimolo per la crescita nel medio-lungo termine?

Credo che gli ultimi governi abbiano sprecato la finestra di opportunità offerta dalle politiche espansive della Bce e che invece di avere una visione di lungo periodo, idonea a riformare l’Italia e proiettarla verso i prossimi 10 o 20 anni, si sia guardato troppo agli interessi di bottega dei partiti che hanno governato. L’espressione più tangibile di quanto appena affermato è rappresentata proprio dalle clausole di salvaguardia, ossia spesa a deficit di pessima qualità, finalizzata per lo più ad acquisire consenso elettorale.

Credo altresì che il governo Renzi abbia dissipato anche quella che da molti era considerata una speranza riformatrice per l’Italia. Egli ha commesso il grande errore di ingessare e dividere per due anni il paese in una  riforma costituzionale che poi  è stata sonoramente bocciata dagli italiani. Ha anche alle sue spalle una legge elettorale (l’Italicum) bocciata dalla Corte Costituzionale e un’altra affossata dal suo stesso partito pochi giorni fa. Inoltre l’inerzia e l’omertà del suo governo sul fronte della crisi delle banche italiane, rischia di costare molto agli italiani, ed oggi certamente di più rispetto a quello che sarebbe costata ieri con un intervento risolutivo. (Leggi anche: Ripresa economica, ecco come l’Italia ha sprecato un’opportunità)

Insomma, dall’esperienza di governo, Renzi ne è uscito con un’immagine assai offuscata, a mio avviso anche agli occhi degli altri paesi europei dei mercati. Detto questo non credo troppo alla capacità riformatrice della classe politica italiana e questo rischia di avere delle significative implicazioni nei prossimi anni, qualora le condizioni economiche dovessero farsi meno favorevoli.

Dopo la vittoria di Emmanuel Macron in Francia, l’asse franco-tedesco sembra rafforzarsi. Parigi spinge per una maggiore integrazione politica, ovvero per un ministro delle Finanze unico e un bilancio comune. Non vengono esclusi nemmeno gli eurobond. Pensa che l’Italia dovrebbe assecondare tali richieste? E perché?

In Francia e nellEurozona la sconfitta della Le Pen ha cambiato i connotati dei possibili scenari, almeno per i prossimi anni. Prima delle elezioni francesi ci si chiedeva cosa sarebbe potuto accadere nel caso in cui la Le Pen avesse vinto le presidenziali e che cosa ne sarebbe stato dell’euro. Così non è stato e la leadership di Macron per il momento  ha archiviato i rischi (o le opportunità, dipende dai punti di vista) connessi alla dissoluzione dell’euro per via dell’affermarsi di forze politiche no euro. Come ho sempre sostenuto, in Italia, al momento non esiste un rischio connesso all’affermarsi di forze politiche no euro, per il semplice fatto che queste, nel complesso, non esprimono livelli di consenso elevati.

Nemmeno esiste una classe politica capace di assumere una scelta così importante (come appunto l’uscita dall’aeuro), che peraltro distruggerebbe l’enorme investimento  del patrimonio politico che la creazione dell’euro ha presupposto negli ultimi 50 anni di storia politica europea. In estrema sintesi, quindi, credo che  
che l’Italia, anziché governare dall’interno un eventuale uscita dall’euro, sarà destinata a subirla nel caso in cui  qualche altro paese (magari fondatore) dovesse sganciarsi per primo dall’unione monetaria, provocando la dissoluzione della moneta unica. In questo caso, non appare affatto remota la possibilità che l’Italia si trovi a dover affrontare questa eventualità (quella della dissoluzione dell’euro) in maniera del tutto impreparata e senza un piano “B” che consenta di contrastare, per quanto possibile, lo shock che ne deriverebbe.  (Leggi anche: Perché Macron può fare più male che bene all’Italia)

Tuttavia, a mio avviso,  la vittoria di Macron in Francia ha spostato in  avanti le lancette dell’orologio. Più o meno tutti sono perfettamente consapevoli che l’euro, nell’attuale  connotazione, difficilmente resisterà a una prossima crisi. Da qui l’esigenza di riformare profondamente non solo l’euro per come lo conosciamo, ma anche la governance dell’Unione Europea. Non so dire fino a che punto la vittoria di Macron in Francia determinerà un impulso consistente a rifermare l’Eurozona, ma ho seri dubbi che ciò possa avvenire. E non avverrà principalmente perché la Germania non crede (o forse non ha mai creduto) ad una vera e propria unione politica ed economica dei Paesi che compongono l’unione monetaria, né sarà in grado di assumerne la leadership, per evidenti complessi derivanti dal suo trascorso storico. In ogni caso, a mio avviso, l’Italia sarà destina ad accodarsi alle scelte degli altri, in perfetta sintonia con ciò che è avvenuto negli ultimi anni. In estrema sintesi, credo che l’Italia, orfana di una leadership forte capace di salvaguardare gli interessi nazionali, sarà destinata ad avere un peso marginale alle decisioni che riguarderanno la governance della UE.

A sorpresa, i conservatori del premier britannico Theresa May hanno perso la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera dei Comuni alle elezioni di giovedì scorso. Adesso, le trattative sulla Brexit potrebbero diventare più difficili. Quale scenario intravede Lei?

Alla vigilia dei negoziati sulla Brexit, la posizione della Gran Bretagna, alla luce del risultato elettorale, appare tutta in salita. E’ verosimile attendersi che le trattative verranno condotte da un governo debole, minato dall’opposizione e con un profilo incerto in Europa. Nei giorni che separano la Gran Bretagna dall’avvio dei negoziati, i Conservatori dovranno combattere per affermare la propria leadership e con un Partito Laburista arroccato su posizioni radicali di sinistra. In questo contesto è possibile che la Gran Bretagna dovrà mostrarsi più disposta a compromessi su questioni come l’immigrazione, ma la componente euroscettica del Partito Conservatore rimane evidente.

Avviare le negoziazioni in un contesto caotico non favorirà certamente la Gran Bretagna, tanto meno nelle discussioni sul conto che l’Unione Europea intende imporle per la Brexit. Seguendo un approccio più pragmatico, le trattative potrebbero però orientarsi verso il modello norvegese. 

Theresa May cercherà presumibilmente di formare una maggioranza con l’aiuto del DUP. Se non dovesse riuscire, è probabile che Jeremy Corbyn cerchi di formare una coalizione che comprenda i Laburisti e altri partiti più piccoli, anche se non credo che questa possa essere una soluzione praticabile. Forse nei prossimi mesi potrebbero essere indette nuove elezioni.  Dal punto di vista macroeconomico, il risultato delle elezioni dovrebbe indurre la Banca d’Inghilterra a una linea più accomodante. Sussiste infatti il rischio che l’incertezza prodotta dall’esito elettorale possa provocare un calo nella fiducia delle imprese e dei consumatori. (Leggi anche: Elezioni UK, risultati shock: conservatori senza maggioranza)