Robert Alexander Mundell è morto domenica 4 aprile nella sua residenza di Siena all’età di 88 anni. L’economista canadese è stato artefice di un lavoro sulle “aree valutarie ottimali”, che nel 1999 gli valse il Premio Nobel per l’Economia. Diversi quotidiani, tra cui l’autorevole “New York Times” lo hanno celebrato come “padre dell’euro”, sebbene questa non sia corretto come vedremo.

Fin dagli anni Cinquanta, quando i tassi di cambio fissi la facevano la padroni con l’ordine monetario sancito a Bretton Woods nel 1944, l’uomo pubblicò una serie di articoli, nei quali sosteneva che in alcune aree e regioni sarebbe stato opportuno adottare cambi fissi, anziché flessibili.

In ciò, si scontrò con un altro futuro Premio Nobel, Milton Friedman, il quale sosteneva l’esatto contrario, ovvero che le economie avrebbero avuto adottare cambi flessibili per reagire alle forze del mercato.

Ad avviso di Mundell, invece, in Europa sarebbe stato appropriato tendere più a tassi di cambio fissi. Per questo, oggi viene considerato un ispiratore dell’euro. In realtà, la sua teoria sulle aree valutarie ottimali smentirebbe almeno in parte che l’euro sia una di esse. A suo fondamento dovrebbe esserci una buona mobilità sia del capitale che del lavoro, cosa che non è. All’interno dell’Eurozona, le barriere linguistiche e culturali frenano gli spostamenti delle persone, per cui non vi è una forte mobilità tra stati. Questo renderebbe l’euro un’area valutaria non ottimale, nel senso che un’economia non avrebbe la possibilità di reagire velocemente e adeguatamente a uno shock. Esempio: se l’Italia entra in crisi per una qualsiasi ragione, non può confidare su un aggiustamento della lira nei confronti del marco tedesco per esportare di più e rilanciare la crescita, dato che insieme alla Germania condivide l’euro. L’assorbimento dello shock avverrebbe nel caso in cui l’eccesso di manodopera italiana si trasferisse in Germania, ma abbiamo escluso che ciò avvenga in misura così rilevante.

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Il taglio delle tasse a sostegno della crescita

Un altro aspetto della teoria di Mundell risiede nel contributo della politica fiscale e della politica monetaria. Ad avviso dell’economista, in un regime di cambi flessibili la politica fiscale ha un ruolo scarso nell’incidere sui tassi di crescita dell’economia, mentre la politica monetaria ne avrebbe uno rilevante. Viceversa, in un regime di cambi fissi è la politica fiscale ad assumere un ruolo rilevante nel sostenere la crescita. In estrema sintesi: se taglio le tasse e/o aumento la spesa pubblica in un regime di cambi flessibili, il risultato che ottengo è di far lievitare i tassi d’interesse e, quindi, di attirare capitali, i quali finiranno con il rafforzare il tasso di cambio (oltre a colpire gli investimenti), riducendo l’efficacia della politica fiscale.

Viceversa, se taglio le tasse e/o aumento la spesa pubblica in un regime di cambi fissi, questo effetto collaterale non si materializzerebbe e, quindi, la politica fiscale si mostrerebbe più efficace. Ma l’Eurozona non ha per niente fatto leva su di essa per stimolare la crescita, anzi l’ha relegata in una condizione assolutamente secondaria in questi primi due decenni dell’euro, per cui non possiamo affermare che il pensiero di Mundell abbia ispirato granché i fautori della moneta unica.

E l’economista si occupò a lungo anche di tasse. Egli propugnava aliquote fiscali basse, sostenendo che per i più poveri sarebbe stato meglio attingere a “una piccola fetta di una torta grande, anziché a una grossa fetta di una torta piccola”. La sua lezione, assieme a quella di Arthur Laffer, fu appresa da Ronald Reagan, che durante i suoi otto anni di presidenza (1981-1989) la tradusse in un forte taglio delle tasse, con l’aliquota più alta sui redditi delle persone fisiche abbassata dal 70% al 27%.

Secondo Mundell, l’aliquota più alta non avrebbe dovuto superare il 25%. Chi oggi tesse le lodi dell’uomo, dovrebbe ricordarsene quando probabilmente propugna stangate fiscali.

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La stretta sui tassi contro l’inflazione

Infine, il modello Mundell-Fleming, così chiamato perché costruito assieme all’economista Marcus Fleming, teorizza la “Trinità impossibile”: un’economia con regime di cambi flessibili e perfetta mobilità dei capitali non può anche mantenere una politica monetaria indipendente. Al massimo, potrà tenere due delle tre condizioni, ma mai tutte e tre contemporaneamente. Una lezione che oggi andrebbe ascoltata da quanti pretendono di ritagliarsi una politica monetaria del tutto sconnessa dalla realtà, rifugiandosi in una sorta di autismo economico. Stiamo parlando, anzitutto, della Turchia del presidente Erdogan, nemica dei tassi alti per combattere l’inflazione e che divora da anni un governatore centrale dopo l’altro, puntando a tassi d’interesse bassi per sostenere la crescita. Mundell, invece, fu un sostenitore della stretta monetaria contro l’inflazione e anche questo suo pensiero divenne elemento portante della Reganomics negli anni Ottanta, grazie all’ausilio determinante dell’allora governatore della Federal Reserve, Paul Volcker. Se potessimo riassumere in una battuta, diremmo che egli propinò “basse tasse e alti tassi”. La leva fiscale deve servire per stimolare la crescita, quella monetaria per garantire la stabilità dei prezzi. La prima risulta scarsamente efficace quando i tassi di cambio sono liberi di fluttuare contro tutte le altre valute, ma non quando l’economia si trova in un regime di cambi fissi come l’euro.

Cos’è questa teoria di Erdogan sull’inflazione, che sta portando l’economia turca allo sfacelo?

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